Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento e sentenza penale irrevocabile di assoluzione
Appalto e sicurezza del lavoro

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 2018, n. 349

Pres. Manna; Rel. Cinque; P.M. Mastroberardino; Ric. B.A. s.p.a.; Controric. M.R.;

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Applicazione - Limitazione ad un solo reparto/unità - Illegittimità in caso di mansioni fungibili - Onere prova della fungibilità a carico del lavoratore

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti dell’azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l’onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.

Nota

La Corte d'Appello di Roma ha rigettato il reclamo proposto avverso la pronuncia del Tribunale di Civitavecchia con la quale era stata confermata l’ordinanza, emessa all’esito della fase sommaria, di declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimato a seguito di procedura di licenziamento collettivo ex L. 223/1991. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto non corretta la mancata valutazione da parte della società della natura fungibile delle mansioni espletate dal ricorrente - dotato di specifici titoli ed abilitazioni - e la sua mancata comparazione con i lavoratori appartenenti a diverso reparto escluso dalla procedura di licenziamento collettivo.

Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi, entrambi respinti dalla Suprema Corte che, richiamando specifici precedenti in termini (Cass. 16 settembre 2016, n. 18190; Cass. 3 maggio 2011, n. 9711; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203) ha affermato il principio di cui alla massima. Secondo il consolidato insegnamento della Cassazione, infatti, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità ai soli dipendenti addetti ad un determinato reparto, ma deve valutare la fungibilità delle loro mansioni con quelle svolte da colleghi addetti ad altre unità. Conseguentemente, non è legittima la scelta dei lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, laddove si trascura il possesso, in capo agli stessi, di professionalità equivalenti a quelle di colleghi di altri settori aziendali.

Alla stregua di tali principi la Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione dei giudici del merito che, in considerazione della pregressa nomina del ricorrente ad addetto alle contravvenzioni ed ispezioni nonchè del possesso di un attestato rilasciato a seguito di specifico corso di formazione, lo hanno ritenuto dotato di professionalità analoga a quella dei dipendenti di altro settore aziendale escluso dalla procedura di mobilità in quanto ritenuto strategico ed essenziale. Correttamente, pertanto il licenziamento era stato dichiarato illegittimo.

Il ricorso viene, quindi, respinto. 

 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 11 gennaio 2018, n. 509

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Ceroni; Ric. F.R.; Controric. S.S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Congedo parentale ex art. 32, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 151 del 2001 - Natura e funzione - Abuso - Configurabilità - Conseguenze

In tema di congedo parentale, l'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, nel prevedere - in attuazione della legge delega n. 53 del 2000 - che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall'ente previdenziale un'indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell'ente tenuto all'erogazione dell'indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia.

Nota

Nel caso in esame la società licenziava per giusta causa un lavoratore dopo aver accertato che lo stesso aveva svolto altra attività lavorativa durante il periodo di congedo parentale. Il lavoratore impugnava il licenziamento.

La Corte di Appello di L'Aquila confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto l'opposizione all’ordinanza emessa all’esito del procedimento Fornero.

La Corte territoriale, conformemente ai giudici di prime cure, riteneva fondato l'addebito accertato sulla scorta di indagini investigative della società, dalle quali era emerso che il lavoratore, per oltre metà del tempo concesso a titolo di permesso parentale, non aveva svolto alcuna attività a favore del figlio.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore contestando ai giudici di merito di aver fondato il loro giudizio esclusivamente sulla correttezza della fruizione dei congedi parentali ed in particolare sul fatto che il padre avesse trascorso con il figlio un lasso temporale pari al 50% dell'orario di lavoro giornaliero (8 ore) per cui si era assentato. Per il lavoratore tanto nel D.Lgs. n. 151 del 2001, quanto nella L. n. 53 del 2000 , non v'è traccia della necessità che il congedo sia gestito garantendo al minore una presenza "prevalente", ovvero caratterizzata da continuità ed esclusività.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione la giurisprudenza costituzionale ha affermato, fin dagli anni ottanta, l'operatività della garanzia costituzionale prevista dall’articolo 31 Cost. anche alla paternità, sul presupposto che la tutela assolva anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino.

La successiva evoluzione del quadro normativo, secondo le linee indicate da questa giurisprudenza, ha portato - in base alla delega contenuta nella L. 8 marzo 2000, n. 53 - all’introduzione del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

Alla stregua di tale disciplina, il congedo parentale è configurabile come un diritto potestativo, caratterizzato da un comportamento con cui il titolare realizza da solo l'interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell'altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà. Tale diritto viene esercitato con l'onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente previdenziale, nell'ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo dell’ente di corrispondere l'indennità.

All'inserimento di tale diritto nel campo dei poteri diretti a creare, modificare, estinguere situazioni giuridiche con una manifestazione unilaterale di volontà, senza la partecipazione di colui che deve subirne gli effetti, non sembra ostare il fatto che la legge richieda nel momento genetico della concessione del beneficio il rispetto di taluni oneri formali. Da ciò ne deriva che l’esistenza di tale diritto non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore.

Considerato quanto sopra, si verifica un abuso del diritto, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia. Ed infatti, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la tutela della paternità si risolva in misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia.

Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione nel corso del giudizio di primo grado era stata correttamente accertata la condotta del lavoratore lesiva della buona fede nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto di congedo si è visto ingiustamente privato della prestazione lavorativa del dipendente. La Suprema Corte ha pertanto ritenuto il provvedimento espulsivo proporzionato in quanto idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, anche in forza del disvalore sociale della condotta del padre lavoratore. 

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 2018, n. 331

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.V.; Controric. D.N.G. S.r.l.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Reintegrazione attenuata ai sensi dell’art. 18, co. 4 Statuto dei Lavoratori - Manifesta insussistenza del fatto - Portata residuale

In ipotesi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata - ordinando il ripristino del rapporto oltre al risarcimento del danno limitato nel massimo a dodici mensilità - esclusivamente nel caso in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, non pare dubitabile che l'intenzione del legislatore sia quella di riservare la sanzione reintegratoria ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria di cui al quinto comma dell’art. 18 S.L.

Nota

Una società operante nel settore della raccolta e smaltimento dei rifiuti e nettezza urbana riceveva un’interdittiva prefettizia che evidenziava il pericolo di infiltrazioni mafiose in ragione della presenza di lavoratori aventi precedenti penali e comunque vicini, per rapporti di parentela o affinità, ad esponenti dei locali clan mafiosi. Al fine di evitare la perdita degli appalti pubblici, l’impresa modificava la propria organizzazione, procedendo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei dipendenti citati nel provvedimento del prefetto.

Parallelamente, la società impugnava il provvedimento prefettizio dinanzi agli organi della giustizia amministrativa.

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento di uno di tali dipendenti per insussistenza del giustificato motivo oggettivo in ragione del fatto che il provvedimento prefettizio era stato successivamente dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo. La Corte territoriale, ritenendo che non potesse qualificarsi la fattispecie come manifestamente priva di fatti astrattamente idonei a cagionare il licenziamento, condannava l’azienda al risarcimento del danno pari a sei mensilità ai sensi dell’art. 18, comma sesto, S.L.

Il dipendente ricorreva in Cassazione; l’impresa resisteva con controricorso.

Il dipendente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 18 S.L. per non aver la Corte d’Appello ritenuto rientrante nell'ipotesi di «manifesta insussistenza» il licenziamento in esame, pur in assenza di qualsivoglia prova che il ricorrente avesse avuto dei legami con soggetti appartenenti alle consorterie mafiose.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso ribadendo il principio (già affermato, da ultimo, in Cass. 14021/2016) secondo cui, in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, la tutela reintegratoria ha natura meramente residuale. Infatti, poiché il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria, tra tutte le ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il fatto posto a base del licenziamento non solo non sussista, ma anche a condizione che detta insussistenza sia manifesta, ad avviso della Suprema Corte, non pare dubitabile che l'intenzione del legislatore – pur tradottasi in un incerto testo normativo – sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria di cui al comma quinto dell’art. 18 S.L.

Con riferimento al caso di specie, la Corte di Cassazione ha poi affermato che, nonostante al momento del licenziamento l’interdittiva prefettizia, afferente anche la posizione del lavoratore licenziato, fosse potenzialmente idonea ad incidere sul regolare funzionamento dell'organizzazione del lavoro e quindi ad integrare un giustificato motivo oggettivo di recesso, l’illegittimità del licenziamento deriva dall’omessa dimostrazione da parte della società delle ragioni che rendevano intollerabile attendere la rimozione del provvedimento prefettizio, mediante mera sospensione temporanea del dipendente nelle more del giudizio amministrativo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che tale ipotesi non fosse riconducibile a quella di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento, bensì in quella generale, di cui al quinto comma dell’art. 18 S.L., per la quale è sufficiente che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo.

Di conseguenza, in accoglimento di uno specifico motivo del ricorso principale, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata per aver erroneamente applicato il sesto comma dell’art. 18 S.L., con rinvio al giudice del merito al fine di quantificare l’indennità spettante al lavoratore tra il minimo di dodici e il massimo di ventiquattro mensilità ai sensi del quinto comma dell’art. 18 S.L. 

 

Licenziamento e sentenza penale irrevocabile di assoluzione

La sentenza penale irrevocabile di assoluzione non preclude la libera valutazione dei fatti in sede civile.

Cass. Sez. Lav. 19 dicembre 2017, n. 30423

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; P.M. Fresa; Ric. B.A.; Controric. I.P.;

Licenziamento individuale - Sentenza penale irrevocabile di assoluzione - Corrispondenza tra i fatti posti a base del recesso e quelli oggetto di imputazione - Libera valutazione dei fatti in sede civile - Sussiste

In tema di effetti in sede civile ex art. 654 cod. proc. pen. della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dibattimentale, l’efficacia vincolante dell'accertamento dei fatti materiali effettuato in sede penale non preclude la libera valutazione della rilevanza degli stessi fatti in sede civile, essendo ipotizzabile che essi, pur rivelatisi non decisivi per la configurazione del reato contestato, conservino rilievo ai fini del rapporto dedotto innanzi al giudice civile, con la conseguenza che l’assoluzione dalla penale responsabilità non preclude automaticamente la cognizione della domanda da parte del giudice civile.

Nota

La Corte di Appello di Catania confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata dichiarata la legittimità del licenziamento intimato nei confronti del dipendente, con qualifica di impiegato amministrativo, ed erano stati compensati tra le parti i reciproci crediti, consistenti dal lato del lavoratore nel diritto a percepire le competenze di fine rapporto e, dal lato dell’azienda, nel diritto ad ottenere la restituzione delle somme delle quali il lavoratore si era indebitamente appropriato, sottraendole ai conti della società.

La Corte territoriale rilevava che correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto che la società avesse assolto l’onere probatorio sulla stessa gravante in merito alle circostanze addotte a fondamento del licenziamento, tenuto conto che tali circostanze avevano trovato riscontro probatorio nei documenti prodotti dalla società. Con riferimento alla sentenza penale di assoluzione, intervenuta nelle more del giudizio di appello ed avente ad oggetto i medesimi fatti materiali posti a fondamento del licenziamento, la Corte territoriale escludeva che tale sentenza potesse produrre qualsivoglia efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa del licenziamento, dovendo ritenersi consentita al giudice civile la rivalutazione autonoma del fatto e del materiale probatorio, senza che potesse assumere efficacia vincolante nel giudizio civile la ricostruzione operata in sede penale.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su quattro motivi.

In particolare, il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 654 cod. proc. pen. nella parte in cui la sentenza di appello non aveva attribuito efficacia di giudicato nel giudizio civile alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione del dipendente pronunciata a seguito di dibattimento.

Il lavoratore impugnava, altresì, la sentenza di appello nella parte in cui la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi sulla questione, specificamente devolutale, attinente alla compensazione operata dalla società, all’atto di corrispondere al dipendente le competenze di fine rapporto, tra quanto a tale titolo dovuto al lavoratore e quanto invece asseritamente spettante alla datrice di lavoro per le somme indebitamente incassate dal primo. Sotto tale profilo il lavoratore aveva censurato la sentenza di primo grado contestando la sussistenza dei crediti vantati nei propri confronti dalla società, nonché la compensabilità degli stessi in misura superiore al quinto.

La Suprema Corte accoglieva il motivo di ricorso concernente la legittimità della compensazione operata dalla società all’atto del pagamento delle competenze di fine rapporto, mentre rigettava gli altri motivi di ricorso e rinviava, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Catania in diversa composizione.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha osservato che il giudicato penale di assoluzione non ha sempre efficacia vincolante nel giudizio civile in quanto, ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 cod. proc. pen. (nell'ambito di altri giudizi civili), il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non anche quando l'assoluzione sia determinata dall’ accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all’imputato, e cioé quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma 2, cod. proc. pen. (Cass. 11 marzo 2016, n. 4764).

In particolare, la Suprema Corte ha chiarito che, in tema di effetti in sede civile ex art. 654 cod. proc. pen. della sentenza penale irrevocabile di assoluzione dibattimentale, l’efficacia vincolante dell'accertamento dei fatti materiali effettuato in sede penale non preclude la libera valutazione della rilevanza degli stessi fatti in sede civile, essendo ipotizzabile che essi, pur rivelatisi non decisivi per la configurazione del reato contestato, conservino rilievo ai fini del rapporto dedotto innanzi al giudice civile, con la conseguenza che l’assoluzione dalla penale responsabilità non preclude automaticamente la cognizione della domanda da parte del giudice civile (Cass. 05 gennaio 2015, n. 13; Cass. 29 novembre 2004, n. 22484). 

 

Appalto e sicurezza del lavoro

Cass. Sez. Lav. 11 dicembre 2017, n. 29582

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. S.S.; Controric. B. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Obblighi ex art. 2087 cod. civ. - Appalto - Dipendenti dell'appaltatore - Responsabilità del committente per violazione delle norme di sicurezza del lavoro - Configurabilità - Condizioni

In materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente solo ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell'opera da eseguire.

Nota

Il caso di specie riguarda un infortunio occorso ad un lavoratore, dipendente della società appaltatrice, nello svolgimento di una determinata attività presso la sede della società committente.

La Corte d’Appello di Torino, confermando la sentenza di primo grado, escludeva ogni responsabilità della società committente con riferimento all’infortunio de quo, rilevando che dall’istruttoria era emerso che l’attività svolta dal lavoratore non rientrava in quelle previste dal capitolato d’appalto e che non vi era prova del fatto che tale attività fosse stata effettivamente richiesta dalla società committente. La Corte di merito rilevava, inoltre, che nel corso dell'istruttoria era emerso che i contratti di appalto prevedevano sempre il divieto di utilizzazione delle attrezzature della committente e, dunque, non era configurabile alcun obbligo in capo a quest’ultima di controllare che venissero utilizzati strumenti idonei da parte dei lavoratori della società appaltatrice.

Ricorre per cassazione il lavoratore, lamentando l’errata esclusione della responsabilità della società committente con riferimento all’infortunio de quo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente solo ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire (cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. n.17178/2013); non è, infatti, configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e cioè per il solo fatto di aver affidato in appalto determinati lavori o servizi, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull'andamento dei lavori.

Per fondare la responsabilità del committente, prosegue la Corte di Cassazione, non si può, quindi, prescindere da un attento esame della situazione fattuale, al fine di verificare quale sia stata, in concreto, l'effettiva incidenza della condotta del committente nell’eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della società appaltatrice. A tal fine, vanno considerati: la specificità dei lavori da eseguire e le caratteristiche del servizio da svolgersi, i criteri seguiti dal committente per la scelta dell'appaltatore (quale soggetto munito della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa), l'ingerenza del committente stesso nell'esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto, nonché la percepibilità agevole ed immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo (cfr. in tal senso Cass. n.17178 cit.).

Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, la Corte di merito aveva correttamente applicato i suddetti principi, con una valutazione del materiale probatorio esente da vizi.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

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