Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta
Procedura di licenziamento collettivo
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare e immediatezza della contestazione
Orario di lavoro e tempo tuta

Licenziamento collettivo e violazione dei criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 30 marzo 2018, n. 7987

Pres. Napoletano; Rel. Manna; P.M. Celeste; Ric. U. S.p.A.; Controric. O.F.;

Licenziamento collettivo - Violazione dei criteri di scelta - Azione di annullamento - Interesse ad agire - Sussistenza - Condizione - Prova del pregiudizio subito per effetto della violazione (cd. prova di “resistenza”) - A carico del lavoratore - Necessità

Premesso che il possesso dei requisiti pensionistici costituisce un criterio oggettivo correttamente adottabile, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, nella scelta dei destinatari d'una procedura di riduzione di personale, ove in concreto se ne lamenti un'erronea applicazione per essere stati illegittimamente esclusi dal novero dei lavoratori licenziabili alcuni dipendenti che erano pur in possesso di tale requisito, sussiste interesse ad agire soltanto se risulti che tale illegittima esclusione abbia avuto un rilievo determinante sul far ricomprendere l'attore fra i lavoratori destinatari del licenziamento.

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi (conformemente a Cass. 01/12/2016, n. 24558) sulla cd. prova di resistenza incombente sul lavoratore che agisca in giudizio per l’impugnativa del licenziamento intimatogli all’esito di una procedura di riduzione di personale.

Il Tribunale di Roma, sia nella fase sommaria sia nel giudizio di opposizione, aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore. In riforma dell’impugnata sentenza, la Corte d’Appello romana, dichiarata l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 5, L. n. 223/1991, ordinava la reintegra del dipendente nel posto di lavoro ex art. 18 Stat. Lav.. Avverso la predetta sentenza proponeva ricorso per Cassazione la società. 

E’ opportuno preliminarmente chiarire che la procedura di riduzione del personale, che ha dato luogo al licenziamento de qua, ha interessato, in ossequio ad un accordo stipulato con le oo.ss., tutti quei dipendenti che non hanno accettato la proposta aziendale di esodo volontario e che erano in possesso dei requisiti per conseguire il trattamento pensionistico. La società si era, altresì, avvalsa della possibilità, prevista da una disposizione transitoria del predetto accordo, di posticipare la data di risoluzione del rapporto di lavoro degli aderenti all’esodo incentivato per un periodo di massimo 9 mesi “limitatamente ad un numero marginale di posizioni con contenuti specialistici e/o commerciali di particolare rilevanza”.

La Suprema Corte, pur nella consapevolezza di orientamenti difformi, ha inteso dare seguito a quelle pronunce (v. ex plurimis Cass. 31/05/2017, n. 13803, Cass. 22/05/2017, n. 12814) che hanno ritenuto legittima e non discriminatoria la previsione contenuta nella citata disposizione transitoria, atteso che l’esercizio della facoltà prevista da tale ultima norma non ha influito sul criterio della pensionabilità, nel senso che sono stati licenziati, così come pattuito in sede sindacale, soltanto lavoratori che, alla data indicata dagli accordi applicati nell’ambito della procedura di mobilità, avevano maturato i requisiti pensionistici e non avevano aderito alla proposta di esodo incentivato. 

La Corte di legittimità ha, dunque, accolto il motivo di ricorso con cui la società denunciava violazione e falsa applicazione dell’art. 5, l. n. 223/1991 in relazione alla ritenuta illegittimità del criterio della prossimità alla pensione adottato (e, conseguentemente rinviato alla Corte d’Appello di Roma), e ciò sulla scorta dei seguenti principi: a) si verifica una violazione dell’art. 5, L. n. 223/1991 se la comparazione tra i lavoratori astrattamente licenziabili sia stata violata dall’adozione di criteri generici, non verificabili e comunque lasciati alla mera discrezione del datore di lavoro, oppure sia avvenuta alla stregua di criteri astrattamente oggettivi e verificabili, ma in concreto malamente applicati; b) l’annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5, L. n. 223/1991 può essere chiesto soltanto dai lavoratori che, in concreto, abbiano subito un pregiudizio per effetto della violazione, dimostrando di essere stati inseriti nel novero degli esuberi per far posto ad un altro o ad altri dipendenti che abbiano beneficiato di un’erronea applicazione dei criteri di scelta. 

Ebbene - ha concluso la Suprema Corte - nessun interesse ad agire è configurabile nel caso di specie, in capo al lavoratore, posto che non risulta che l’esclusione, dalla platea dei licenziabili, dei lavoratori aderenti alla proposta di esodo incentivato abbia provocato il suo licenziamento; ciò in quanto: 1) coloro che hanno aderito all’esodo volontario hanno cessato il proprio rapporto lavorativo prima della data in cui è stato licenziato il controricorrente; 2) neppure coloro che sono stati trattenuti in servizio in forza della succitata norma transitoria dell’accordo sindacale, potevano essere comparati con il controricorrente, essendo stati gli stessi comunque esclusi a monte dalla platea dei lavoratori (non aderenti all’esodo volontario) licenziabili.

Infine, la Corte di legittimità ha, coerentemente ad un orientamento ormai consolidato (cfr. ex plurimis Cass. 20/02/2013, n. 4186), ribadito come l’unico criterio selettivo adottato (id est: possesso dei requisiti pensionistici) sia da ritenersi “oggettivo” e non in sé censurabile. 

 

Procedura di licenziamento collettivo 

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2018, n. 8383

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. M.A.; Contoric. S.R. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento collettivo - Applicazione dei criteri di scelta ex art. 5, L. 223/1991 - Prevalenza del criterio delle esigenze tecnico-produttive - Ammissibilità - Requisiti e limiti

Quanto all’applicazione dei criteri di scelta che, ove non predeterminati da accordi collettivi, debbono essere osservati in concorso tra loro secondo quanto previsto dall’art. 5 della l. n. 223 del 1991, la regola del concorso dei criteri, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie

Nota

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto le domande del lavoratore volte a far dichiarare l’illegittimità della procedura di mobilità avviata dalla società datrice di lavoro sostenendo che la dichiarazione di apertura della procedura fosse legittima e che, contrariamente a quanto prospettato dal lavoratore, non vi fosse stata alcuna violazione di legge nell’indicazione e applicazione dei criteri di scelta da parte della società.  

Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore articolando numerosi motivi tra i quali, per quanto qui interessa, un errore commesso a suo avviso dalla Corte territoriale nell’aver ritenuto legittima la prevalenza data dalla società datrice al criterio delle esigenze tecnico, organizzative e produttive rispetto ai criteri dell’anzianità e dei carichi di famiglia. 

In particolare il lavoratore sosteneva che il datore di lavoro avesse assegnato sulla base del primo criterio un punteggio negativo tale che non potesse essere in alcun modo colmato con l’applicazione degli altri due e che ciò fosse in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale che - in mancanza di accordo sindacale, come nella procedura di cui si discute - prescrive l’osservanza dei criteri di scelta di cui all’art. 5 L. 223/1991 in concorso tra loro.

La Suprema Corte ha dichiarato infondata la censura di cui sopra e respinto l’intero ricorso. 

Nella sua decisione la Corte di Cassazione, infatti, ha confermato un risalente principio dalla stessa stabilito (da ultimo Cass. n. 22824 del 2009) in merito all’applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, L. 223/1991, secondo il quale ove gli stessi non siano predeterminati da accordi collettivi, «la regola del concorso dei criteri, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie». Secondo la Corte di Cassazione, dunque, nel caso di specie la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, accordando un peso maggiore al criterio delle esigenze tecnico organizzative e produttive, in quanto maggiormente coerenti con le finalità perseguite con la procedura di mobilità. 

Incidentalmente poi, la Corte ha avuto modo anche di confermare che non esiste un diritto generalizzato del lavoratore alla correttezza della procedura di mobilità, potendo lo stesso domandarne l’annullamento per violazione dei criteri di scelta soltanto a condizione che «abbia in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al recesso». In sostanza, il lavoratore deve dare dimostrazione dell’errore e di come lo stesso abbia influito sulla sua selezione, cosa che - nel caso di specie - non è stata, secondo la Corte, neppure prospettata.

 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 12 aprile 2018, n. 9121

Pres. Nobile; Rel. Negri della Torre; P.M. Ceroni; Ric. S. S.p.A.; Controric. P.V.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - CCNL vigilanza privata - Abbandono del posto di lavoro - Motivo dell’abbandono - Irrilevanza

La fattispecie dell'abbandono del posto di lavoro, di cui all'art. 140 del CCNL Istituti di vigilanza privata del 2 maggio 2006, presenta una duplice connotazione, oggettiva, per cui, dovendosi identificare l'abbandono nel totale distacco dal bene da proteggere, rileva l'intensità dell'inadempimento agli obblighi di sorveglianza, e soggettiva, consistente nella coscienza e volontà della condotta di abbandono indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento. 

Nota

Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa intimato a una guardia giurata che durante l’orario di lavoro, dopo essersi tolta il giubbotto antiproiettile, si era recata in un bar di fronte all’ingresso della banca ove era di sorveglianza.

La Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dava ragione al lavoratore, ritenendo il provvedimento espulsivo sproporzionato poiché, ad avviso della Corte di merito, affinché si realizzi la fattispecie dell’abbandono del posto di lavoro, occorre che «per modalità e tempi, l’agente si allontani in modo da favorire eventuali intrusioni non controllate». Ciò non si sarebbe verificato nel caso di specie, dal momento che l’ingresso della banca era visibile anche dal bar.

La Società ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia censurando la sentenza impugnata, da un lato, per aver omesso l’esame di fatti decisivi ai fini della configurabilità dell’abbandono del posto di lavoro, dall’altro, per non avere considerato che la condotta tenuta dal vigilantes era caratterizzata dalla coscienza e volontà di allontanarsi dalla postazione di servizio, con ciò intendendo violare le direttive ricevute in ordine alle modalità di svolgimento dell’attività di piantonamento fisso antirapina della banca.

La Corte di Cassazione ha accolto tale motivo di ricorso, evidenziando come la condotta di abbandono del posto di lavoro vada valutata sotto un duplice aspetto. Sul piano oggettivo, come «totale distacco del bene da proteggere» e sotto il profilo soggettivo, consistente nella «coscienza e volontà della condotta di abbandono indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la configurabilità di cause scriminanti», a nulla rilevando il motivo alla base dell’allontanamento.

Rilevano quindi le circostanze del caso concreto, così come la presenza di eventuali precedenti disciplinari (la guardia giurata era già stata più volte sanzionata disciplinarmente per il mancato uso del giubbotto antiproiettile) che possano denotare una scarsa inclinazione del lavoratore all’attuazione delle direttive datoriali e degli obblighi contrattuali, conformemente a diligenza, buona fede e correttezza. 

 

Licenziamento  disciplinare e immediatezza della contestazione

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2018, n. 7735

Pres. Manna; Rel. Garri; Ric. V.A.; Controric. E.D. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Immediatezza della contestazione - Carattere relativo in dipendenza delle circostanze - Accertamento del giudice del merito - Necessità

In materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo: da un lato, si deve tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale, sufficientemente precisa e dettagliata, dell’inadempimento contestato al dipendente, in modo di consentire a quest’ultimo di difendersi adeguatamente; dall'altro, è necessario dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, fermo restando che la valutazione delle suddette circostanze è riservata al giudice del merito.

Nota

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce, in materia di licenziamento disciplinare, il carattere relativo del requisito dell’immediatezza della contestazione.

Nel caso di specie, un dipendente era stato licenziato per aver effettuato la «sostituzione arbitraria di otto contatori» nonché per «omessa segnalazione di palesi manomissioni» e di «consumi anomali con presunta frode in danno» della società datrice. I fatti, contestati nell’estate 2011, risalivano al periodo tra il luglio 2009 e l’ottobre 2010.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello dichiaravano legittimo il recesso. In particolare, i Giudici del merito argomentavano che le «verifiche eseguite si inserivano in un ampio quadro di controlli disposti sull’intero territorio nazionale per arginare il fenomeno delle frodi e delle indebite sottrazioni di energia elettrica realizzate, talora, con il concorso di dipendenti infedeli mediante la manomissione di contatori», sicché, in relazione alla complessità degli accertamenti da effettuare, «la contestazione doveva essere ritenuta tempestiva».

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 3 e 4, della Legge 20 maggio 1970, n. 300 sub specie di tardività della contestazione d’addebito elevatagli.

Il Supremo Collegio respinge la censura rammentando, anzitutto, che il principio di immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, obbligando l’imprenditore a portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati solo allorché essi appaiano ragionevolmente sussistenti: in concreto, occorre tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale, sufficientemente precisa e dettagliata, dell’inadempimento contestato al dipendente, in modo di consentire a quest’ultimo di difendersi adeguatamente. Pertanto - soggiunge la Cassazione - il requisito della tempestività va bilanciato con quello della specificità, che deve del pari essere rispettato.

Ciò premesso, a parere dei Giudici di legittimità la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, atteso che, da un lato, i singoli episodi contestati si inserivano in un ampio quadro di controlli disposti per far fronte a sistematiche frodi e sottrazioni di energia; dall’altro, solo nell’agosto 2010 era emerso che, per sottrarre al controllo le pregresse irregolarità, alcuni dipendenti infedeli avevano proceduto alla sostituzione di contatori manomessi e solo da tale momento erano stati disposti, quindi, specifici controlli, che per numero e qualità avevano richiesto del tempo, sicché la contestazione - come detto, possibile con un sufficiente grado di certezza solo all’esito di detti controlli - era da ritenersi tempestiva. 

 

Orario di lavoro e tempo tuta

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2018, n. 7738

Pres. Balestrieri; Rel. Pagetta; Ric. S.I. S.p.A. Contr. F.A. e altri;

Tempo tuta - Attività di vestizione e dismissione di indumenti di lavoro - Qualificazione - Orario di lavoro - Eterodirezione - Diritto alla retribuzione - Sussistenza

Al fine di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale - c.d. tempo tuta - debba essere retribuito o meno, occorre distinguere: se è data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività rientra tra gli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa e, come tale, non deve essere retribuita; al contrario, se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, la stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.

Nota

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande avanzate da alcune lavoratrici, addette al servizio mensa, dichiarando che il tempo utilizzato per indossare e dismettere la divisa rientrava nel normale orario di lavoro e andava, quindi, remunerato.

Il giudice di appello, premesso che non era contestato l'obbligo della divisa e che la stessa dovesse essere indossata esclusivamente all'interno dell'azienda in appositi spogliatoi messi a diposizione dal datore di lavoro, aveva ritenuto che l'attività preparatoria concernente la vestizione, poiché era svolta seguendo disposizioni datoriali, assumeva i connotati di attività eterodiretta e, dunque, dovesse essere retribuita.

Avverso tale decisione la società propone ricorso per cassazione denunciando la violazione delle norme di legge e dei contratti collettivi, rilevando che, nel caso di specie, era la legge - d.p.r. n. 327/1980 - ad imporre, per ragioni di igiene pubblica, che la vestizione dovesse avvenire in luoghi immediatamente prospicienti gli ambienti ove vi sarebbe stato il contatto con gli alimenti. Così come l'obbligo di indossare cappellino e grembiule rispondeva ad esigenze di igiene pubblica e non era destinato al soddisfacimento di un interesse datoriale.

La Cassazione respinge il ricorso rilevando, in primo luogo, che era irrilevante ai fini della decisione che l'obbligo di indossare la divisa nascesse direttamente dalla legge, atteso che l'interesse del datore di lavoro è che la prestazione lavorativa si svolga con modalità conformi alla legge, diversamente l'attività connessa al servizio mensa risulterebbe impedita. Inoltre, come evidenziato dalla giurisprudenza della sezione, nel rapporto di lavoro subordinato - anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di lavoro (C-266/2014) - il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell'orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti o, ancora, dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento (Cass. 26 gennaio 2016, n 1352).

In conclusione, secondo la Suprema Corte, la decisione della Corte di appello è conforme all'indirizzo in tema di c.d. "tempo tuta" secondo il quale al fine di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore  di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività rientra tra gli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita; al contrario, se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (cfr. Cass. 15 gennaio 2014, n. 692; Cass. 7 giugno 2012, n. 9215).

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©