Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro
Licenziamento disciplinare e utilizzo di agenzie investigative

Licenziamento disciplinare e audizione orale

Licenziamento per inabilità al lavoro

Sul procedimento disciplinare

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 22 marzo 2018, n. 7206

Pres. Manna; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric. Z.R. + 4; Controric. C.S.D.C.;

Lavoro subordinato - Infortunio sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro - Limiti - Comportamento del lavoratore - Rischio elettivo - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Fattispeci

In tema di infortuni sul lavoro e di cd. rischio elettivo, premesso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela, la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.

Nota

Il caso di specie riguarda un infortunio mortale occorso ad un dipendente durante lo svolgimento della attività lavorativa, consistente, nello specifico, in una caduta dall’altezza di circa 4 metri, avvenuta durante l’esecuzione di lavori di demolizione di un fabbricato. 

La Corte d’Appello di Lecce, riformando la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto la responsabilità esclusiva del datore di lavoro nella causazione dell’infortunio mortale, condannando, quindi, gli eredi di quest’ultimo al pagamento in favore della Cassa Svizzera di Compensazione, a titolo di regresso, di quanto dalla Cassa corrisposto alla coniuge superstite del lavoratore, oltre rivalutazione ed interessi.

Nello specifico, la Corte di merito escludeva un qualsiasi concorso di colpa del lavoratore, ritenendo che lo stesso non fosse assistito da idonee misure antinfortunistiche e non avesse posto in essere alcun comportamento “abnorme”. 

La Corte di Cassazione, adita dagli eredi del datore di lavoro, ha rigettato il ricorso, rilevando innanzitutto che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, anche qualora lo stesso sia ascrivibile non soltanto ad una sua disattenzione, ma altresì ad imperizia, negligenza ed imprudenza. Il datore di lavoro è, infatti, totalmente esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell’evento, così integrando il cd. “rischio elettivo”, ossia una condotta del lavoratore, totalmente avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione lavorativa e danno (cfr. Cass. n. 10319/2017).

Sicchè, qualora non ricorrano detti caratteri nel comportamento del lavoratore, il datore di lavoro e` integralmente responsabile dell'infortunio derivante dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche, essendo la violazione dell'obbligo di sicurezza l'unico fattore causale dell'evento. Inoltre, aggiunge la Corte, il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore non solo quando ometta di adottare le idonee misure protettive, ma anche quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. 

Infine, con riferimento agli oneri probatori, poiché la responsabilità conseguente alla violazione dell'art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, l'istituto assicuratore che agisca in via di regresso deve allegare e provare - cosi` come il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio - l'esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione; il datore di lavoro deve invece provare che il danno sia dipeso da causa a lui non imputabile - avendo adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure atte ad evitare il danno - e che gli esiti dannosi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (Cass. n. 10529/2008)

Ciò premesso, la Corte ha rilevato che tali principi erano stati correttamente applicati dalla Corte di merito, che ha ritenuto di escludere un qualsivoglia concorso di colpa del lavoratore, conducendo, inoltre, un accertamento in fatto congruamente motivato, come tale insindacabile in sede di legittimità.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione, come anticipato, ha respinto il ricorso.

 

Licenziamento disciplinare e utilizzo di agenzie investigative

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2018, n. 8373

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Celentano; Ric. P.T.; Controric. U.A. s.p.a.;

Licenziamento disciplinare - Utilizzo agenzie investigative - Liceità - Limiti - Divieto di vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria - Mero sospetto del compimento di illeciti - Sufficienza

L’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non preclude a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purche´ queste non sconfinino nella vigilanza dell’attivita` lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustifica l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. 

Nota

La Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di rigetto dell’impugnativa proposta da un lavoratore avverso il licenziamento per giusta causa intimatogli in seguito a quanto emerso in base a verifiche effettuate per mezzo di un’agenzia investigativa. In particolare, premesso che il dipendente era tenuto ad un orario di lavoro fisso e che la sua prestazione si svolgeva sia all’interno che all’esterno dell’azienda, dalle indagini difensive era emerso il mancato rispetto dell’orario in ufficio, nonche´ che questi, in un arco temporale protrattosi per 10 giorni, si era dedicato ad attività totalmente estranee a quelle aziendali.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurandola sotto vari profili e, per quanto qui rileva, dolendosi della illegittimità del ricorso all’agenzia investigativa per violazione degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori.

La Suprema Corte rigetta tutti i motivi di ricorso, affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti conformi (Cass. 14 febbraio 2011 n. 3590). La Corte precisa che l’intervento degli investigatori deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Cass. 7 giugno 2003, n. 9167). Le garanzie degli artt. 2 e 3 dello Statuto operano, infatti, esclusivamente con riferimento all’esecuzione dell’attività lavorativa in senso stretto, non estendendosi, invece, agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione, che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi. 

Alla luce di tali principi, pertanto, la Suprema Corte reputa corretta la decisione di merito laddove ha basato il proprio convincimento sull’esito di un’attività investigativa rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, onde è stato accertato, per 10 giorni, non solo il mancato rispetto dell’orario giornaliero di lavoro ma anche che, in orario di lavoro, al di fuori dell’ufficio, il dipendente non aveva svolto alcuna attività lavorativa. Nel caso in esame, quindi, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì le cause dell’assenza del dipendente dal luogo di lavoro, concernenti appunto il mancato svolgimento dell’attività lavorativa da compiersi anche all’esterno della struttura aziendale. Inoltre, precisa la Cassazione, nei limiti evidenziati, il controllo può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. 10 luglio 2009 n. 16196).

Il ricorso viene, pertanto, rigettato. 

 

Licenziamento disciplinare e audizione orale

Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2018, n. 6994

Pres. Di Cerbo; Rel. Tricomi; P.M. Celentano; Ric. M.S.; Controric. I.N.P.S.;

Licenziamento disciplinare - Audizione orale - Diritto del lavoratore a farsi assistere da un avvocato - Non sussiste

Nel sistema delineato dall'art. 7,  legge n. 300 del 1970, il diritto del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale, cui aderisce o conferisce mandato, esaurisce la tutela di legge, non essendovi in esso alcun riferimento alla difesa c.d. “tecnica” assicurata da un avvocato, che è normalmente prevista solo per il giudizio e che può essere riconosciuta o meno, al di fuori di tale ipotesi, in base ad una valutazione discrezionale del datore di lavoro. Neppure ha rilievo la circostanza che il lavoratore, per gli stessi fatti oggetto dell'iniziativa disciplinare, sia chiamato a rispondere nell'ambito di un processo  penale, considerata la diversità della sfera di interessi, privati e pubblici, su cui incidono i due distinti  procedimenti. 

Nota

La Corte di Appello di Torino, in riforma della sentenza resa dal giudice del precedente grado, dichiarava la legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore, escludendo il diritto del medesimo ad ottenere qualsivoglia integrazione del trattamento economico percepito durante il periodo di sospensione obbligatoria del servizio. 

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su quattro motivi. 

In particolare, il ricorrente denunciava violazione di legge con riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 4 del Regolamento di disciplina del 2003 applicabile all’istituto previdenziale convenuto,  ed agli artt. 55 e 55 - bis del d.l.gs. n. 165 del 2001, sostenendo che erroneamente la Corte territoriale aveva escluso che si fosse realizzata nella specie la lesione del diritto di difesa del lavoratore, nonostante l’avvocato, al quale il dipendente aveva conferito mandato affinchè lo rappresentasse e lo difendesse nel procedimento disciplinare, non fosse stato ammesso a partecipare alla discussione in ordine ai fatti oggetto di contestazione nel corso dell’audizione orale. 

Ed infatti, a seguito della riassunzione del procedimento disciplinare, temporaneamente sospeso nelle more dello svolgimento del procedimento penale, riguardante i medesimi fatti posti a fondamento del licenziamento - consistenti, in particolare, nella creazione artificiosa di una posizione contributiva in favore di un terzo -, l’ente datoriale aveva convocato il lavoratore per l’audizione orale. A fronte di ciò il dipendente, pur inviando a mezzo fax le proprie giustificazioni scritte, non aveva chiesto di essere sentito oralmente, né aveva chiesto un rinvio dell’audizione orale già fissata, rilasciando nel contempo procura all’avvocato affinchè lo rappresentasse e lo difendesse nel corso del suddetto procedimento disciplinare. 

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. 

Innanzitutto, la Suprema Corte ha chiarito che nella specie non poteva ritenersi applicabile, ratione temporis, la novellazione della disciplina del procedimento disciplinare per il pubblico impiego privatizzato di cui alla legge n. 150 del 2009, con la conseguenza che il procedimento disciplinare, azionato nei confronti del ricorrente, restava assoggettato al Regolamento di disciplina dell’istituto previdenziale convenuto, vigente al tempo in cui detto procedimento era stato avviato.  

La Suprema Corte ha, dunque, evidenziato che nel succitato Regolamento è prevista l’audizione del lavoratore di persona, con l’eventuale assistenza da parte di un procuratore o di un rappresentante dell’associazione sindacale, cui il lavoratore aderisca o conferisca mandato, e non già la sostituzione di quest’ultimo ad opera di tali soggetti. 

La Suprema Corte ha richiamato inoltre il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, alla stregua del quale nel sistema delineato dall'art. 7,  legge n. 300 del 1970, il diritto del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale, cui aderisce o conferisce mandato, esaurisce la tutela di legge, non essendovi in esso alcun riferimento alla difesa c.d. “tecnica” assicurata da un avvocato, che è normalmente prevista solo per il giudizio e che può essere riconosciuta o meno, al di fuori di tale ipotesi, in base ad una valutazione discrezionale del datore di lavoro. Neppure ha rilievo la circostanza che il lavoratore, per gli stessi fatti oggetto dell'iniziativa disciplinare, sia chiamato a rispondere nell'ambito di un processo  penale, considerata la diversità della sfera di interessi, privati e pubblici, su cui incidono i due  distinti procedimenti (in tal senso cfr. Cass. 11 aprile 2017, n. 9305).

Conclusivamente, la Suprema Corte ha ritenuto scevra da vizi la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale aveva escluso che fosse configurabile nella specie la lesione del diritto di difesa del lavoratore per il sol fatto che, nel corso dell’audizione orale, fosse stato impedito all’avvocato, al quale il lavoratore medesimo aveva conferito mandato, di prendere parte alla discussione concernente i fatti oggetto di contestazione.

 

Licenziamento per inabilità al lavoro

Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2018, n. 7065

Pres. Di Cerbo; Rel. Tria; P.M. Fresa; Ric. L.V.; Controric. E.F.S.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Inabilità al lavoro - Giudizio ex art. 5 S.L. - Valore vincolante - Assenza - Consulenza tecnica d’ufficio - Repêchage 

In tema di licenziamento per inabilità al lavoro, il giudizio della struttura sanitaria pubblica, di cui all'art. 5 della L. 20 maggio 1970, n. 300, non ha valore vincolante né per il giudice, che può disporre consulenza tecnica d'ufficio per accertare la sussistenza delle condizioni d’inabilità, né per il datore di lavoro, il quale, ai fini della risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, è tenuto altresì a provare di non poter in alcun modo destinare il lavoratore ad altre mansioni (anche inferiori) compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva, sempre che il dipendente non abbia già manifestato a monte il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione.

Nota

La Corte di appello di Cagliari confermava l’illegittimità del licenziamento della lavoratrice e condannava il datore di lavoro al pagamento di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Nel caso in esame la società aveva dichiarato che il recesso si era basato unicamente sul giudizio d’inidoneità totale al lavoro espresso dal collegio medico presso il Servizio di Igiene e Sanità pubblica dell’ASL.

La Corte d'appello precisava che nel corso del giudizio di merito la CTU disposta dal giudice aveva accertato che la lavoratrice era idonea a svolgere le mansioni che le erano state assegnate.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la lavoratrice per ottenere il risarcimento nella misura massima prevista dall’articolo 18 S.L. Ed, infatti, secondo la lavoratrice la Corte avrebbe errato ad accogliere la censura della società con la quale, in via subordinata, era stata richiesta condanna al risarcimento nella misura minima delle cinque mensilità della retribuzione globale di fatto essendosi la società adeguata al giudizio di inidoneità totale al lavoro espresso dal Collegio medico presso il Servizio di Igiene e Sanità pubblica dell’ASL.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso. 

Per la Cassazione, il giudizio della struttura sanitaria pubblica, ai sensi dell’articolo 5 S.L. non ha natura vincolante per il giudice - che può disporre consulenza tecnica d'ufficio per accertare la sussistenza delle condizioni di inabilità - e per la società che deve provare di non poter in alcun modo destinare il lavoratore ad altre mansioni compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza modificare l’organizzazione. 

In caso di contrasto tra l'accertamento sanitario richiesto dal datore di lavoro e la consulenza disposta nel corso del processo, il giudice del merito deve confrontare le diverse risultanze per stabilire quale sia maggiormente attendibile e convincente, con un apprezzamento valutativo sottratto al sindacato di legittimità ove correttamente e logicamente motivato. Inoltre, il giudizio della struttura sanitaria pubblica - anche se, in ipotesi, di totale inabilità del lavoratore alle mansioni precedentemente svolte - non impone il licenziamento e non integra un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa tale da risolvere il rapporto, essendo pur sempre onere del datore di lavoro dimostrare l'inesistenza di altre mansioni (anche diverse ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore e a lui attribuibili senza alterare l'organizzazione produttiva, sempre che il dipendente non abbia già manifestato, a monte, il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione.

Con riferimento al caso in esame, la società ha sostenuto in giudizio che il licenziamento non era stato irrogato per una causa imputabile alla lavoratrice, ma nel rispetto dell'obbligo di adeguarsi al giudizio di "inidoneità totale al lavoro" espresso dal collegio medico.

Tale impostazione si pone in contrasto con la giurisprudenza di Cassazione che esclude la natura vincolante del giudizio del collegio medico.

 

Sul procedimento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 27 marzo 2018, n. 7581

Pres. Balestrieri; Rel. Spena; P.M. Matera; Ric. T. S.p.A.; Controric. D.P.;

Procedimento disciplinare - Principi di correttezza e buona fede - Richiesta del dipendente di esibizione dei documenti posti a base della contestazione - Mancata esibizione da parte del datore di lavoro - Violazione del diritto di difesa - Nullità procedimento disciplinare - Illegittimità licenziamento

Seppure l’art. 7 della legge 300/1970, non preveda, nell'ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione su cui essa si basa, il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali laddove l'esame degli stessi sia necessario al fine di permettere alla controparte un'adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto.

Nota

Un dipendente veniva licenziato nella primavera del 2012 per aver svolto attività di udienza in qualità di praticante avvocato in varie giornate, ricomprese in un periodo di circa 3 mesi tra la fine del 2010 e inizio del 2011, durante le quali risultava presente in servizio ovvero assente per malattia.

Il lavoratore riscontrava la lettera di contestazione richiedendo di poter rendere oralmente le proprie giustificazioni e richiedendo, a tal fine, l’esibizione della documentazione a sostegno degli addebiti. Il datore di lavoro non dava seguito a tale richiesta, procedendo con l’irrogazione del licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Sulmona, con sentenza poi conferma dalla Corte d’Appello di L’Aquila, accoglieva la domanda del dipendente per nullità del procedimento disciplinare in ragione del rifiuto della società di mettere a disposizione del lavoratore la documentazione da lui richiesta, il cui esame era propedeutico all’esercizio del proprio diritto di difesa. La Corte territoriale, confermava tale conclusione, precisando che i fatti contestati erano risalenti nel tempo nonché relativi a condotte episodiche con la conseguenza che era verosimile che il dipendente non ricordasse i singoli fatti, inclusi gli orari di lavoro e le giornate di assenza, e che quindi fosse necessario visionare quanto meno i dati relativi alle presenze.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

L’azienda lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. nonché dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per avere la Corte territoriale ritenuto la violazione del diritto di difesa per la mancata messa a disposizione della documentazione a fondamento della contestazione disciplinare. A sostegno di tale motivo, la società deduceva che la richiesta del dipendente era del tutto generica, riferendosi agli accertamenti posti a base degli addebiti e dunque alle indagini svolte sulla presenza in udienza del dipendente. La Società sosteneva che, in applicazione degli stessi canoni di correttezza e buona fede, posti a fondamento dell’obbligo di collaborazione del datore di lavoro, vi era l’onere del lavoratore di specificare i documenti di cui richiedeva l’esame.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ribadendo il principio di diritto (già affermato da Cass. 50/2017 nonché Cass. 6337/2013) secondo cui seppure l’art. 7 della legge 300/1970, non preveda, nell'ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, la documentazione posta a base della contestazione, in applicazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali laddove l'esame degli stessi sia necessario al fine di permettere al dipendente un'adeguata difesa.

Nella fattispecie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale si fosse conformata a tale principio di diritto avendo preliminarmente accertato la necessità di esaminare i documenti posti a base della contestazione (in particolare, i dati delle presenze) al fine di consentire l’effettivo esercizio del diritto di difesa del dipendente.

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