Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e onere della prova
Sulla responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Nozione di trasferimento d'azienda
Per agire ex art. 28 St. Lav. non è indispensabile la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali

Infortunio sul lavoro e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 9 gennaio 2018, n. 278

Pres. Napoletano; Rel. De Felice; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.L., T.M. e T.G.; Controric. M.I.T.;

Pubblico impiego privatizzato - Infortunio sul lavoro - Obblighi datoriali in materia di sicurezza sul lavoro - Mancata allegazione e prova - Necessità

La normativa in materia di sicurezza sul lavoro impone al datore di lavoro un preciso obbligo contrattuale chelo onera, in concreto, di una complessaattività che va dalla responsabilità dell'organizzazione dei processi lavorativi,della scelta, dell'acquisto delle dotazioni di lavoro e della loro distribuzione alpersonale, fino a quella della formazione dello stesso personale sulla materiadella prevenzione degli infortuni. In caso di mancata allegazione e prova da parte del datore di lavoro dell’adempimento dei suddetti obblighi di sicurezza, non può assumere valore dirimente ai fini dell’esclusione della responsabilità datoriale il fatto che il dipendente infortunato abbia agito in modo imprevedibile e al di fuori dell’incarico affidatogli.

Nota

Un dipendente con mansioni di assistente tecnico del Genio Civile delle Opere marittime restava vittima di un fatale incidente sul lavoro, avvenuto nel corso della verifica, in via d’urgenza, degli interventi necessari per ovviare al cedimento di un terrazzino di un edificio demaniale, a causa della caduta da una scala a pioli, posta su un terrazzino senza ringhiera, dal quale si accedeva al tetto dell’edificio.

La Corte d’Appello di L’Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale di Chieti, rigettava la domanda degli eredi volta ad accertare la responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione per la morte del dipendente. La Corte motivava il rigetto in ragione del fatto che l’iniziativa del lavoratore di andare a perlustrare il tetto dell’edificio demaniale non rientrasse nell’incarico affidatogli e che tale condotta, assolutamente imprevedibile, aveva esposto il dipendente ad un rischio eccessivo dal quale era derivata la fatale perdita di equilibrio. Inoltre, il lavoratore aveva utilizzato una scala inadeguata allo scopo e che, comunque, non era stata fornita dall’amministrazione convenuta, non risultando ricompresa nei beni inventariati.

Avverso tale decisione gli eredi ricorrevano in Cassazione; il Ministeroresisteva con controricorso.

I ricorrenti lamentavano contraddittorietà della motivazione, da un lato, nella parte in cui ha accertato uno sconfinamento dell’incarico ricevuto e, dall’altro, per aver escluso ogni responsabilità datoriale pur in mancanza di prova del rispetto delle norme di sicurezza.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato la sentenza con rinvio, rilevando la contraddittorietà della motivazione, sia perché lo sconfinamento dall’incarico affidato al dipendente risultava meramente supposto, in mancanza di prova da parte dell’amministrazione convenuta, sia perché la Corte territoriale aveva del tutto omesso di valutare l’adempimento da parte datoriale degli obblighi antinfortunistici e, in particolare, di aver dotato il lavoratore della strumentazione idonea a scongiurare l’infortunio e di aver vigilato durante l’espletamento delle verifiche richieste.

Ad avviso della Corte di Cassazione, la concezione di sicurezza sul lavoro che emerge dalla decisione impugnata, infatti,non trova riscontro nella specifica normativa antinfortunistica che pone a carico del datore di lavoro unpreciso obbligo contrattuale che lo onera, in concreto, di una complessaattività che va dalla responsabilità dell'organizzazione dei processi lavorativi,della scelta, dell'acquisto delle dotazioni di lavoro e della loro distribuzione alpersonale, fino a quella della formazione dello stesso personale sulla materiadella prevenzione degli infortuni.

Dalla sentenza annotata si ricava dunque il principio che in caso di mancata allegazione e prova da parte del datore di lavoro dell’adempimento dei suddetti obblighi di sicurezza, non può assumere valore dirimente ai fini dell’esclusione della responsabilità datoriale il fatto che il dipendente infortunato abbia agito in modo imprevedibile e al di fuori dell’incarico affidatogli.

 

Sulla responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2018, n. 1045

Pres. Mammone; Rel. Cavallaro; P.M. Servello; Ric. I.N.A.I.L.; Controric.S.M.A.R. S.p.A. + 2;

Previdenza - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Responsabilità del datore di lavoro - Limiti - Comportamento colposo del lavoratore - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità ed imprevedibilità della condotta del lavoratore rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute - Necessità - Fattispecie

Il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplinaantinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità,imprevedibilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativoed alle direttive ricevute, mentre, qualora nella condotta del lavoratorenon ricorrano detti caratteri, l'imprenditore è integralmente responsabiledell'infortunio che sia conseguenza dell‘inosservanza delle normeantinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di sicurezza integral'unico fattore causale dell'evento, non rilevando in alcun grado ilconcorso di colpa del lavoratore.

Nota

Il caso di specie riguarda una domanda di regresso proposta dall’INAIL nei confronti del datore di lavoro, con riferimento alla rendita corrisposta ai superstiti di un lavoratore deceduto a seguito di infortunio occorso durante l’esecuzione dell’attività lavorativa.

La domanda dell’INAIL veniva rigettata sia in primo che secondo grado. Nello specifico, la Corte d’Appello riteneva di escludere la responsabilità del datore di lavoro, rilevando che l’infortunio era dovuto alla trasgressione da parte di un collega dellavoratore infortunato delle precise istruzioni concernenti l'utilizzo di un macchinario, il cui comportamento dovevaperciò considerarsi causa esclusiva dell'evento dannoso.

La Corte di Cassazione, adita dall’INAIL, ha accolto il ricorso, rilevando innanzitutto che la responsabilitàconseguente alla violazione dell'art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, pertanto il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno dainfortunio o l'Istituto assicuratore che agisca in via di regresso devono allegare e provare l’esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno edel nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione lavorativa; ildatore di lavoro, invece, per escludere la propria responsabilità, deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile - ossia di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza,apprestando tutte le misure per evitare il danno stesso - e che gli esiti dannosisono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (cfr. da ultimo Cass. n. 12561/2017).

La Corte ha poi osservato comele norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro siano dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazionedell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera diorganizzazione e dalle finalità del lavoro (cfr. Cass. n. 4656/2011).

Ciò premesso, la Corte ha rilevato che tali principi sono logicamente estensibili anche all’ipotesi in cui il comportamento negligente, imprudente o imperito sia ascrivibile, come nella specie, ad un collega di lavoro del dipendente infortunato (cfr. in tal senso Cass. n. 9817/2008), con conseguente impossibilità di escludere la responsabilità del datore di lavoro nella causazione dell’evento.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2018, n. 1634

Pres. Bronzini; Rel. Boghetich; P.M. Mastroberardino; Ric.G.s.p.a.; Controric. B.N.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Assenza per malattia - Onere della prova - Ricade sul datore

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo; fermo restando l'onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.

Nota

La Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Vicenza, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore per superamento del periodo di comporto, con conseguente condanna della società datrice alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, respingendo le domande del lavoratore di risarcimento del danno per demansionamento e di pagamento dell’indennità di trasferta, nonché la domanda del datore di lavoro di manleva da parte delle società di assicurazione.

A fondamento della propria decisione la Corte di Appello rilevava che la società datrice non aveva dimostrato, come era suo onere, l’assenza per malattia del dipendente con riferimento a tutte le giornate indicate nella lettera di licenziamento, avendo depositato le sole buste paga e non anche i certificati medici riferiti alle suddette assenze.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società fondato su tre motivi.

Parte ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione, oltre che della disciplina contrattuale applicabile al rapporto, anche degli artt. 2110 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., ritenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente addossato al datore di lavoro, non solo la prova del superamento, da parte del lavoratore, del periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal c.c.n.l. di settore, ma anche della ragione delle assenze.

Nello specifico, parte ricorrente rilevava che la Corte territoriale aveva errato nel considerare talune assenze del lavoratore giustificate a titolo di ferie, piuttosto che di malattia, nonostante sussistessero evidenze istruttorie di segno contrario (quali l’assenza di qualsivoglia autorizzazione aziendale alla fruizione delle ferie, la ricezione da parte del lavoratore del prospetto paga recante l’indicazione del periodo di malattia e dell’erogazione della relativa indennità, la mancata contestazione ad opera del lavoratore dei singoli periodi di malattia riportati sia sulle buste paga che nella lettera di licenziamento).

La Suprema Corte ha innanzitutto ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla stregua del qualeil licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile, non già ad unlicenziamento disciplinare, ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo; con la conseguenzache "solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l'assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato" (cfr. Cass. 10 gennaio 2017, n. 284; Cass. 5 ottobre 2010, n. 23920; Cass. 18 novembre 2010, n. 23312; Cass. 26 maggio 2005, n. 11092).

La Suprema Corte ha dunque rilevato che, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604 del 1966, ricade sul datore di lavoro l'onere di provareil requisito costitutivo dell'esercizio delpotere espulsivo, rappresentato dalla realizzazione da parte del lavoratore di un numero diassenze per malattia superiore a quello indicato dalla contrattazione collettiva disettore quale limite massimo di conservazione del rapporto di lavoro.

Applicando tali principi al caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte distrettuale avesse correttamente gravato il datore di lavoro della prova della riconducibilità a malattie di tutte le assenze indicate nella lettera di licenziamento, non potendosi far derivare dalla mera ricezione della busta paga da parte del lavoratore alcun significato concludente circa l’accettazione dei titoli che ne avevano determinato la liquidazione. 

 

Nozione di trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 30 gennaio 2018, n. 2280

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Ghersi; Ric. G.D. S.p.A.; Controric. A.R.

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Nozione di ramo di azienda - Entità dotata di propria autonomia organizzativa ed economica preesistente al negozio - Mera esternalizzazione - Esclusione - Fattispecie

Per ramo d'azienda ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ. deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, dovendosi ritenere preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici ovvero di articolazioni non autonome.

Nota

La Corte d’appello di Roma riformava la sentenza del Tribunale con la quale era stato respinto il ricorso dei lavoratori che avevano domandato la nullità dell'atto di cessione di ramo d'azienda. Per i dipendenti lo stabilimento cui erano addetti era solamente un’unità produttiva priva di rilevanza ed autonomia ex artt. 2555 e 2112 comma 5, c.c. per cui l’atto negoziale intercorso non poteva rappresentare una cessione di ramo di azienda.

Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso per Cassazione la società ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Ed infatti, chiarisce la Cassazione, non può ammettersi un trasferimento di ramo d'azienda con riferimento alla sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un'unica funzione al momento del trasferimento. Tanto, infatti, contrasterebbe, sia con le direttive comunitarie 1998/50 e 2001/23 che richiedono il trasferimento di un’entità economica che conservi la propria identità, sia con gli artt. 4 e 36 Cost. che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori (sentenza n. 115 del 1994 della Corte Cost.) ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l'assenza di riferimenti oggettivi.

Per la Cassazione, neppure la sentenza C-458/12della Corte di Giustiziapuò indurre a diverse conclusioni. E, infatti, la richiamata pronuncia interviene su una questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trento che muoveva dall'errato presupposto che l’articolo 2112 cod. civ. comma 5, consentisse la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora la parte di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento, tanto da poter essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.

La sentenza comunitaria va letta, non nel senso che non occorre, ai fini di cui trattasi, il requisito della preesistenza e conservazione, ma che è consentito agli stati membri prevedere una norma che estenda l'obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti anche in caso di non preesistenza del ramo d'azienda.

D'altro canto la stessa Corte, nella citata sentenza, ribadisce che, ai fini dell'applicazione della richiamata direttiva 2001/23, l'entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento e successivamente ad esso, godere di un'autonomia funzionale sufficiente.

Con riferimento al caso di specie la sentenza impugnata aveva accertato che al momento del trasferimento il ramo di azienda ceduto non aveva conservato la medesima struttura materiale né l'organizzazione di beni e dipendenti preesistenti. Dall'atto di cessione risultavano infatti ceduti solo una parte dei macchinari, taluni arredi e piccoli macchinari ausiliari, che privavano sostanzialmente il ramo ceduto di materiale e strumenti di importanza strategica per la produzione. 

 

Per agire ex art. 28 St. Lav. non è indispensabile la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali

Cass. Sez. Lav. 19 gennaio 2018, n. 1392

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. P.I. s.p.a.; Controric. S.C.;

Art. 28 Statuto Lavoratori - Legittimazione attiva - Requisito della nazionalità del sindacato - Attualità della condotta antisindacale

Ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali che rimane, comunque, un indice tipico - ma non l'unico - rilevante ai fini della individuazione del requisito della "nazionalità”.

Nota

La sentenza trae origine dall’impugnativa di una sanzione disciplinare inflitta ad una dipendente cui era stato contestato di non aver rispettato il carico di lavoro nei tempi previsti nei giorni successivi alla sua partecipazione ad uno sciopero. Sia il Tribunale, nella fase ex art. 28 St. lav. e nella successiva opposizione, che la Corte d’Appello hanno dichiarato l’antisindacalità della condotta della società che, di fatto, aveva fatto ricadere sulla dipendente le conseguenze organizzative e produttive dell’astensione al lavoro, il cui libero esercizio veniva così a subire un’illegittima compressione.

Avendo la società eccepito in appello e poi sollevato come motivi di ricorso in Cassazione il difetto di legittimazione attiva dell’organizzazione sindacale ricorrente e la mancanza del requisito dell’attualità della condotta, la Suprema Corte coglie l’occasione per ribadire una serie di principi oltremodo consolidati.

In particolare la massima riporta affermazioni già molte volte espresse in precedenti indicati anche in motivazione (Cass. 20 aprile 2012, n. 6206; Cass. 29 luglio 2011, n. 16787;Cass. 9 giugno 2009, n. 13240; Cass. S.U. 21 dicembre 2005, n. 28269). La Corte precisa che, anche a seguito della sentenza 23 luglio 2013, n. 231 della Corte Costituzionale, non deve confondersila legittimazione ex art. 28 St. Lav. con i requisiti richiesti dall'art. 19 St. Lav. per la costituzione di rappresentanze sindacali,postulando solo tale ultima norma la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali, provinciali o aziendali, purchè applicati in azienda. (Cass. 29 luglio 2011, n. 16787; Cass. 4 marzo 2010, n. 5209; Cass. 9 giugno 2009, n. 13240). Richiamando la sentenza 9 febbraio 2015, n. 2375 la Cassazione precisa, inoltre, che, riconoscendo l'art. 28 la legittimazione ad agire solo agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse” (Cass. 24 gennaio 2006, n. 1307) il legislatore ha scelto di operare una distinzione tra associazioni sindacali che hanno accesso anche a questo strumento processuale di tutela rafforzata dell'attività sindacale e altre associazioni sindacali che hanno accesso solo alla tutela ordinaria attivabile ex art. 414 c.p.c., scelta, peraltro, riconosciuta legittima dalla Corte Costituzionale (C. Cost. 17 marzo 1995, n. 89). Sempre in tema si ricorda che, sebbene il requisito della nazionalità del sindacato non può desumersi da dati meramente formali e da una dimensione statica, puramente organizzativa e strutturale, dell'associazione, essendo necessaria anche un'azione diffusa a livello nazionale, nondimeno non necessariamente essa deve coincidere con la stipula di contratti collettivi di livello nazionale (Cass. 22 luglio 2014, n. 16637; Cass. 12 dicembre 208, n. 29257; Cass.16 ottobre 2014, n. 21931).

Alla luce di tali principi il ricorso viene rigettato ritenendosi corretta l’analisi compiuta dalla Corte di merito che aveva ritenuto dimostrata, anche attraverso la sottoscrizione di numerosi accordi nazionali ed aziendali, l’effettiva presenza del sindacato su tutto il territorio nazionale.

Anche in relazione al secondo motivo di ricorso la Suprema Corte ripete affermazioni consolidate in tema di attualità della condotta antisindacale, laddove precisa che, ai sensi dell'art. 28 St. Lav., il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale (Cass. 12 novembre 2010, n. 23038).

Secondo la Cassazione i giudici di merito si sono attenuti a tale principio laddove hanno ritenuto che la condotta datoriale diretta ad un’indebita compressione del diritto di sciopero costituiva un minaccioso deterrente per ciascun lavoratore che in futuro intendesse aderire ad un’astensione, dovendosi poi successivamente accollarsi anche l’attività lavorativa legittimamente non espletata durante lo sciopero.

Il ricorso viene, pertanto respinto.

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