Contenzioso

I crediti retributivi maturati dopo il licenziamento devono essere ammessi al passivo

di Salvatore Servidio

Nella questione oggetto della sentenza 23 marzo 2018, numero 7308, della Corte di cassazione, il tribunale rigettava la domanda di una lavoratrice di ammissione al passivo del fallimento della datrice, per il fatto che, in seguito alla dichiarazione di fallimento, la stessa non aveva più percepito le retribuzioni ed era stata poi licenziata, recesso dichiarato “inefficace” con sentenza passata in giudicato per violazione della legge 23 luglio 1991, n. 223 (la lavoratrice aveva chiesto l'ammissione delle retribuzioni non percepite dalla data del fallimento alla data della domanda e il trattamento di fine rapporto maturato nel periodo).

La Corte di Appello conferma il rigetto della domanda, ritenendo che, in seguito alla dichiarazione di fallimento, il rapporto di lavoro fosse sospeso (in base all’articolo 72 della legge fallimentare) e che neanche l'illegittimità del successivo licenziamento desse luogo a un credito del dipendente in mancanza di prestazione lavorativa.

La lavoratrice lamenta quindi in Cassazione la mancata ammissione del credito, nonostante la declaratoria di inefficacia del licenziamento, con conseguente diritto al pagamento delle somme non percepite, così come statuito dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, numero 300.

Esito del giudizio
Decidendo la vertenza, la sezione lavoro accoglie il ricorso della lavoratrice, affermando il principio che, ove il curatore decida, dopo la dichiarazione di fallimento, di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente ma il recesso risulti illegittimo, quest'ultimo è ammesso al passivo del fallimento dell'azienda datrice per il riconoscimento di stipendi e Tfr.

Il lavoratore - osserva il collegio nello specifico - può reagire al recesso intimato dal curatore con gli ordinari rimedi impugnatori e, ove venga giudizialmente accertato che il licenziamento è stato intimato in difformità dal modello legale, la curatela è esposta alle conseguenze derivanti dall'illegittimo esercizio del potere unilaterale, nei limiti in cui le stesse siano compatibili con lo stato di fatto determinato dal fallimento.

Si ricorda che il fallimento del datore di lavoro non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto (articolo 2119, comma 2, del codice civile). In seguito a dichiarazione di fallimento, il rapporto di lavoro rimane sospeso nella sua esecuzione – a meno che non sia disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa – in attesa della decisione del curatore sulla prosecuzione o sul definitivo scioglimento ai sensi dell'articolo 72 legge fallimentare (Cassazione, 7 febbraio 2003, numero 1832).

Così, nel caso di disgregazione definitiva dell'azienda, l'eventuale illegittimità del recesso non potrebbe condurre alla ripresa effettiva del rapporto di lavoro. In ogni caso la curatela che ha proceduto a intimare un licenziamento illegittimo è esposta alle conseguenze risarcitorie previste dall'ordinamento, a tutela della posizione dei lavoratore (Cassazione, 3 febbraio 2017, numero 2975).

Pertanto, afferma la Cassazione, la Corte d'appello ha errato nel negare l'ammissione al passivo del fallimento della lavoratrice per crediti relativi al periodo successivo al licenziamento. Fino a quando, dunque, il curatore non effettua la scelta tra subentrare nel rapporto di lavoro pendente o sciogliersi da tale rapporto, in assenza di prestazione, pur essendo formalmente in essere, rimane sospeso e, difettando l'esecuzione della prestazione lavorativa, viene meno l'obbligo di corrispondere al lavoratore la retribuzione.

In conclusione, per effetto dell'accoglimento del ricorso, al lavoratore spetta l'ammissione al passivo dei crediti denegati dai giudici di merito.

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