Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento disciplinare e principio della immediatezza
Licenziamento disciplinare per ripetuto uso illecito di strumenti aziendali
Infortunio e responsabilità del datore di lavoro
I criteri discretivi tra lavoro subordinato e contratto di agenzia

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo 

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2018, n. 1633

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.G.; Contr. D.N.G. s.r.l.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Illegittimità recesso - Manifesta insussistenza del fatto - Tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, l. n. 300/70 - Altre ipotesi - Tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, l. n. 300/70

In caso di accertata illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve ritenersi che intenzione del legislatore - ai sensi del settimo comma dell'art. 18 l. n. 300/70 (come novellato dalla l. n. 92/2012) -sia stata quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria. Conseguentemente, il giudice applica la tutela reintegratoria prevista dal comma quarto (reintegra ed indennità risarcitoria fino a 12 mensilità), solo in caso di "manifesta insussistenza del fatto" posto a base del licenziamento. In tutte le "altre ipotesi", il giudice applica solo la tutela indennitaria di cui al quinto comma (risoluzione del rapporto di lavoro e indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità).

Nota

La vicenda sottoposta all'esame della Suprema Corte trae origine da una particolare ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte di appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, accertava l'illegittimità del recesso intimato ad un lavoratore, condannando il datore di lavoro al pagamento di una somma pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione di fatto, in applicazione dell'art. 18, comma 6, l. n. 300/70 (come novellato dalla l. n. 92/2012).

Il motivo che aveva dato luogo al licenziamento era costituito dall'adozione di una misura interdittiva prefettizia che aveva evidenziato il pericolo di infiltrazioni mafiose di alcuni dipendenti della società. Tale provvedimento amministrativo aveva determinato la necessità di una riorganizzazione dell'azienda, fino ad allora destinata in via prevalente all'acquisizione di appalti pubblici. La Corte di appello aveva concluso per la insussistenza del giustificato motivo, atteso che la misura interdittiva era stata poi annullata dal giudice amministrativo cui si era rivolta la società e, comunque, secondo i giudici di merito, il datore di lavoro ben avrebbe potuto  sospendere il lavoratore in attesa della pronuncia del giudice amministrativo.

Avverso tale sentenza il lavoratore propone ricorso per cassazione. 

Con il primo motivo, ilricorrente denuncia la violazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori per non avere la Corte di merito, laddove aveva ritenuto insussistente il giustificato motivo oggettivo, applicato la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4. 

La Corte di Cassazione respinge il motivo evidenziando che il legislatore del 2012 ha graduato le tutele in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo, al quarto comma, una tutela reintegratoriac.d. "attenuata" (per distinguerla da quella "piena" prevista dal primo comma),in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento di un'indennità che non può superare le 12 mensilità. Al quinto comma è, invece, prevista una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità. La linea di confine tra le due tutele, secondo la Cassazione, è chiarita dal settimo comma dell'art. 18, secondo cui il giudice può applicare la tutela reintegratoria attenuata - del quarto comma - nell'ipotesi di "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; negli altri casi, il giudice applicherà la tutela indennitaria del quinto comma.

Ebbene, prosegue la Suprema Corte, pur nell'incertezza del testo normativo, se si vuole interpretare correttamente la previsione del settimo comma, deve ritenersi che intenzione del legislatore sia stata quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria.

Applicando tali princìpi al caso in esame, considerato che, al momento dell'irrogazione del licenziamento, la misura interdittiva prefettizia effettivamente sussisteva, certamente, sostiene la Cassazione, tale caso non rientra nell'ipotesi di "manifesta insussistenza" del fatto. Al datore di lavoro, può essere contestato, invece, prosegue la Suprema Corte - in linea con il giudice di appello - di non aver atteso la pronuncia del giudice amministrativo cui pure la società si era rivolto ritenendo il provvedimento illegittimo. Conseguentemente, tale ipotesi, per i giudici di legittimità, rientra nel quinto comma dell'art. 18. 

Con successivo motivo il lavoratore denuncia la sentenza di appello nella parte in cui ha limitato il risarcimento a sole sei mensilità.

Tale motivo viene accolto. Infatti, rileva la Cassazione, la tutela del sesto comma dell'art. 18, erroneamente applicata dalla Corte territoriale, deve ritenersi operante esclusivamente nei casi in cui il licenziamento venga dichiarato inefficace per violazione del requisito della motivazione, della procedura di cui all'art. 7 l. n. 300/1970 o della procedura conciliativa di cui all'art. 7, l. n. 604/66. Ipotesi che nel caso di specie non ricorrono, ragione per cui il giudice avrebbe dovuto applicare la tutela indennitaria prevista dal quinto comma, vale a dire un'indennità compresa tra le 12 e le 24 mensilità.

La Corte di Cassazione, quindi, rinvia alla stessa Corte di appello, in diversa composizione, per la determinazione dell'indennità di cui al quinto comma. 

 

Licenziamento disciplinare e principio della immediatezza

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2018, n. 4881

Pres. Manna; Rel. Della Torre; P.M. Servello; Ric. S.A.; Controric.T. S.p.A.;

Licenziamento disciplinare - Principio della immediatezza della contestazione disciplinare - Interpretazione - Carattere “relativo” - Fattispecie

Il requisito della immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichi o meno il ritardo. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello che ha ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare intervenuta dopo due anni dai fatti tenuto conto della pendenza di più ampie indagini penali e della sospensione concordata con la Polizia giudiziaria di eventuali iniziative aziendali che ne potessero pregiudicare l’esito).

Nota

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, respingeva il ricorso proposto da un lavoratore per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare allo stesso intimato, ritenendo tempestiva la contestazione. Ecco, nel caso in esame la cronologia dei fatti: gli addebiti sono stati ripetutamente posti in essere tra il giugno 2007 e l’aprile 2010; il lavoratore è stato sospeso in via cautelare nel maggio 2010; la contestazione disciplinare è stata effettuata nel settembre 2010 e il licenziamento è stato irrogato nell’ottobre 2010. La Corte territoriale escludeva che la formulazione degli addebiti dovesse ritenersi tardiva, malgrado i primi accertamenti risalissero al giugno 2007, e ciò in ragione delle più ampie indagini di polizia giudiziaria già in corso all’epoca e della sospensione, concordata con la stessa polizia, di eventuali iniziative aziendali che ne potessero pregiudicare l’esito. 

Avverso la predetta sentenza, il lavoratoreha proposto ricorso per Cassazione, evidenziando in primis che, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, deve farsi prevalere quello del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, anche nel caso di pendenza di un procedimento penale a suo carico. 

La Suprema Corte, richiamandosi alla già più volte affermata “relatività” del requisito della immediatezza della contestazione disciplinare (cfr. ex plurimis Cass. n. 01/07/2010, n. 15649), ha rigettato il ricorso, osservando come la Corte di merito, in ossequio al suddetto principio, abbia correttamente escluso la tardività della contestazione disciplinare, anche in relazione a fatti commessi nel 2007 e nel 2009, sulla scorta delle seguenti circostanze: 1) necessità per l’azienda di sospendere i propri accertamenti per non compromettere l’esito delle contemporanee indagini in sede penale (accertamenti che, peraltro, erano stati sollecitamente ripresi dalla società appena ricevuta la comunicazione della notizia di reato); 2) ampiezza e complessità della vicenda, la cui ricostruzione aveva richiesto la verifica incrociata di più dati di non immediata percezione nonché il controllo di un’ampia documentazione; 3) assenza di pregiudizio per il diritto di difesa del lavoratore incolpato, trattandosi di addebiti di fonte documentale nel tempo sempre verificabili; 4) impossibilità di rilevare, per mezzo di ordinati controlli giornalieri, le irregolarità oggetto di contestazione.

Ebbene - ha concluso la Suprema Corte - il differimento della contestazione deve ritenersi, nel caso di specie (in cui era stata sollecitata proprio dalla polizia giudiziaria una sospensione dei primi atti di verifica interna da parte della società per non pregiudicare i risultati investigativi connessi ad una più ampia indagine di rilievo penale), giustificato oltre che dalla molteplicità degli addebiti e dalla complessità dell’attività richiesta per il loro riscontro anche dalla necessità di ottemperare ad un più generale dovere di cooperazione nei confronti degli organi dello Stato deputati alla scoperta e alla repressione dei reati. E ciò in ragione di un interesse da ritenersi di per sé meritevole di apprezzamento secondo l’ordinamento giuridico e non in conflitto con la pienezza del diritto di difesa del lavoratore incolpato.

 

Licenziamento disciplinare per ripetuto uso illecito di strumenti aziendali

Cass. Sez. Lav. 12 febbraio 2018, n. 3315

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; Ric. Z. V.; Contoric. T.I. S.P.A.;

Lavoro subordinato-Licenziamento disciplinare per ripetuto uso illecito di strumenti aziendali - Stato psico-fisico del lavoratore - Irrilevanza 

Lo stato di sofferenza psicologica del lavoratore, anche attribuibile al datore di lavoro, non può costituire una causa giustificativa del ripetuto uso illecito di mezzi aziendali a fini personali con un danno di una certa consistenza al datore di lavoro. 

Nota

Nel caso in esame il lavoratore impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro per avere effettuato, utilizzando la linea dedicata al fax del reparto cui era addetto, una lunga serie di telefonate non autorizzate e non attinenti alle esigenze di servizio. Con la sua condotta il lavoratore causava alla società un danno di circa ottomila euro. Il licenziamento veniva convertito dal Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle domande del lavoratore, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Successivamente la Corte d’Appello di Roma rigettava tanto l’appello principale proposto dal lavoratore quanto quello incidentale proposto dalla società datrice.

La Corte d’Appello non solo confermava quanto rilevato dal Tribunale di Roma in merito alle telefonate di cui sopra ma osservava, inoltre, che le istanze istruttorie avanzate dal lavoratore volte all’accertamento di una condotta mobbizzante nei suoi confronti riguardavano condotte molto risalenti o comunque irrilevanti e affermava che, in ogni caso, non poteva accogliersi la tesi del lavoratore per cui le telefonate in questione sarebbero state dovute alla necessità dello stesso, considerato il suo stato di depressione, di sentire “voci amiche”. Sosteneva infatti la Corte che, da una parte, lo stato depressivo del lavoratore non sussisteva al momento della commissione dei fatti contestati, dall’altro che il lavoratore avrebbe ben potuto sottoporsi a cure idonee.

Contro tale ultima decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore articolando diversi motivi di impugnazione. In particolare e per quanto qui interessa il lavoratore sosteneva che la Corte d’Appello non aveva preso in alcuna considerazione la documentazione medica da lui  presentata e comunque le sue condizioni di salute nonchè la relazione tra le stesse e le condotte che hanno portato al licenziamento.  

La Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza e rigettato l’intero ricorso.

In particolareha sottolineato che «anche una situazione di particolare fragilità psichica del lavoratore - per mera ipotesi argomentativa ascrivibile al datore di lavoro - non legittimerebbe comportamenti come quelli contestati e cioè l'indebito uso di mezzi aziendali come il telefono per fini propri e con grave danno economico del datore di lavoro, la cui contrarietà alla correttezza e buona fede è intuitiva.». Anche nell’ipotesi in cui fosse stato affetto da depressione, dunque, il lavoratore avrebbe dovuto sottoporsi alle opportune cure mediche poiché tale stato non può giustificare in alcun modo il «ripetuto uso illecito di mezzi aziendali a fini personali con un danno di una certa consistenza al datore di lavoro». 

 

Infortunio e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 24 gennaio 2018, n. 1764

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. Q. S.r.l.; Controric. S.M. + 2;

Lavoro subordinato - Infortunio sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro - Limiti - Comportamento colposo del lavoratore - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità ed imprevedibilità della condotta del lavoratore rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute - Necessità - Fattispecie

In materia di tutela dell'integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell'abnormità, dell'imprevedibilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano detti caratteri della condotta del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio che sia conseguenza dell'inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento, non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza.

Nota

Il caso di specie riguarda un infortunio occorso ad un dipendente durante lo svolgimento di attività lavorativa consistente in una caduta mentre lavorava al montaggio di una gru. 

La Corte d’Appello di Brescia, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto la responsabilità esclusiva della società datrice di lavoro condannandola al risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore, con detrazione di quanto già percepito da quest’ultimo da parte dell’INAIL.

Nello specifico la Corte di merito escludeva un qualsiasi concorso di colpa del lavoratore (invece riconosciuto dalla sentenza di primo grado), ritenendo che la datrice di lavoro non aveva adottato le necessarie misure protettive né adeguatamente formato i propri dipendenti in merito all’uso dei dispositivi di sicurezza.

La Corte di Cassazione, adita dalla società datrice di lavoro, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che in materia di obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. gravano sul datore di lavoro specifici obblighi di informazione del lavoratore, insuscettibili di essere assolti mediante indicazioni generiche, in quanto, in tal modo, la misura precauzionale non risulterebbe adottata dal datore di lavoro, ma l'individuazione dei suoi contenuti sarebbe inammissibilmente demandata al lavoratore; né l'obbligo di controllo può ritenersi esaurito nell'accertamento della prassi seguita in azienda, esigendosi, viceversa, una verifica riferita ai singoli lavoratori, attraverso specifici preposti e con riferimento ad ogni fase lavorativa rischiosa(cfr. Cass. n. 20051/2016).

Pertanto, prosegue la Corte, premesso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove quest’ultimo abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l'evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento dovuto(cfr. da ultimo Cass. n. 798/2017).

Ciò premesso, la Corte ha rilevato che tali principi sono stati correttamente applicati dalla Corte di merito, che ha ritenuto di escludere un concorso di colpa del lavoratore, conducendo, inoltre, una valutazione dei mezzi di prova priva di vizi, come tale insindacabile in sede di legittimità. Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha concluso per il rigetto del ricorso. 


I criteri discretivi tra lavoro subordinato e contratto di agenzia

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2018, n. 4884

Pres. Manna; Rel. Ponterio; Ric. FCA C.I. S.p.A.; Controric. I.A.;

Agenzia (contratto di) - Distinzione dal rapporto di lavoro subordinato - Organizzazione da parte dell'agente di una struttura imprenditoriale - Assunzione del rischio per l'attività promozionale svolta - Necessità - Qualificazione - Indici sussidiari

L'elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un'attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell'agente, che si manifesta nell'autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto - secondo il disposto dall'art. 1746 cod. civ. - delle istruzioni ricevute dal preponente, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell'imprenditore, che sopporta il rischio dell'attività svolta.

Lavoro - Lavoro subordinato - Qualificazione data dalle parti al rapporto di lavoro come di collaborazione - Rilevanza - Esclusione - Indici di qualificazione fattuali - Necessità

La qualificazione del rapporto di lavoro, operata dalle parti (c.d. nomen iuris), non assume rilievo dirimente in presenza di elementi fattuali - quali la previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, nonché il collegamento tecnico organizzativo e produttivo tra la prestazione svolta e le esigenze aziendali - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto stesso.

Nota

Nella sentenza in commento il Supremo Collegio definisce i criteri discretivi utili a distinguere la fattispecie del rapporto di lavoro subordinato dal contratto di agenzia.

Nel caso di specie, una persona fisica iniziava a prestare la propria attività a favore di una società nel maggio 2003; successivamente, nell'aprile 2004, le predette parti stipulavano un contratto di agenzia. Il 24 aprile 2013, la società comunicava il recesso dal predetto rapporto.

Il lavoratore impugnava il recesso, chiedendo - previo accertamento della natura subordinata del rapporto - la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la reintegrazione ex art. 18, L. n. 300/1970.

I Giudici del merito accoglievano l'azione. Segnatamente, per quanto qui interessa, la Corte d'Appello reputava esistenti e concordanti i seguenti «indici sintomatici» della subordinazione: la sottoposizione del lavoratore, al pari dei dipendenti formalmente subordinati, a specifiche e vincolanti istruzioni per la gestione della clientela, a ripetuti richiami al rispetto delle procedure dettate, a turni di lavoro e feriali stabiliti unilateralmente dalla società; lo svolgimento dell'attività esclusivamente nei locali aziendali e con strumenti forniti dalla società; l'assenza di qualsiasi rischio imprenditoriale e della pur minima organizzazione in capo al lavoratore; la gestione contabile dell'attività di quest'ultima ad opera dell'ufficio amministrativo della società che predisponeva le fatture per il pagamento delle provvigioni.

La società proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione degli articoli 1742, 1362 e 1414 cod. civ. In particolare, la società lamentava la mancata valorizzazione, a fini qualificatori, della «comune volontà delle parti desumibile dal nomen iuris assegnato al contratto», l'«esecuzione dello stesso per oltre dieci anni senza alcuna contestazione» da parte del prestatore nonché la «compatibilità» degli indici sussidiari «anche con lo schema contrattuale dell'agenzia».

La Suprema Corte respinge il ricorso, rammentando, anzitutto, che costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in sede di legittimità, la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica di integrazione del parametro normativo di cui all'art. 2094 cod. civ.

La Cassazione ricorda, poi, come l'elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato vada individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un'attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell'agente, che si manifesta nell'autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto - secondo il disposto dall'art. 1746 cod. civ. - delle istruzioni ricevute dal preponente; mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell'imprenditore, che sopporta il rischio dell'attività svolta.

Il Collegio chiarisce, altresì, che, ove l'indice sussuntivo primario dell'eterodirezione non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l'assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale), che hanno sì carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria, ma che prevalgono sulla qualificazione nominalistica del rapporto operata dalle parti in presenza di elementi fattuali - quali quelli sopra indicati - che costituiscono indici rivelatori della natura subordinata del rapporto.

Chiarito ciò, la Suprema Corte conclude giudicando corretta l'individuazione da parte dei Giudici del merito di molteplici e concordanti elementi qualificatori indiziari, dotati sì di efficacia probatoria sussidiaria, ma valutati, nella fattispecie concreta, idonei ad integrare la nozione di subordinazione ex art. 2094 cod. civ.

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