Contenzioso

La Cassazione limita il diritto di opzione nel patto di non concorrenza

di Attilio Pavone e Vincenzo Di Gennaro

Nell'ambito delle tematiche connesse al patto di non concorrenza stipulato tra il datore di lavoro e i propri dipendenti per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, in base all’articolo 2125 del codice civile, è tuttora molto dibattuta la legittimità delle clausole volte a riservare al datore di lavoro la possibilità di decidere unilateralmente se avvalersi o meno del suddetto patto in prossimità, o successivamente, alla cessazione del rapporto di lavoro.

Tra gli strumenti maggiormente utilizzati dalle aziende in questo senso vi è il patto di opzione (articolo 1331 del codice civile), in base al quale le parti possono convenire che una di esse resti vincolata alla propria dichiarazione, considerata irrevocabile, lasciando la facoltà all'altra parte di accettarla o meno.

In sostanza, il patto di opzione attribuisce al datore di lavoro un vero e proprio diritto potestativo di attivazione del patto di non concorrenza, lasciando l'obbligato (il dipendente) vincolato alla propria dichiarazione iniziale. Il patto di non concorrenza, in sostanza, non produce effetto dal momento della sua stipulazione, ma sarà il datore di lavoro a decidere se “accendere” o meno il patto, esercitando il proprio diritto di opzione.

Sul punto, sono riscontrabili, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, orientamenti oscillanti circa l'ammissibilità o meno di tale accordo.

Infatti, se la più risalente giurisprudenza aveva affermato una compatibilità tra la disciplina del patto di non concorrenza e quella del patto di opzione (Cassazione, sezione lavoro, 24 marzo 1980, numero 1968), i più recenti arresti avevano affermato, in un primo momento, la nullità del patto di opzione, ravvisando in tale pattuizione una notevole sproporzione tra le parti, salvo poi ritenerla legittima con il solo limite dell'esercizio dell'opzione entro un termine preciso, antecedente alla cessazione del rapporto (tribunale di Milano, sezione lavoro, 30 maggio 2007).

Recentemente la Cassazione si è pronunciata su un particolare patto di opzione che concedeva al datore di lavoro un'opzione irrevocabile relativa al rispetto del patto di non concorrenza da parte del dipendente, da esercitarsi con comunicazione scritta da parte del datore di lavoro da effettuarsi entro trenta giorni lavorativi dalla data di cessazione del rapporto. Solo in caso di esercizio dell'opzione da parte del datore di lavoro, il patto di non concorrenza sarebbe entrato in vigore e avrebbe avuto efficacia alle condizioni pattuite previste dallo stesso.

La clausola è stata ritenuta nulla dalla in due occasioni.

Con una prima pronuncia, la Cassazione (sezione lavoro, 4 aprile 2017, numero 8715) ha ritenuto la clausola in questione nulla, poiché stipulata in violazione degli articoli 1331 e 2125 del codice civile. In particolare, la Corte ha rilevato, in prima battuta, che un tale patto, non prevedendo alcun corrispettivo per il dipendente in cambio della concessione della facoltà di opzione al datore di lavoro, determinava un'illecita sperequazione della posizione delle parti nell'ambito dell'assetto negoziale. Sotto altro profilo, la Corte ha rilevato come tale clausola comportasse, di fatto, che l'obbligazione di non concorrenza a carico del dipendente, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, sarebbe sorta in realtà sin dall'inizio del rapporto e sarebbe proseguita nei trenta giorni successivi alla cessazione dello stesso (ossia fino al termine finale a disposizione del datore di lavoro per esercitare l'opzione), impedendo in tal modo al dipendente di ricercare nuove opportunità di lavoro.

Anche nella seconda pronuncia la Cassazione (sezione lavoro, 2 gennaio 2018, numero 3) ha ritenuto la clausola nulla, precisando che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro si pone in contrasto con norme imperative. Richiamando altre pronunce della Suprema corte che si erano espresse sul punto, la sentenza ha precisato, infatti, che la durata del patto di non concorrenza non può essere soggetta a una pattuizione che ne consenta il venir meno in ogni momento della sua durata. Ciò in quanto la ratio sottostante al patto verte sull'esigenza che il dipendente abbia contezza della durata del vincolo sin dall'assunzione, al fine di poter pianificare le proprie scelte lavorative, che verrebbero ostacolate dal potere decisionale del datore di lavoro.

Le due pronunce, sebbene non contengano una statuizione di principio circa la legittimità o meno in generale del patto di opzione stipulato in connessione a un patto di non concorrenza post-contrattuale, forniscono tuttavia utili spunti da tenere in considerazione tutte le volte in cui si intenda stipulare un patto di non concorrenza.

Le indicazioni della Suprema corte tendono in definitiva a scoraggiare l'utilizzo dell'opzione nell'ambito di detta clausola restrittiva. Le rimanenti alternative per il datore di lavoro sono la stipulazione di un patto di non concorrenza “tradizionale” (valido cioè in ogni caso in base allo schema negoziale voluto dalle parti fin dall'inizio) ovvero, al più, l'inserimento di condizioni logiche e facilmente “leggibili” dalle parti, come ad esempio l'attivazione del patto solo in caso di dimissioni del dipendente, giustificata dalla maggior probabilità di concorrenza da parte di un ex collaboratore “in fuga”.

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