Contenzioso

Per l’età della pensione vale il cambio di sesso anche non registrato

di Fabio Venanzi

Prevale la situazione di fatto rispetto a quella giuridica nel caso di cambio di sesso senza l’annotazione delle nuove generalità. Lo ha stabilito la sentenza della Corte di giustizia europea con la sentenza nella causa C-451/16.

Un cittadino inglese, sposato con una donna, in costanza di matrimonio si è sottoposto a una operazione chirurgica di cambio sesso. Tuttavia non ha richiesto un certificato di riconoscimento definitivo con le nuove generalità, poiché avrebbe dovuto annullare il matrimonio, atto che i coniugi non hanno voluto compiere per motivi religiosi. Il “marito”, al compimento del 60esimo anno di età, ha chiesto di beneficiare della pensione che, per le lavoratrici, era erogata a 60 anni mentre per gli uomini a 65 anni. La domanda è stata respinta in quanto, in assenza di un certificato del cambio di sesso, l’interessato non poteva essere considerato donna ai fini della pensione.

I giudici della Corte Ue hanno osservato che il sistema pensionistico del Regno Unito mira a garantire la tutela contro i rischi connessi alla vecchiaia attribuendo una pensione in funzione dei contributi versati, indipendentemente dalla situazione matrimoniale. Pertanto la situazione di una persona che ha cambiato sesso dopo aver contratto matrimonio e quella di una persona sposata che ha conservato il sesso di nascita sono comparabili, e la normativa del Regno Unito costituisce discriminazione diretta fondata sul sesso ed è contraria alla direttiva Ue 79/7.

Tale situazione non può accadere in Italia dove la rettificazione di sesso è effettuata in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisce a una persona sesso diverso da quello enunciato al momento della nascita. L’articolo 4 della legge 164/1982 prevedeva lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Tuttavia la Corte costituzionale, con la sentenza 170/2014, ha dichiarato l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevedeva che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi (con conseguente scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio), consentisse di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli diritti e obblighi della coppia, con le modalità da statuirsi dal legislatore.

Quest’ultimo, con la legge 76/2016 (nota anche come legge Cirinnà), ha regolamentato le unioni civili tra persone dello stesso sesso prevedendo che, alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegua l’automatica instaurazione dell’unione civile.

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