Contenzioso

La critica al direttore vale il licenziamento

di Angelo Zambelli

Frasi ingiuriose nei confronti del direttore generale legittimano il licenziamento del dipendente. Con la sentenza 19092/2018 la Corte di cassazione ritorna sui requisiti di legittimità del recesso per giusta causa nonché sul diritto di critica del dipendente.

All'origine della controversia vi è il licenziamento in tronco intimato a un lavoratore di una società di gestione aeroportuale per aver proferito alla presenza del direttore generale e di un collega frasi ingiuriose («non me ne frega un c…» e «testa di c…”)» nonché espressioni in ordine alla responsabilità per la rovina dell'azienda, entrambe dirette all'indirizzo del primo e percepite sia da altri colleghi sia da due ospiti esterni.

In primo grado il licenziamento è stato ritenuto illegittimo. All'opposto, la Corte di appello ha giudicato il licenziamento fondato, atteso che era stata «raggiunta la prova in ordine alla sussistenza materiale del fatto» e che la volontà offensiva doveva ritenersi intrinseca nelle espressioni utilizzate, aggiungendo altresì che tale comportamento costituiva «gravissima insubordinazione» ed era comunque «contrario alle norme di comune etica e del comune vivere civile».

Avverso tale decisione il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo, in estrema sintesi, che le espressioni dovevano essere intese, in realtà, come una «reazione puramente emotiva» - dovuta alla mancata concessione di un permesso per recarsi a una visita medica – reazione «non controllabile e pertanto priva di alcun valore offensivo e disciplinare», con conseguente insussistenza del fatto materiale contestato e diritto alla reintegrazione.

Le censure mosse dal dipendente sono state ritenute infondate dalla Cassazione che ha precisato come, sebbene l'insussistenza del fatto contestato debba comprendere anche l'ipotesi «del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare» (sentenze 20540/2015, 18418/2016 e 10019/2016), nel caso in esame la Corte d'appello ha effettuato una corretta valutazione «di gravità» del comportamento «alla luce degli standard specifici, desunti dalla realtà aziendale e dalle sue regole, nonché dalle nozioni e dai valori generalmente condivisi».

Inoltre la Corte d'appello ha correttamente escluso la «provocazione del datore di lavoro», evidenziando come il permesso fosse relativo a una visita medica programmata da tempo, sì che il dipendente ben avrebbe potuto richiedere il permesso «assicurando al datore il modo e il tempo opportuni ad organizzare la propria attività».

Non solo. La Suprema corte ha altresì confermato la valutazione dei giudici di secondo grado secondo cui le frasi utilizzate dal lavoratore non potevano nemmeno essere ritenute una legittima espressione del diritto di critica, attesa la mancata rispondenza - anche in ragione del tono di voce elevato utilizzato - «al principio di continenza sostanziale e formale» che deve comunque essere rispettato dal lavoratore che avanzi un giudizio sull'operato del datore di lavoro.

Da tali più che condivisibili argomentazioni ne è derivato il rigetto del ricorso proposto dal lavoratore.

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