Contenzioso

Menomato l’onore del datore di lavoro niente reintegro per cinque operai Fca

di Angelo Zambelli

Con la sentenza 14527/2018, depositata ieri, la Cassazione ritorna sul diritto di critica (e di satira) nell’ambito del rapporto di lavoro.

All’origine del contenzioso il licenziamento intimato a cinque dipendenti dello stabilimento Fca di Pomigliano d’Arco per aver realizzato - in tre diversi luoghi, incluse le aree antistanti gli ingressi di due fabbricati aziendali nonché di fronte alla sede di un’emittente televisiva regionale – «una macabra rappresentazione scenica» del «finto suicidio dell’amministratore delegato della società tramite impiccagione su un patibolo, accerchiato da tute macchiate di rosso (a mo’ di sangue) e del successivo funerale, con contestuale affissione di un manifesto a mo’ di testamento ove si attribuivano all’amministratore stesso le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la deportazione di altri» ad uno stabilimento della società.

Contrastanti le valutazioni dei giudici di merito. In primo grado il Tribunale confermava il licenziamento ritenendo che la stessa integrasse un illegittimo esercizio del diritto di critica da parte dei dipendenti. All’opposto, la Corte d’appello riteneva il licenziamento illegittimo – con conseguente condanna della società a reintegrare i lavoratori – sul presupposto che la rappresentazione scenica realizzata, «per quanto macabra, forte, aspra e sarcastica», non avesse «travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere, anche pubblicamente, valutazioni e critiche dell’operato altrui (quindi anche del datore di lavoro), che in una società democratica deve essere sempre garantito». In particolare, secondo i giudici di seconde cure, la critica dei dipendenti aveva rispettato il limite di continenza sostanziale «per la rispondenza al criterio della verità soggettiva», in considerazione della lettera lasciata da uno dei dipendenti suicidatosi, che riconduceva la ragione della tragica scelta alla condizione lavorativa, e delle opinioni dello stesso tenore rilasciate da un’altra dipendente morta suicida.

La Cassazione ha cassato la sentenza della Corte territoriale ritenendo – di contro – violato il parametro normativo che prevede il bilanciamento effettivo dei due interessi costituzionalmente rilevanti nella fattispecie, ossia il diritto di critica e la tutela della persona umana.

Ad avviso della Corte di legittimità, infatti, se è vero che la «plateale inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica» conduce, in genere, ad escludere la loro capacità di offendere la reputazione altrui - che viene, invece, «più facilmente colpita dall’apparente ed implicita attendibilità dei fatti riferiti in un contesto enunciativo» -, tuttavia neppure la satira può esorbitare dal requisito della continenza.

Nello specifico, gli ermellini hanno ritenuto che i dipendenti avessero «esorbitato i limiti di continenza formale attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione», e travalicando, pertanto, il «limite della tutela della persona umana richiesto dall’articolo 2 della Costituzione che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche, ma pur sempre misurate» e tali da evitare di «evocare pretese indegnità personali». Ed invero – prosegue la Corte – è indubbio che la libertà dell’attività sindacale non possa ritenersi in conflitto con l’obbligo di fedeltà dei dipendenti di cui all’articolo 2105 del Codice civile: tuttavia non è così per la menomazione dell’onore, della reputazione e del prestigio del datore che ecceda i limiti della continenza formale contravvenendo al cosiddetto minimo etico, con la conseguenza che il venir meno di tale canone mina il rapporto fiduciario e legittima il licenziamento per giusta causa. Come dire, forse si è davvero esagerato.

La sentenza n. 14527/18 della Corte di cassazione

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