Contenzioso

Lo stipendio in ritardo è giusta causa anche se il dipendente è socio in un’azienda di famiglia

di Alessia Raimondo e Uberto Percivalle

Il lavoratore deve essere retribuito con regolare stipendio in una data ben precisa, stabilita dal contratto collettivo di lavoro applicato. Superato tale termine il lavoratore può legittimamente dimettersi per giusta causa, allorché il Ccnl lo preveda, a nulla rilevando il fatto di essere socio, fratello degli altri soci e a conoscenza delle difficoltà aziendali.

E' quanto ha stabilito la Corte di appello di Milano (Presidente relatore Giovanni Casella) con la sentenza 1713/2017, in riforma della sentenza 205/2015 del tribunale di Milano.

Un dipendente si è dimesso per giusta causa a seguito del ritardo nel pagamento della retribuzione, protrattosi ben oltre il termine di 15 giorni previsto dall'articolo 4 del Ccnl applicato (industria metalmeccanica), che espressamente prevede in tal caso la possibilità di dimettersi con diritto all'indennità di preavviso.

Il tribunale non ha ritenuto sussistere giusta causa di dimissioni, considerato che il contesto di azienda familiare (in cui il ricorrente era socio della società, assieme ai fratelli, nonché coniuge del precedente amministratore e dotato di procura sui conti correnti aziendali) rendeva il ricorrente consapevole delle difficoltà aziendali.

Dalle conclusioni del tribunale traspariva la preoccupazione che le circostanze particolari in cui si era svolta la vicenda e la posizione particolare del ricorrente non corrispondessero a quelle prefigurate dal Ccnl per configurare la giusta causa di dimissioni e tutelarla.

La Corte di appello ha invece ritenuto che l'unica circostanza rilevante sia la corrispondenza del recesso alla fattispecie prevista dall'articolo 4 del Ccnl, che espressamente prevede la possibilità per il dipendente di dimettersi per giusta causa, ove il ritardo nei pagamenti della retribuzione superi il termine suindicato.

Rifacendosi a quanto già statuito dalla Cassazione con sentenza 1667/2003, la Corte di appello ha evidenziato come dal superamento del termine previsto dal Ccnl possa “presumersi l'intollerabilità del ritardo, senza che il protrarsi di esso faccia venir meno il diritto del lavoratore al recesso per giusta causa”.

Con tale precisazione la Corte di appello ha chiarito che la norma collettiva, tipizzando una ipotesi di recesso per giusta causa nel caso di superamento del termine di pagamento, consente di presumere l'intollerabilità del ritardo che il lavoratore si trovi a subire, anche quando il recesso non abbia luogo subito dopo il superamento del termine. La norma collettiva prevede, infatti, la possibilità (ma non il dovere) di recesso una volta superato il termine, “permettendo così al lavoratore di calibrare l'immediatezza della reazione con la volontà di collaborare con l'azienda per superare una situazione che potrebbe essere temporanea, nonché con la difficoltà di reperire una nuova occupazione”. Secondo quanto già statuito dalla Suprema corte, tuttavia, la collaborazione del dipendente non esclude l'immediatezza della reazione quando il ritardo nel pagamento della retribuzione, ripetendosi e prolungandosi, divenga non più tollerabile.

In altri termini, secondo tale interpretazione l'intollerabilità del ritardo si presume nel momento in cui lo stesso superi il termine previsto dalla norma collettiva, ma il dipendente può differire il recesso a un momento successivo, quando il ritardo nei pagamenti, tenuto conto delle personali esigenze, divenga di fatto non più tollerabile. La società si era anche difesa allegando l'esistenza di una prassi derogatrice, che consentiva il pagamento ritardato al nucleo familiare ed ai soci, alla luce dello stato di crisi. La Corte non ha negato in radice la possibilità di una simile prassi, limitandosi a rilevare l'assenza di prova.

In conclusione l'insegnamento della Corte è duplice. Per un verso la si chiariscono in modo rigoroso le conseguenze della violazione dei termini di pagamento delle retribuzione e la portata delle clausole collettive. Per altro verso, gli operatori ne trarranno utili spunti circa la necessità di distinguere tra la posizione di socio e quella di lavoratore, quando esse coesistano sulla stessa persona e sul fatto che la prima non vale implicitamente a modificare i diritti che derivano dal rapporto di lavoro.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©