Contenzioso

Obiettivi non definiti: la prova del danno ricade sul dirigente

di Monica Lambrou

È il dirigente a dover dimostrare il danno subito per la mancata fissazione degli obiettivi annuali nel suo contratto di lavoro. È il principio fissato dalla Cassazione nell’ordinanza 2293 del 30 gennaio 2018. La Corte si è pronunciata sui bonus di risultato, nella vicenda di un dirigente di Spa, al quale, in seguito alla cessazione del rapporto, questi importi erano stati negati, in virtù dell’assenza di criteri di determinazione degli obiettivi annuali nel contratto.

Generalmente, si può affermare che, sebbene nel contratto le parti non abbiano determinato gli obiettivi dai quali far discendere la corresponsione della retribuzione legata ai risultati, questo non basti a escludere qualsivoglia importo a favore del dirigente. Quest’ultimo può dunque ritenersi concretamente garantito contro le omissioni del datore di lavoro? A ben vedere, l’applicazione alla circostanza oggetto della pronuncia delle regole del danno da perdita di chance comporta significative conseguenze, idonee a limitare o - quanto meno - a rendere difficoltoso il riconoscimento di un’effettiva tutela. L’onere probatorio, infatti, grava interamente sul lavoratore danneggiato e si tratta di un onere particolarmente gravoso. Il lavoratore deve dimostrare infatti il pregiudizio subito per mezzo di una valutazione ex ante, da ricondursi «al momento in cui il comportamento illecito ha inciso» sulla relativa possibilità di conseguimento «in termini di condotta dannosa potenziale».

La prova del danno

Il dirigente deve operare dunque un difficile giudizio di tipo prognostico, che consenta di rilevare la sussistenza della possibilità di ottenere il bonus nel periodo in cui sarebbe risultata contrattualmente dovuta la determinazione degli obiettivi. Deve dimostrare poi il nesso di causalità che consiste nella idoneità dell’omissione del datore nella fissazione degli obiettivi a sacrificare notevolmente questa possibilità di ottenere il bonus. Per quanto sia ammesso il ricorso a fattori presuntivi, queste presunzioni devono, in ogni caso, risultare ancorate a elementi di natura oggettiva. Questi elementi devono consentire di desumere in maniera attendibile l’esistenza della chance perduta, ravvisabile nella eventualità che il dirigente avrebbe soddisfatto gli obiettivi posti dalla società, se il contratto ne avesse previsto la natura.

Questa operazione, oltre che complessa, ha un alto grado di indeterminatezza, perché richiede un calcolo probabilistico.Ulteriori elementi di incertezza riguardano la quantificazione della perdita subita dal dirigente. Ebbene, nella difficoltà di provare il preciso ammontare della chance, il giudice può intervenire in via equitativa, ma, per costante giurisprudenza, questo intervento si limita a colmare un’insuperabile lacuna e non può rischiare di sfociare in un giudizio di equità sulla sussistenza e sulla entità materiale del danno.

Il risarcimento

Il dirigente non è, per giunta, totalmente esonerato dalla dimostrazione dell’ammontare, dovendo favorire la liquidazione del giudice, fornendo «ogni elemento di fatto utile di cui possa ragionevolmente disporre» – e idoneo – «alla quantificazione del danno» (si legga, in tema di chances, anche la sentenza della Cassazione 25102/2017).

Nel caso esaminato nella ordinanza 2293 del 30 gennaio 2018, la Corte, avendo il dirigente fornito sufficienti elementi probatori, ha condannato la società al risarcimento per perdita di chances, ossia un danno futuro non consistente nel venir meno di un vantaggio economico, ma della «possibilità di conseguirlo».

Per i giudici, può sussistere un pregiudizio (risarcibile) patito dal dirigente proprio nell’omissione della previsione degli obiettivi e/o dei criteri per la relativa determinazione ma esclusivamente a fronte di prove e/o presunzioni che devono essere, come previsto dalla legge: «gravi, precise e concordanti».

La Cassazione ha ribadito che, sulla perdita di chance, gli accertamenti competono al giudice di merito.

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