Contenzioso

Tempestività della contestazione disciplinare

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Ancora sulla nozione di mobbing e sulla rilevanza dell'intento persecutorio
Riammissione in servizio e trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Tempestività della contestazione disciplinare
Sgravi per assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità

Ancora sulla nozione di mobbing e sulla rilevanza dell'intento persecutorio

Cass. Sez. Lav. 27 aprile 2018, n. 10285

Pres. Napoletano; Rel. Blasutto; P.M. Matera; Ric. C.S.D.D.P.; Intim. P.M..

Lavoro subordinato – Mobbing – Configurabilità – Elementi costitutivi

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Nota
La Corte d'Appello di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado con cui era stata accolta la domanda di risarcimento danni (limitandolo al danno biologico e morale), proposta da un vicecomandante dei vigili urbani, nominato Responsabile del Servizio di Polizia Amministrativa, il quale aveva dedotto di aver subito una serie di atti e comportamenti integranti la fattispecie del mobbing. Il Tribunale, sulla scorta dell'istruttoria espletata, aveva accertato che il vicecomandante era stato lasciato privo di uomini al suo comando e di mezzi adeguati (ad es: linea telefonica esterna e cellulare di servizio) per espletare i suoi compiti nel periodo di tempo dedotto in giudizio, e che era stato reiteratamente svilito il ruolo allo stesso assegnato (e ciò mediante la privazione di poteri gerarchici e gestori; la mancata consultazione nella riorganizzazione degli uffici; la mancata inclusione nei piani di lavoro e la conseguente mancata erogazione del salario accessorio; la distrazione della posta indirizzata al servizio, che doveva essere previamente inoltrata al Comando). La Corte territoriale, a conferma di tale quadro probatorio, nel dare conto degli elementi costitutivi del mobbing, ha ricostruito, in particolare, l'intento vessatorio (id est: elemento soggettivo) alla stregua di una lettura complessiva dei fatti.
Proponeva ricorso per Cassazione il comune.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando la nozione di mobbing più volte affermata (Cass. 06/08/2014 n. 17698) e ribadendo che, ai fini della sussistenza di una condotta lesiva rilevante del datore di lavoro è necessario che via siano sia l'elemento oggettivo (molteplicità e sistematicità di comportamenti vessatori) sia l'elemento soggettivo (intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi). L'accertamento di tali elementi è rimesso al giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, riservato al giudice di merito, il quale dovrà valutare, in maniera rigorosa, entrambi gli elementi costitutivi della fattispecie.
La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto la pronuncia gravata immune da censure – avendo la Corte di merito dato conto, con argomentazione logicamente congrua, delle fonti del proprio convincimento – e reputando, al contrario, le censure avversarie volte, sostanzialmente, a sollecitare una rivisitazione dei fatti di causa, inammissibile in Cassazione.


Riammissione in servizio e trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c.

Cass. Sez. Lav. 19 aprile 2018, n. 9725

Pres. Di Cerbo; Rel. Curcio; Ric. I.G. Contr. P.I. S.p.A.;

Riammissione in servizio a seguito di declaratoria di illegittimità del contratto a termine – Eccedentarietà presso la sede originaria – Trasferimento presso altra sede ex art. 2103 c.c. – Conseguenze – Legittimità.

Nel caso in cui il datore di lavoro, a seguito della declaratoria di illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro, sia condannato alla riammissione in servizio del lavoratore, il reinserimento nell'attività lavorativa deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie. E' però consentito al datore di lavoro disporre il trasferimento del lavoratore, ex art. 2103 c.c., se ricorrono comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Nota
La Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda avanzata da una lavoratrice tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del trasferimento comunicatole dal proprio datore di lavoro, a seguito dell'accertamento della nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro.
La Corte di merito, diversamente dal Tribunale, aveva ritenuto che il momento rilevante, ai fini dell'accertamento della disponibilità dei posti in cui riammettere la lavoratrice, dovesse essere valutato, in linea con l'accordo sindacale del 27.09.2004, con riferimento alla situazione esistente al momento dell'effettivo ripristino. In tal senso, la datrice di lavoro aveva dimostrato, documentalmente, quali erano gli uffici c.d. eccedentari e la lavoratrice era stata trasferita presso l'ufficio più vicino a quello di provenienza. Inoltre, a parere dei giudici di appello, doveva ritenersi ininfluente la documentazione attestante lo status di grave disabilità dei genitori della lavoratrice, ex l. n. 104/1992, in quanto la certificazione era intervenuta successivamente alla data del trasferimento.
Avverso tale pronuncia la lavoratrice propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione degli artt. 2103 e 1418 c.c., ritenendo che la sentenza di appello aveva errato nel valutare il momento in cui dovevano essere accertate le ragioni legittimanti il trasferimento.
La Cassazione respinge il motivo, rilevando che, come più volte precisato dalla sezione, l'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il rispristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, precisando tuttavia che, ove il datore di lavoro intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, tale mutamento della sede deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile la inottemperanza da parte del lavoratore, sia in attuazione dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. che sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti (cfr. Cass. 16 maggio 2013, n. 11927; Cass. 9 agosto 2013, n. 19095). La Cassazione ritiene che la datrice di lavoro abbia fatto corretta applicazione di tali princìpi atteso che ha, dapprima ripristinato il rapporto presso l'ufficio originario e, dopo qualche giorno, disposto il trasferimento della lavoratrice, giustificandolo con una situazione di “eccedentarietà” presso l'ufficio di provenienza, richiamando l'accordo sindacale del 29 luglio 2004 nella lettera di trasferimento. Accordo in cui le parti sociali hanno deciso che la situazione di eccedentarientà debba essere accertata non con riferimento ala data della pronuncia giudiziale, bensì al “momento della riammissione”, dovendo il datore di lavoro valutare in tale circostanza l'esigenza di ricollocare il personale.
Con il secondo motivo la lavoratrice denuncia la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto che l'accertamento effettuato dalla Commissione medica di cui all'art. 33, l. n. 104/90 avesse natura costitutiva e non dichiarativa, tenuto conto che la domanda di riconoscimento dello status di handicap grave era stata presentata prima del trasferimento. La Cassazione respinge anche tale motivo, evidenziando che, al momento del trasferimento, la ricorrente non aveva ancora acquisito il diritto ex art. 33, legge citata, dunque non sussisteva l'obbligo della datrice di lavoro di mantenere la lavoratrice nella sede più vicina al domicilio dei genitori; né la natura dichiarativa dell'accertamento può far retroagire, alla data di presentazione della domanda, il diritto della ricorrente a non essere trasferita.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 20 aprile 2018, n. 9895

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. E. S.p.A.; Controric. M. C. e altri;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Necessità di uno stato di crisi aziendale o andamento economico negativo - Esclusione - Maggior profitto per l'impresa o migliore efficienza gestionale - Legittimità - Limite - Onere di specificazione delle ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro - Effettività delle ragioni - Necessità del nesso causale tra ragioni indicate e licenziamento intimato.

Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, lo stato di crisi o l'andamento economico negativo dell'azienda non costituiscono un requisito di legittimità, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, che devono essere esplicitate nella lettera di recesso, determinino causalmente un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione della posizione lavorativa a cui era adibito il lavoratore licenziato.

Nota
Il caso oggetto della pronuncia in commento tratta di due lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo a seguito della decisione della Società datrice di lavoro di procedere, in considerazione dello stato di crisi in cui si trovava, a una riorganizzazione aziendale volta al contenimento dei costi produttivi e di gestione, con accorpamento delle aree commerciali e soppressione di quelle meno produttive.
La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità di tali licenziamenti, ritenendo che la Società non avesse «provato adeguatamente il giustificato motivo oggettivo posto alla base dei licenziamenti impugnati».
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la Società, censurandola sotto vari profili.
In particolare, la Società lamentava che l'attività di indagine dei giudici di merito avrebbe dovuto limitarsi all'effettività della soppressione del posto di lavoro, senza spingersi, invece, a valutare la natura dei motivi e dei presupposti presi in considerazione dal management aziendale per la realizzazione della riorganizzazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso.
Preliminarmente, la Cassazione, richiamando una serie di recenti pronunce (Cass. n. 9869/2017, 13607/2017, 13808/2017, 14178/2017, 14872/2017, 14873/2017, 18190/2017, 19655/2017), ha ricordato che, ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare e il giudice accertare, ben potendo esserci, alla base della fine di un rapporto di lavoro, «un mutamento dell'assetto organizzativo» motivato da esigenze organizzative e/o produttive.
Infatti, le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, anche volte a una migliore efficienza gestionale o produttiva possono, se adeguatamente provate, determinare causalmente un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo aziendale attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa.
Al Giudice spetta poi il compito di verificare la reale sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro e, dunque, «il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso» (Cass. n. 25201/2016).
Ciò che il Giudice è tenuto ad accertare è, dunque, che la riorganizzazione aziendale sia effettiva e che sussista il nesso causale tra la ragione inerente all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro addotta dal datore di lavoro in termini di riferibilità e di coerenza rispetto alla ristrutturazione aziendale (in questo senso, anche Cass. n. 4015/2017).
Pertanto, nel caso in cui tale nesso venga meno, «si disvela l'uso distorto del potere datoriale», emergendo una dissonanza che smentisce l'effettività della ragione addotta dall'imprenditore a fondamento del licenziamento.
Essendo quest'ultima situazione presente nel caso di specie (i Giudici di legittimità hanno, infatti, ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova, da parte della Società, del fatto che l'area affidata ai lavoratori licenziati fosse meno produttiva delle altre), la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Società, dichiarando illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo da questa intimato ai propri dipendenti.

Tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 5 aprile 2018, n. 8411

Pres. Manna; Rel. Marotta; Ric. I.L.; Controric. M.P.S. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Immediatezza della contestazione - Carattere relativo in dipendenza delle circostanze - Accertamento del giudice del merito - Necessità.

In materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo: da un lato, si deve tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale, sufficientemente precisa e dettagliata, dell'inadempimento contestato al dipendente, in modo di consentire a quest'ultimo di difendersi adeguatamente; dall'altro, è necessario dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa, fermo restando che la valutazione delle suddette circostanze è riservata al giudice del merito.

Nota
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce, in materia di licenziamento disciplinare, il carattere relativo del requisito dell'immediatezza della contestazione.
Nel caso di specie, un dipendente era stato, dapprima, «sospeso dal servizio» e, successivamente, licenziato “in tronco”, per aver - tra il resto - «autorizzato scoperture di conto corrente per consentire ai beneficiari di coprire altri conti scoperti», «aperto 22 conti correnti senza effettuare i controlli sull'affidabilità dei nominativi», «concesso prestiti a persone con documenti carenti o contraffatti in ordine alla loro situazione economica», «aver attribuito valutazioni positive a persone risultate insolventi» nonché «autorizzato e addirittura eseguito prelevamenti in contanti in favore di taluni soggetti in tal modo consentendo un utilizzo improprio o illecito della valuta».
Il Tribunale accoglieva l'impugnazione del lavoratore, argomentando, essenzialmente, che «le contestazioni poste a base del licenziamento fossero prive del carattere dell'immediatezza».
La Corte territoriale riformava integralmente la sentenza, ritenendo che «la mole dei documenti da esaminare con riferimento a più anni e le posizioni diversificate dei dipendenti coinvolti imponessero un tempo di accertamento relativamente lungo e che quello nello specifico utilizzato dalla società datrice per una indagine complessa e laboriosa fosse assolutamente ragionevole».
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 sub specie di tardività della contestazione d'addebito elevatagli. Segnatamente, deduceva che tutti i fatti oggetto della contestazione a base del licenziamento, comunicato il 14 dicembre 2011, fossero già noti alla società - «ben oltre le linee essenziali necessarie a sostenere tale contestazione» - fin dall'epoca della sospensione cautelare del dipendente (datata 20 dicembre 2010) e della pressoché contemporanea presentazione della denuncia-querela da parte dell'azienda alla Procura della Repubblica competente. Il dipendente rilevava, altresì, che dalla sospensione cautelare del dicembre 2010 alla contestazione del 26 ottobre 2011 non vi sarebbe stata alcuna ulteriore attività di indagine da parte dell'azienda e che il datore aveva, in sede di querela, già compiutamente ricostruito la complessiva dinamica dei rapporti di credito bancario e di finanziamento anomali.
Il Supremo Collegio respinge la censura rammentando, anzitutto ed in generale, che il principio di immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per l'espletamento delle indagini dirette all'accertamento dei fatti e la complessità dell'organizzazione aziendale.
Ebbene, a parere della Cassazione, nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente rilevato come il tempo intercorso tra denuncia penale (e la pressoché contemporanea sospensione cautelare) e la successiva contestazione degli addebiti fosse dipeso da plurime ed obiettive circostanze - quali l'esigenza di seguire e valutare entro un termine ragionevole la vicenda penale, la complessità dell'esame delle posizioni (dai quaranta ai cinquanta correntisti), la mole dei documenti da esaminare relativamente a più anni (dal 2006 al 2010) e i dipendenti coinvolti (tra cui il direttore della filiale) -, sicché tale lasso temporale doveva ritenersi del tutto ragionevole e congruo, potendo le predette circostanze ritardare la percezione ed il definitivo accertamento e la correlativa valutazione dei fatti contestati in modo ponderato e responsabile, anche nell'interesse dello stesso lavoratore a non subire incolpazione avventate.

Sgravi per assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2018, n. 10766

Pres. Manna; Rel. Ponterio; Ric. I.N.P.S.; Contoric. A. ‘95 S.r.l.;

Lavoro subordinato – Sgravi contributivi ex art 8, L. 223/1991 – Requisiti e limiti – Concessione in caso di trasferimento d'azienda – Esclusione – Effettiva diversità di cedente e cessionaria e creazione di nuovi posti di lavoro – Necessità

Ove l'azienda — intesa come complesso organizzato non solo di mezzi ma anche di lavoratori stabilmente addetti ad essa — abbia continuato o riprenda ad operare (non rilevando né se titolare sia lo stesso imprenditore o altro subentrante né lo strumento negoziale attraverso cui si sia verificata la cessione totale o parziale di azienda), la prosecuzione o la riattivazione del rapporto di lavoro presso il nuovo datore di lavoro costituiscono non la manifestazione di una libera opzione del datore di lavoro, ma l'effetto di un preciso obbligo previsto dalla legge (art. 2112 c.c., come modificato dall'art. 47 L. n. 428 del 1990 e dal D.lg. n. 18 del 2001) il cui adempimento non giustifica l'attribuzione dei benefici contributivi in argomento non traducendosi in un reale incremento occupazionale; non assume rilievo, in contrario, l'eventuale raggiungimento di un accordo tra impresa e sindacati in ordine alle modalità attuative del trasferimento di azienda in quanto simile accordo può derogare agli effetti voluti dal citato art. 2112 c.c. soltanto nella particolare ipotesi prevista dal comma 5 dell'art. 47, L. n. 428 del 1990 cit.

Nota
Il caso in esame ha ad oggetto i requisiti e limiti per il godimento dei benefici connessi all'assunzione di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità.
Nel caso di specie la società datrice di lavoro aveva fruito dei benefici di cui sopra per 28 lavoratori, precedentemente occupati da una società fallita. La società datrice si era infatti aggiudicata, nell'ambito della relativa procedura concorsuale, l'unità locale dell'azienda fallita ed aveva stipulato un accordo con le parti sindacali in base al quale si era obbligata ad assumere i 28 dipendenti di cui sopra. I dipendenti erano quindi stati licenziati dall'azienda fallita, iscritti nelle liste di mobilità e riassunti il giorno dopo dalla società datrice. Secondo la Corte d'Appello di Genova, la cartella di pagamento emessa dall'I.N.P.S. nei confronti della società datrice per aver indebitamente fruito degli sgravi contributivi di cui sopra era illegittima in quanto nel caso di specie non si era realizzato un trasferimento d'azienda (come invece sosteneva l'I.N.P.S.), con conseguente passaggio dei lavoratori senza soluzione di continuità alle dipendenze dell'acquirente e inapplicabilità degli sgravi, ma un passaggio di singoli beni. In base a tale ricostruzione gli sgravi in questione erano stati legittimamente fruiti.
Contro tale sentenza ricorreva per cassazione l'I.N.P.S. sostenendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2112 e 2697 c.c. oltre che dell'art. 8 L. 233 del 1991.
La Suprema Corte ha ripercorso brevemente i principi affermati negli anni in merito all'applicazione di tali benefici e, all'esito, ha cassato la sentenza con rinvio accogliendo le censure dell'I.N.P.S.
La Suprema Corte ha infatti ricordato, in primo luogo, che tali benefici non possono essere riconosciuti nel caso in cui si verifichino le specifiche circostanze ostative previste dalla legge come capaci di concretizzare comportamenti elusivi e fraudolenti (ad es. assetti proprietari sostanzialmente coincidenti o collegamenti tra imprese), in secondo luogo ha confermato che i benefici non possono essere riconosciuti laddove vi sia un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. in quanto, diversamente, non si terrebbe in considerazione la ratio della norma che punta a favorire l'occupazione di soggetti effettivamente espulsi dal mercato del lavoro. In questo quadro la Suprema Corte ha confermato il Suo orientamento (Cass. n. 2407 del 2004) in base al quale «ove l'azienda — intesa come complesso organizzato non solo di mezzi ma anche di lavoratori stabilmente addetti ad essa — abbia continuato o riprenda ad operare (non rilevando né se titolare sia lo stesso imprenditore o altro subentrante né lo strumento negoziale attraverso cui si sia verificata la cessione totale o parziale di azienda), la prosecuzione o la riattivazione del rapporto di lavoro presso il nuovo datore di lavoro costituiscono non la manifestazione di una libera opzione del datore di lavoro, ma l'effetto di un preciso obbligo previsto dalla legge (art. 2112 c.c., come modificato dall'art. 47 L. n. 428 del 1990 e dal D.lg. n. 18 del 2001) il cui adempimento non giustifica l'attribuzione dei benefici contributivi in argomento non traducendosi in un reale incremento occupazionale; non assume rilievo, in contrario, l'eventuale raggiungimento di un accordo tra impresa e sindacati in ordine alle modalità attuative del trasferimento di azienda in quanto simile accordo può derogare agli effetti voluti dal citato art. 2112 c.c. soltanto nella particolare ipotesi prevista dal comma 5 dell'art. 47, L. n. 428 del 1990 cit.». A tali considerazioni, poi, la Corte di Cassazione ha aggiunto che laddove siano ravvisati significativi elementi di permanenza della struttura aziendale, è onere della società che vuole usufruire dei benefici dimostrare gli elementi di novità della struttura e le integrazioni apportate al complesso ceduto al fine di permettergli lo svolgimento autonomo della propria funzione produttiva.
Riferendosi al caso di specie la Suprema Corte ha quindi sottolineato che la Corte territoriale ha errato non avendo tenuto in considerazione i giusti elementi e avendo omesso di motivare perché avesse ritenuto che oggetto di trasferimento fossero stati soltanto beni individuati e non l'intera azienda. In merito all'indagine che la Corte di merito deve compiere, infine, la Cassazione ha precisato che: è del tutto irrilevante che il passaggio avvenga nell'ambito di una procedura fallimentare; nessun rilievo può avere il nomen juris dato dalle parti all'atto di trasferimento; oggetto di valutazione del giudice devono essere anche la successione nel tempo degli avvenimenti che precedono le assunzioni in mobilità oltre che la natura delle attività svolte da cedente e cessionaria e il numero dei lavoratori già alle dipendenze della società avente causa.

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