Contenzioso

Organizzazione di tendenza e associazione onlus

di a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento disciplinare
Organizzazione di tendenza e associazione onlus
Attività giornalistica, definizione
Sul comodato di ramo di azienda

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2018, n. 15523

Pres. Di Napoletano; Rel. Arienzo; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A.; Controric. S.V.
Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Reiterazione delle assenze per malattia - Scarso rendimento - Irrilevanza

Il datore di lavoro non può licenziare per giustificato motivo, ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, il dipendente rimasto reiteratamente assente per malattia, ma può esercitare il recesso solo dopo che si sia esaurito il periodo all'uopo fissato dalla contrattazione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità.

NOTA
Il caso oggetto della pronuncia in commento tratta di un lavoratore licenziato per scarso rendimento dovuto all'elevato numero di assenze, sebbene le stesse non esaurissero il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo applicato.
Nello specifico, la Corte di Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, aveva escluso la legittimità del recesso comunicato dalla società al dipendente, poiché il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro prevedeva espressamente l'ipotesi del comporto per sommatoria e le assenze del dipendente non avevano superato il limite temporale previsto.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la società. Il lavoratore resisteva con controricorso.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, la società sosteneva che la Corte territoriale non avesse considerato che la reale motivazione del licenziamento traeva origine dallo scarso rendimento del lavoratore, dovuto ad eccessiva morbilità, intesa come fattore di disfunzione organizzativa all'interno dell'azienda che, come tale, integrava un'ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, con perdita di interesse totale del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto.
La Cassazione, confermando quanto statuito dalla Corte d'Appello, ha affermato, preliminarmente, che la non utilità della prestazione per il tempo della malattia è un evento previsto e disciplinato dal legislatore con conseguenze che possono portare alla risoluzione del rapporto di lavoro solo dopo il superamento del periodo di comporto disciplinato dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Secondo i Giudici di legittimità, dunque, le numerose assenze del dipendente per malattia non possono essere assunte quale giustificazione di un licenziamento per scarso rendimento, caratterizzato da un inadempimento, seppur incolpevole, del lavoratore, essendo invece improntate alla tutela della salute che, in quanto valore preminente, ne giustifica la specialità.
La malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità) è, infatti, soggetta alle regole dettate dall'articolo 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
Per la Suprema Corte ne consegue, quindi, che le regole dettate dall'art 2110 c.c. si sostanziano nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza predeterminata dalla legge.
In tal modo, si contemperano gli interessi confliggenti del datore di lavoro (che vorrebbe «mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce)» e del dipendente (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza il rischio di perdere la propria occupazione), riversando sull'imprenditore, entro un determinato periodo di tempo, il rischio della malattia del dipendente.
La Suprema Corte ha altresì ricordato che, se da un lato il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza, dall'altro, il superamento di detto limite è condizione sufficiente a legittimare il recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr. Cass. n. 1861/2010 e Cass. n. 1404/2012).
La Suprema Corte ha quindi concluso affermando che il licenziamento deve considerarsi ingiustificato ove il recesso sia intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all'elevato numero di assenze che non siano però tali da esaurire il periodo di comporto (in questo senso, tra le altre, Cass. n. 16582/2015 e Cass. n. 13624/2005).

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 giugno 2018, n. 14192

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Servello; Ric. P.L.; Controric. e ric. incidentale V.L.A..
Licenziamento disciplinare – Illegittimità licenziamento – Pluralità di addebiti – Insussistenza del fatto contestato ex art. 18, c. 4 Stat. Lav. – Interpretazione – Mancata realizzazione di un nucleo minimo di condotta autonomamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva – Inclusione

In caso di contestazione di pluralità di addebiti o di un'unica articolata condotta, la “insussistenza del fatto” si configura solo qualora sul piano fattuale possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotta – fra i fatti oggetto di contestazione – di per sé solo astrattamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva, oppure, specularmente, qualora si realizzi l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità.
Licenziamento disciplinare – Illegittimità licenziamento – Tutela indennitaria-risarcitoria del novellato art. 18 – Interpretazione – Diritto all'indennità di preavviso – Non esclusione
La tutela indennitaria-risarcitoria, di cui al novellato art. 18 Stat. Lav., non esclude il diritto del lavoratore a percepire anche l'indennità di preavviso in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, non essendo venute meno, anche all'esito delle modifiche apportate dalla L. n. 92/2012, quelle esigenze proprie dell'istituto, di tutela della parte che subisce il recesso, volte a consentirle di fronteggiare la situazione di improvvisa perdita dell'occupazione, né autorizzando la lettera e la ratio della disposizione una opzione ermeneutica restrittiva.

NOTA
La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte attiene al licenziamento senza preavviso irrogato ad un dipendente che aveva proferito, nei confronti della superiore gerarchica, frasi offensive ed ingiuriose. Il Tribunale confermava l'ordinanza della fase sommaria che aveva riqualificato il licenziamento irrogato per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo e rettificava l'importo già riconosciuto a titolo di indennità sostitutiva del preavviso. La Corte di Appello di Bergamo, in riforma della sentenza di primo grado e, in applicazione dell'art. 18, c. 5, Stat. Lav. (nel testo risultante dalla modifica introdotta dall'art. 1, c. 42, L. 92/2012), dichiarava il rapporto di lavoro risolto alla data del licenziamento, con condanna della società al pagamento di un'indennità risarcitoria omnicomprensiva, quantificata in 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Escludeva, infine, il riconoscimento del diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.
In particolare, la Corte di merito affermava che la condotta, pur sussistente, non rivestiva un carattere di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva, specie sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Ciò sia in considerazione dell'assenza di precedenti disciplinari nell'ambito del rapporto di lavoro durato oltre venticinque anni, sia in considerazione del fatto che il comportamento del dipendente appariva frutto di momentanea insofferenza verso la collega, divenuta suo superiore, e risultava ridimensionato, nei suoi connotati di gravità, anche dalla eccessiva insistenza della stessa nel richiedere un chiarimento che il lavoratore non era disposto a dare. In merito alla tutela applicabile, poi, il giudice di appello escludeva la possibilità di reintegrazione ex art. 18, c. 4, Stat. Lav., in assenza della tipizzazione, da parte del contratto collettivo, della condotta de qua come punibile con una sanzione conservativa.
Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione. Resisteva con controricorso la società, la quale, a sua volta, proponeva ricorso incidentale, con cui deduceva l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti (per non aver la sentenza impugnata considerato il protrarsi dell'aggressione dal mattino fino alla pausa pranzo, di modo che la condotta de qua non poteva essere semplicemente considerata come frutto di momentanea insofferenza bensì come vera e propria insubordinazione nei confronti del superiore), nonché la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 7 Stat. Lav., affermando che il principio di graduazione delle sanzioni non è da ricollegare solo al numero dei precedenti disciplinari bensì all'obiettiva gravità della condotta.
La Corte di legittimità ha preliminarmente disatteso le censure mosse dalla società, in quanto: da un lato, ha ritenuto non ravvisabile l'omesso esame del fatto storico, indicato come decisivo (rappresentato dal protrarsi della condotta), trattandosi di una circostanza tenuta ben presente dalla sentenza impugnata, ma implicitamente ritenuta irrilevante, con valutazione non sindacabile in sede di legittimità; dall'altro, ha osservato come il riferimento all'assenza di precedenti disciplinari non abbia affatto costituito il parametro decisivo al quale, in maniera pressoché automatica, sarebbe stata ancorata la valutazione di non proporzionalità, atteso che il giudice del reclamo è pervenuto a tale valutazione sulla base di una complessiva considerazione delle circostanze del caso concreto, alla stregua delle quali ha ritenuto non giustificata la sanzione espulsiva.
Respinto il ricorso incidentale, la Corte ha poi esaminato i motivi del ricorso principale proposto dal lavoratore.
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente deduceva violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18, cc. 4 e 5, L. n. 300/1970, ritenendo che la fattispecie concreta andava ricondotta nell'ambito della previsione della “insussistenza del fatto” che giustificava l'applicazione della tutela reintegratoria. Ciò in quanto dalla ricostruzione fattuale del giudice del reclamo era emersa una condotta solo parzialmente corrispondente a quella contestata, non risultando dimostrato che vi fossero state anche urla o toni minacciosi.
Tale motivo è stato ritenuto infondato. Ciò sulla base del consolidato principio secondo cui qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che, solo se presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. 28/07/2017, n. 18836; Cass. 30/05/2014, n. 12195). Partendo da tale premessa, la Corte di legittimità è giunta ad un'importante conclusione, e ciò coerentemente con il contesto del novellato art. 18: in caso di contestazione di pluralità di addebiti o di un'unica articolata condotta, la “insussistenza del fatto” si configura solo qualora sul piano fattuale non si realizzi neppure un nucleo minimo di condotta che sia autonomamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva, oppure, specularmente, qualora si realizzi l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità (come già affermato da Cass. 20/9/2016, n. 18418). Ebbene, applicando tali principi al caso di specie, la Corte di legittimità ha sottolineato come la fattispecie in esame non appaia riconducibile alla ipotesi di “insussistenza del fatto” invocata dal ricorrente. Ciò perché, a fronte di un addebito complesso (costituito non solo da un atteggiamento minaccioso, irritato e furioso, ma anche dalla pronunzia di frasi offensive ed ingiuriose nei confronti del superiore gerarchico), il ricorrente, di fatto, non ha mai contrastato la ricostruzione fattuale operata dalla Corte di merito, né ha mai contrastato l'assunto, presupposto implicito della sentenza impugnata, che la pronunzia di tali frasi era di per sé sola astrattamente idonea ad integrare un fatto sanzionabile sul piano del rapporto di lavoro.
La ulteriore censura, pure formulata con il motivo in esame, con la quale si assumeva che il difetto di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione espulsiva, comportava la tutela reintegratoria di cui al comma 4 del novellato art. 18, è stata respinta dalla Suprema Corte, che ha sottolineato come la novella legislativa distingua il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, sicchè ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Cass. 6/11/2014, n. 23699).
Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione dell'art. 18, c. 5, Stat. Lav. e dell'art. 2118 c.c., censurando la decisione per avere ritenuto che la indennità risarcitoria fosse comprensiva anche della indennità sostitutiva del preavviso.
Tale motivo è stato accolto, con conseguente pronuncia di condanna della società al pagamento in favore del lavoratore della indennità sostitutiva del preavviso nella misura quantificata dal Tribunale con la sentenza oggetto di reclamo. La Corte, infatti, ha inteso dare continuità al principio, già precedentemente espresso (v. Cass. 21/09/2016, n. 18508), secondo cui la tutela indennitaria-risarcitoria, di cui al novellato art. 18 Stat. Lav., non esclude il diritto del lavoratore a percepire anche l'indennità di preavviso in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, non essendo venute meno, anche all'esito delle modifiche apportate dalla L. n. 92/2012, quelle esigenze proprie dell'istituto, di tutela della parte che subisce il recesso, volte a consentirle di fronteggiare la situazione di improvvisa perdita dell'occupazione.

Organizzazione di tendenza e associazione onlus

Cass. Sez. Lav. 18 giugno 2018, n. 16031

Pres. Manna; Rel. Marchese; Ric. P.A. Contr. A.L. onlus;

Associazione onlus – Licenziamento – Art. 4, l. n. 108/90 – Esclusione tutela reale – Condizioni – Organizzazione non lucrativa di utilità sociale – Insufficienza – Accertamento della natura non imprenditoriale – Necessità.

E' estranea all'area di attuazione dell'art. 4, l. n. 108/90, l'associazione che, per statuto, non persegue un fine ideologicamente orientato di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto ed operi con criteri di economicità, ossia non semplicemente rivolti al perseguimento dei fini sociali dell'ente ma finalizzati al tendenziale pareggio tra costi e ricavi, restando, a tal fine, irrilevante la distribuzione di utili.

NOTA
La Corte di appello di Roma, nel dichiarare la illegittimità del recesso intimato ad un lavoratore, applicava la tutela obbligatoria in ragione della qualità di organizzazione di tendenza dell'Associazione, datrice di lavoro. La Corte di merito riteneva che la qualità di datore di lavoro “non imprenditore”, doveva ritenersi conclamata per tabulas trattandosi di organizzazione non lucrativa di utilità sociale e che, per statuto, l'Associazione perseguiva l'attività di ricerca sui disabili e lo studio di problemi socio-sanitari.
Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell'art. 4, comma 1, l. n. 108/90, nella parte in cui si affermava la natura non imprenditoriale e non lucrativa dell'attività svolta dall'Associazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso. Invero, la Cassazione premette che la disciplina stabilita per le c.d. “organizzazioni di tendenza” di cui all'art. 4, l. n. 108/90, di esclusione dall'operatività della tutela reale, ex art. 18. l. n. 300/70 - nel teste previgente le modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012 - è derogatoria rispetto alla regola generale della piena riparazione della lesione inferta in caso di licenziamento illegittimo. Conseguentemente, trattandosi di norma eccezionale e di stretta interpretazione, ai fini della sua operatività è necessario che il recesso sia intimato da un datore di lavoro “non imprenditore”, che svolga “senza fini di lucro” una attività “di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” (ex art. 4, comma 1, l. cit.). Laddove, invece, l'organizzazione di tendenza eserciti un'attività strutturata in modo di impresa, non sarebbe giustificabile un diverso trattamento rispetto agli altri datori di lavoro. E, ai sensi dell'art. 2082 c.c., esercita attività di impresa l'Associazione che agisca in modo “economico”, vale a dire con il fine di perseguire il tendenziale pareggio tra costi e ricavi, a prescindere dall'esistenza di un vero e proprio fine lucrativo (cfr. Cass. 26 gennaio 2004, n. 367).
Applicando tali princìpi, ritiene la Suprema Corte che i giudici di merito abbiano errato laddove hanno ritenuto di desumere la natura non imprenditoriale dell'Associazione dalla qualifica di Onlus riconosciuta alla medesima; ciò in quanto l'essere una organizzazione non lucrativa di utilità sociale non comporta di per sé la natura non imprenditoriale dell'organizzazione che può essere esercitata in forma di impresa sociale.
Infine, rileva la Cassazione, ha errato la Corte di appello anche nella parte in cui ha ritenuto che la promozione di attività di ricerca sui disabili integrasse attività riconducibile all'art. 4, l. n. 108. Infatti, pur se manca nel nostro ordinamento una definizione di “organizzazione di tendenza”, la stessa, per come elaborata dalla dottrina, evoca una fattispecie associativa che si caratterizza per la diffusione di valori ideologicamente caratterizzati (di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, di religione o di culto); pertanto, gli scopi dell'Associazione, di natura assistenziale e socio-sanitaria, risultano estranei al campo di applicazione della norma, per essere privi di qualsiasi finalità ideologica.
Per tali ragioni la sentenza viene cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma.

Attività giornalistica, definizione

Cass. Sez. Lav. 8 giugno 2018, n. 15028

Pres. D'Antonio; Rel. Calafiore; Ric. I.N.P.G.I.; Controric. F.E. S.p.A.;

Attività giornalistica – Definizione – Requisiti per la sussistenza – Lavoro intellettuale con apporto soggettivo e creativo – Necessità

Attività giornalistica – Indici di subordinazione – Messa a disposizione delle energie anche tra una prestazione e l'altra – Responsabilità di una specifica e predeterminata area dell'informazione – Redazione sistematica di articoli e tenuta di rubriche – Necessità

Costituisce attività giornalistica – presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista – la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell'evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'inserimento continuativo del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa
Il carattere subordinato della prestazione del giornalista presuppone la messa a disposizione delle energie lavorative dello stesso per fornire con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell'informazione, di cui assume la responsabilità, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura così la copertura di detta area informativa, contando per il perseguimento degli obbiettivi editoriali sulla disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, ciò che rende la sua prestazione organizzabile in modo strutturale dalla direzione aziendale

NOTA
Il caso in esame riguarda la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in relazione a vari giornalisti che collaboravano con la società datrice di lavoro. Nello specifico la Corte d'Appello di Roma aveva riconosciuto l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo ad uno solo dei soggetti in questione (inquadrato come redattore ordinario e fotoreporter) negandola per tutti gli altri soggetti coinvolti.
Quanto sopra in contrasto con il verbale di accertamento dell'ente previdenziale competente che, invece, aveva riconosciuto la sussistenza della subordinazione per dieci collaboratori in tutto.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione l'ente previdenziale competente, mentre la società datrice di lavoro resisteva e articolava a sua volta distinti motivi di impugnazione depositando ricorso incidentale. In particolare e per quanto qui interessa entrambe le parti sostenevano la genericità, contraddittorietà e insufficienza della motivazione addotta dalla Corte d'Appello a sostegno dei suoi giudizi in merito alla sussistenza della subordinazione.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati tali motivi di impugnazione e rigettato l'intero ricorso.
In particolare ha sottolineato che, secondo il consolidato orientamento della Corte, «costituisce attività giornalistica – presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio 1963, n. 69, sull'ordinamento della professione di giornalista – la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell'evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonché l'inserimento continuativo del lavoratore nell'organizzazione dell'impresa». In tale ambito la Corte ha ribadito anche che «il carattere subordinato della prestazione del giornalista presuppone la messa a disposizione delle energie lavorative dello stesso per fornire con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell'informazione, di cui assume la responsabilità, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura così la copertura di detta area informativa, contando per il perseguimento degli obbiettivi editoriali sulla disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, ciò che rende la sua prestazione organizzabile in modo strutturale dalla direzione aziendale».
Dopo averli enunciati la Cassazione ha confermato che la Corte territoriale ha fatto, nel caso di specie, corretta applicazione di tali principi nella valutazione delle istanze istruttorie. È stata, infatti, la stessa Suprema Corte a rilevare come secondo la valutazione della Corte d'Appello, fatta eccezione per l'unico soggetto considerato lavoratore subordinato, non vi fosse la prova della stabile messa a disposizione del datore tra una prestazione e l'altra; per alcuni di loro – inoltre – la Corte territoriale aveva rilevato l'occasionalità degli articoli redatti o comunque dei settori assegnati.

Sul comodato di ramo di azienda

Cass. Sez. Lav. 13 giugno 2018, n. 15525

Pres. Napoletano; Rel. Cinque; Ric. V.M. S.p.A.; Controric. C.V. e altri, nonché: S.I. S.p.A.
Comodato di ramo di azienda - Applicabilità dell'art. 2112 cod. civ. - Trasferimento d'azienda Requisiti - Autonomia funzionale del ramo ceduto - Insussistenza - Persistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo al comodante.

Costituisce elemento costitutivo della cessione di ramo di azienda prevista dall'art. 2112 cod. civ., anche nel testo modificato dal D.lgs. n. 276 del 2003, art. 32, l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con propri mezzi, funzionali ed organizzativi, e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.

NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce, anche in materia di comodato di ramo d'azienda, che presupposto indefettibile di un valido trasferimento di ramo d'azienda ex art. 2112 cod. civ. è l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con propri mezzi, funzionali ed organizzativi, e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione.
Nel caso di specie, alcuni lavoratori passati alle dipendenze dell'impresa comodataria, contestavano giudizialmente la validità e l'efficacia del contratto di comodato di ramo d'azienda, chiedendo l'imputazione dei rispettivi rapporti in capo alla comodante.
Il Tribunale respingeva tale domanda. La Corte d'Appello, in integrale riforma della decisione di prime cure, l'accoglieva, negando, nella fattispecie, la ravvisabilità di «una valida cessione di ramo d'azienda, riconducibile alla disciplina dell'art. 2112 cc, sia per la insussistenza del ramo medesimo prima del contratto di comodato, sia per la mancanza di particolare professionalità del personale ceduto sia, infine, per la inconsistenza dei beni strumentali trasferiti», dichiarando, per l'effetto, l'inefficacia, nei confronti dei lavoratori ceduti, del contratto di comodato di ramo d'azienda stipulato tra due società e conseguente persistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo alla società comodante.
Segnatamente, la Corte territoriale argomentava come l'insussistenza di un ramo di azienda emergesse già «dall'esame del comodato e dal contestuale affidamento, tramite contratto di appalto, dei servizi alla comodatari, l'assoluta inconsistenza dei beni strumentali ceduti, la gratuità degli stessi e la loro potenziale improduttività nonché la mancanza di particolari professionalità del personale» e, pertanto, escludeva la configurabilità di una «cessione di un insieme organicamente finalizzato ex ante all'esercizio dell'attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture già esistenti al momento del trasferimento e, dunque, non solo teorica o potenziale» e, quindi, di una valida cessione ex art. 2112 cod. civ.
La società comodante proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra il resto, violazione e falsa applicazione della predetta norma codicistica.
Il Supremo Collegio respinge il ricorso, evidenziando, anzitutto, che «è considerato trasferimento ai sensi della direttiva 2001/23 quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria. Ciò suppone una preesistente realtà produttiva funzionalmente autonoma (comma 5 art. 2112 cc come sostituito dall'art. 32 comma 1 d.lgs n. 276/2003) e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento».
La ratio di tale citata direttiva - puntualizza la Suprema Corte - è, difatti, ravvisabile nella finalità di evitare che più parti imprenditoriali possano creare strutture produttive unicamente in occasione della cessione, celando, nel contempo, «una forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, unificate solo dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad un'entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità». Sicché - concludono i Giudici di legittimità - anche nell'ipotesi di concessione in comodato di un ramo d'azienda, tale cessione è valida ed efficace nei confronti dei lavoratori ceduti solo ove «l'autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto», pur ove non coincida «con la materialità dello stesso», sia preesistente ed «obiettivamente apprezzabile, pur con possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario, al fine di verificarne l'imprescindibile requisito comunitario della sua conservazione».

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