Contenzioso

Licenziamento per giusta causa

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento di lavoratrice madre
Licenziamento per giusta causa
La rilevanza della volontà delle parti nella qualificazione del rapporto di lavoro

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2018, n. 12805

Pres. Nobile; Rel. Marchese; P.M. Ceroni; Ric. D.I.S.; Controric. L.F. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Gravità dell'addebito - Proporzionalità - Mansioni del lavoratore - Rilevanza - Fattispecie.

Al fine di stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, è necessario effettuare una valutazione di gravità dei fatti addebitati al lavoratore e di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione inflitta. La valutazione della gravità dell'illecito deve, in particolare, anche rapportarsi alla qualità e all'importanza delle mansioni proprie del lavoratore.

NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, dipendente di una società di vigilanza, che aveva omesso di comunicare al collega del turno successivo l'avvenuto disinserimento del dispositivo di allarme di un impianto fotovoltaico - informazione che avrebbe implicato la necessità di un differente controllo del luogo presidiato da parte del suddetto collega -, con conseguente sottrazione da parte di terzi del bene vigilato.
Il licenziamento veniva dichiarato legittimo sia in primo che secondo grado. In particolare, la Corte d'Appello di Lecce giungeva a tale conclusione rilevando che la condotta addebitata al dipendente integrasse una fattispecie di giusta causa di licenziamento, in quanto le peculiarità che contraddistinguevano il servizio cui era addetto il lavoratore, il ruolo di coordinamento assegnato a quest'ultimo e le ricadute negative che l'accaduto aveva avuto sull'immagine della società avevano senza dubbio leso il vincolo fiduciario e posto in dubbio la futura correttezza dell'adempimento.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha ritenuto infondato il ricorso, rilevando che il giudice di merito aveva correttamente applicato i principi consolidati in tema di licenziamento per giusta causa, accertando che la fattispecie integrasse una violazione dei fondamentali doveri di diligenza scaturenti dal rapporto di lavoro, altresì in considerazione del danno, anche in termini di immagine, derivato al datore di lavoro.
Con riferimento all'accertata lesione del vincolo fiduciario, in particolare, la Corte ha rilevato che nel caso concreto essa era stata adeguatamente motivata dal giudice di merito, che aveva dato correttamente rilievo alla qualità e all'importanza delle mansioni svolte dal lavoratore (cfr. anche Cass. n. 4328/1996, secondo cui «la valutazione della gravità dell'illecito, cui deve proporzionarsi la sanzione, deve anche rapportarsi alla qualità e all'importanza delle mansioni proprie del lavoratore»).
Il ricorrente ha lamentato, inoltre, che il licenziamento fosse sproporzionato in considerazione delle previsioni del codice disciplinare applicato. Tale censura, secondo la Corte di Cassazione, è però inammissibile, poiché, laddove sia denunziata nel ricorso per cassazione la violazione di norme del contratto collettivo, la deduzione di tale violazione deve essere accompagnata dalla trascrizione integrale della clausola di riferimento, al fine di consentire alla Corte di individuare la ricorrenza della violazione denunziata (cfr. Cass. nr. 25728/2013) oltre che dal deposito integrale della copia del contratto collettivo (cfr. Cass. SU n. 20075/2010) o dalla indicazione della sede processuale in cui detto testo è rinvenibile (Cass. SU n. 25038/2013).
Per tali motivi, come anticipato, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 23 maggio 2018, n. 12794

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. M.M.A.; Controric. G.C. S.R.L.; Controric. C. S.C.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Soppressione del posto di lavoro – Ridistribuzione delle mansioni tra gli altri dipendenti – Legittimità

Nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda, attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore, per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi. Non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.

NOTA
La Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludeva l'esistenza di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto tra le due società in favore delle quali il lavoratore aveva prestato servizio nel periodo di causa, e dichiarava legittimo il licenziamento intimato al dipendente per giustificato motivo oggettivo. La Corte di Appello condannava, infine, le predette società al pagamento nei confronti del dipendente di quanto dovuto a titolo di straordinario.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore affidato ad otto motivi.
In particolare, il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. n. 604/1966 e dell'art. 2697 c.c. con riferimento ai capi di pronuncia coi quali la Corte territoriale aveva considerato assolto da parte dell'azienda l'obbligo di repechage, ed aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato al dipendente per giustificato motivo oggettivo.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
In primo luogo, la Suprema Corte ha rilevato che, in conformità con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata non solo aveva correttamente accertato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al dipendente fosse giustificato dal provato disavanzo patrimoniale e da una perdita di produttività, che caratterizzava da tempo l'andamento economico dell'impresa, ma aveva altresì accertato l'effettività della conseguente riorganizzazione aziendale comportante la soppressione del posto di lavoro del dipendente, le cui mansioni vennero peraltro ripartite tra il presidente della società ed altre due dipendenti (ex aliis, Cass. 3 maggio 2017, n.10699; Cass. 7 dicembre 2016, n.25201; Cass. 1 giugno 2012, n. 8846; Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282).
La Suprema Corte ha, inoltre, ribadito che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda, attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore, per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi. Tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore.
Da ciò deriva che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.
Quanto all'obbligo di repechage, la Suprema Corte ha rilevato che dalle risultanze istruttorie era emerso che l'unico posto di lavoro corrispondente alla qualifica del dipendente era stato soppresso e che lo stesso non era stato in grado di indicare quale potesse essere la sua ricollocazione in ambito aziendale, tenuto anche conto dell'esiguità dell'organico aziendale (6\7 dipendenti).
A tale riguardo i giudici di legittimità hanno, infine, precisato che seppure è vero che non sussiste (cfr. Cass. 5 gennaio 2017, n.160; Cass. 22 marzo 2016, n.5592; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101) un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda, gravando la prova dell'impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, è altresì vero che, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazionì del lavoratore circa l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, vale a corroborare il descritto quadro probatorio.


Licenziamento di lavoratrice madre

Cass. Sez. Lav. 6 giugno 2018, n. 14515

Pres. Nobile; Rel. Negri della Torre; P.M. Matera; Ric. C.d.T. S.r.l.; Controric. O.S.

Lavoro subordinato - Licenziamento - Diritto alla conservazione del posto -Lavoratrice madre - Divieto - Deroga in caso di cessazione dell'attività aziendale - Cessazione dell'attività di un reparto dell'azienda - Applicabilità - Esclusione - Fondamento

In tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all' art. 54, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, dall'inizio della gestazione fino al compimento dell'età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell'intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale.

NOTA
La Corte di appello di Roma in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità, per violazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), del licenziamento di una lavoratrice.
Secondo la Corte la norma richiamata doveva considerarsi di stretta interpretazione e di conseguenza consentire il licenziamento della lavoratrice madre soltanto nei casi di cessazione totale dell'attività (e non anche, come nel caso di specie, di chiusura del reparto al quale la stessa era addetta).
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso in Cassazione la società contestando alla Corte di aver erroneamente affermato che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è escluso solo nel caso di cessazione totale dell'attività aziendale. Secondo la società, tale divieto si applica anche nel caso di cessazione dell'attività aziendale in un ramo o reparto autonomo a cui la lavoratrice era addetta.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 3, lett. b), prevede la non applicabilità del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell'ipotesi di cessazione dell'attività dell'azienda alla quale la lavoratrice è addetta. Si tratta di norma che pone un'eccezione ad un principio di carattere generale (e cioè quello fissato dall'art. 54, comma 1, di divieto di licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate), per cui è da ritenersi di stretta interpretazione e, come tale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica; con la conseguenza che, per la non applicabilità del divieto, devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lett. b) e cioè che il datore di lavoro sia un'azienda e che vi sia cessazione dell'attività.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Suprema Corte era stata correttamente accertata la sola chiusura del reparto cui era addetta la lavoratrice e non invece la cessazione dell'intera attività aziendale.


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 18 maggio 2018, n. 12324

Pres. Napoletano; Rel. Manna; P.M. Celeste; Ric. F.V.; Controric. e Ric inc. V. s.p.a.;
Licenziamento per giusta causa - Impossessamento di denaro aziendale - Sussistenza di un reato - Rilevanza -Esclusione

In caso di licenziamento del lavoratore per abusivo impossessamento di beni o denaro aziendali, per determinare la consistenza dell'illecito non rileva, di regola, la qualificazione fattane dal punto di vista penale né lo stabilire se l'illecito integri il delitto di furto o quello di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 n. 11 cod. pen.

NOTA
Il Tribunale di Forlì rigettava l'opposizione proposta contro l'ordinanza dello stesso Tribunale che aveva respinto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato ad una responsabile di un punto vendita per appropriazione di acconti pagati dalla clientela. La Corte d'Appello di Bologna, in parziale accoglimento del reclamo, pur ravvisata una giusta causa di recesso, dichiarava il licenziamento illegittimo per violazione dell'art. 7 legge n. 300 del 1970, per non avere la società proceduto all'audizione personale con l'assistenza di un sindacalista nonostante la tempestiva richiesta avanzata dalla dipendente. Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione cui la società ha resistito, spiegando, a sua volta, ricorso incidentale.
Per quanto qui rileva, la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, già sancito in precedenti (Cass. 17 aprile 2001, n. 5633). A parere della Corte ciò che conta è che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave e irrimediabile violazione del vincolo fiduciario proprio del rapporto di lavoro, al punto che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto ai suoi obblighi lavorativi. Nella sentenza, sempre richiamando principi già consolidati e nel rigettare uno specifico motivo sul punto, la Cassazione ricorda, inoltre, che, anche un solo grave episodio rivelatore d'una irrimediabile lesione dell'elemento fiduciario, può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, sottolineando che, nel caso in esame, la proporzionalità fra illecito disciplinare e relativa sanzione è stata esplicitamente valutata e motivata con riferimento alla gravità della condotta; a tal fine i giudici territoriali hanno, infatti, valorizzato la posizione apicale occupata dalla lavoratrice, tale da attribuirle un particolare rapporto fiduciario ed escluderla dall'assoggettamento a controlli diretti. Indipendentemente dalla rilevanza penalistica, quindi, la valutazione di proporzione compiuta dai giudici del merito è stata giudicata dalla Suprema Corte corretta e conforme ai principi.

La rilevanza della volontà delle parti nella qualificazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 14 giugno 2018, n. 15631.

Pres. Napoletano; Rel. Leo; P.M. Matera; Ric. F.L.; Controric. C.H S.r.l.;

Lavoro autonomo – Accertamento della natura subordinata del rapporto – Rilevanza della volontà delle parti – Influenza – Limiti – Concrete modalità svolgimento della prestazione lavorativa – Prevalenza.

L'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità svolgimento della prestazione lavorativa.
Quando i contraenti abbiano dichiarato di volere escludere l'elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con il lavoro autonomo, sia con quello subordinato, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l'elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo.

NOTA
Un lavoratore agiva in giudizio per ottenere l'accertamento della natura subordinata del proprio rapporto di lavoro, la condanna del relativo committente al pagamento delle conseguenti differenze retributive nonché la declaratoria di illegittimità del recesso intimatogli.
La Corte d'Appello di L'Aquila confermava la sentenza del Tribunale di Vasto di rigetto di tutte le domande del lavoratore. Quest'ultimo ricorreva in Cassazione; la società resisteva con controricorso.
La sentenza annotata, pur priva di ogni riferimento al rapporto di lavoro oggetto di causa, ripercorre il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di autonomia e subordinazione ribadendo che l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività (opus).
Nella motivazione viene tuttavia dato atto che, oggi giorno, le due tipologie di rapporto di lavoro non compaiono che raramente nelle loro forme "primordiali", in quanto i molteplici aspetti della vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo insinuano elementi peculiari che appannano la primigenia simplicitas dei due tipi legali, comportando, non di rado, rapporti di lavoro "ibridi" e difficilmente definibili.
Anche per tale ragione, la Corte di Cassazione ha quindi ricordato che al fine di pervenire alla identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l'altro tener conto anche del reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell'esercizio dell'autonomia contrattuale. Pertanto, la c.d. eterodirezione, quale primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante l'analisi dell'effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario, non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e, talvolta, diretta a modificare la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista. Di conseguenza, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, deve darsi necessariamente rilievo prevalente a questi ultimi.
In conclusione, la Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto (già affermato in Cass. 4220/1991 e Cass. 12926/1999) secondo cui quando i contraenti abbiano dichiarato di volere escludere l'elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l'uno che con l'altro tipo di prestazione lavorativa, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove il lavoratore dimostri che, in concreto, l'elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nelle concrete modalità di svolgimento del rapporto.

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