Contenzioso

Non c’è una «scriminante sindacale» per la critica al datore di lavoro

di Carlo Marinelli e Uberto Percivalle

L'esercizio del diritto di critica all'interno del rapporto di lavoro soggiace agli stessi limiti di quelli in generale previsti per la libera manifestazione del pensiero: la continenza formale (la critica deve avvenire in modo misurato e civile) e la continenza sostanziale (ossia la veridicità di quanto esposto, sia pure sotto parametro soggettivo - e realistico - della verità percepita e non di quella assoluta). Tali limiti devono essere opportunamente valutati anche laddove la critica sia avanzata nell'ambito di una azione sindacale. E' quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza 18176/2018.

Un dirigente di una nota azienda radiotelevisiva è stato licenziato per aver redatto un documento in cui lo stesso ha espresso un suo personale parere circa l'applicazione di una data normativa ai colleghi dell'ufficio legale, utilizzando notizie riservate e inviando ad alcuni di loro tale documento. Il dirigente ha impugnato il licenziamento ritenendolo ritorsivo e discriminatorio e chiedendo l'accertamento della nullità e la conseguente reintegrazione in servizio.

Le Corti di merito hanno rigettato l'impugnativa e il dirigente ha presentato ricorso in Cassazione. Tra i vari motivi di impugnazione, ha sostenuto che la Corte di merito non ha considerato il carattere “sindacale” dell'attività contestata, essendo egli iscritto al sindacato e avendo inviato il documento a due colleghi entrambi iscritti al medesimo sindacato.

I giudici di legittimità hanno ritenuto il motivo fondato poiché la sentenza impugnata, da un lato, non ha verificato se il contenuto del documento eccedesse i limiti della continenza formale e sostanziale e, dall'altro, non ha valutato il carattere indubbiamente sindacale dell'attività contestata e la diffusione - piuttosto circoscritta e peraltro interna - del documento.

La Corte ha poi colto l'occasione per puntualizzare alcuni importanti principi su un tema complesso quale è il legittimo esercizio del diritto di critica nell'ambito dell'attività sindacale nel quale, oltre ai profili lavoristici, vengono in rilievo fondamentali principi costituzionali quali la libera manifestazione del pensiero (articolo 21) e la libertà di associazione sindacale (articolo 39) in un delicato bilanciamento di interessi.

I giudici, nel richiamare il proprio precedente orientamento (Cassazione 7471/2012) precisano che, qualora il lavoratore sia anche rappresentante sindacale, se da un lato, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, dall'altro, quale sindacalista, si pone invece su un piano paritetico con il datore di lavoro, poiché l'attività sindacale è espressione di una libertà costituzionalmente garantita e diretta alla tutela di interessi collettivi contrapposti a quelli del datore di lavoro e non subordinati alla volontà di quest'ultimo.

Tuttavia, proseguono i giudici, non esiste in assoluto una “scriminante sindacale” che legittimi ogni comportamento svolto all'interno dell'impresa, nell'ambito dell'attività sindacale, poiché il diritto di critica, anche se esercitato da parte di un sindacalista e sebbene garantito dagli articoli 21 e 39 della Costituzione, incontra comunque i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (articolo 2 della Costituzione), di tutela della persona umana, e sostanziale, nel senso della veridicità putativa dei fatti denunciati.

Non sempre tali principi hanno registrato una unanimità di posizione. Non è mancato chi, soprattutto in dottrina, ha sostenuto che nell'ambito dell'attività sindacale la perdita dello status di subordinazione da parte del sindacalista, portatore di un interesse collettivo di natura tipicamente rivendicativa, legittimerebbe una critica più aspra e aggressiva sotto l'ombrello dell'articolo 39, con la conseguenza che il giudice dovrebbe valutare con minor rigore i requisiti di continenza formale e sostanziale. Ciò anche sulla scorta della giurisprudenza e della dottrina di diritto penale, la quale, in tema di reato di diffamazione, ha sostenuto che i limiti all'esercizio del diritto di critica devono essere intesi in modo piuttosto elastico in quei settori quali la politica, l'attività giudiziaria e quella sindacale, nei quali il confronto di idee nell'ambito della normale dialettica democratica è fisiologicamente più acceso.

In realtà, e in particolar modo quando l'esercizio del diritto di critica investe anche profili penali, gli stessi giudici di legittimità, fermo restando i principi di cui sopra, hanno anche affermato (sentenza 16000/2009) come sia necessario procedere a una contestualizzazione della singola vicenda, accertando tutte le modalità del caso concreto, tenendo anche conto dell'ambiente e della situazione nella quale la critica è stata espressa, della posizione del lavoratore all'interno dell'impresa e delle motivazioni che hanno determinato la manifestazione critica.


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