Contenzioso

Licenziamento individuale con criteri di scelta dei “collettivi”

di Angelo Zambelli


Se il licenziamento individuale per motivo oggettivo è fondato, ma il datore di lavoro ha applicato criteri di scelta non corretti, il dipendente non ha diritto alla reintegra ma alla tutela indennitaria.

Con la sentenza 19732/2018 la Corte di cassazione si è espressa in merito al caso di una lavoratrice stata licenziata per giustificato motivo oggettivo a seguito della riduzione dell'appalto di pulizia alla quale era addetta. In particolare, il recesso è stato intimato benché la stessa vantasse un'anzianità aziendale maggiore rispetto ad altri dipendenti impiegati nel medesimo appalto con mansioni fungibili, poiché la riduzione ha interessato unicamente due stabili ai quali l'interessata era adibita in via esclusiva, mentre l'appalto nel complesso riguardava più immobili.

La Corte d'appello di Milano, davanti alla quale la pronuncia di primo grado è stata impugnata ha dichiarato l'illegittimità del recesso per violazione dei principi indicati dall'articolo 1175 del codice civile nella scelta di chi licenziare, attesa la superiore anzianità aziendale della lavoratrice. Conseguentemente, ritenendo che tale violazione avesse interrotto «il nesso causale tra il giustificato motivo addotto e il licenziamento», sì da rendere il «fatto posto a base del licenziamento…manifestamente insussistente», ha ordinato la reintegrazione e il pagamento in suo favore di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione, secondo l'articolo 18, comma 7, dello statuto dei lavoratori che, appunto, consente al giudice di applicare la tutela reintegratoria “attenuata” ogniqualvolta venga accertata in giudizio la «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

Il datore di lavoro ha presentato ricorso in Cassazione censurando la pronuncia di secondo grado sotto un duplice profilo: in primo luogo, ha dedotto che il criterio dell'anzianità aziendale - dettato dalla legge - non poteva trovare applicazione nel caso di recesso individuale; in secondo luogo, ha sostenuto l'inapplicabilità della tutela reintegratoria atteso che era stata dimostrata in giudizio la sussistenza del “fatto” posto alla base del licenziamento, vale a dire la riduzione dell'appalto presso il quale la lavoratrice era impiegata.

La Suprema corte ha rigettato il primo motivo di ricorso: in assenza di criteri di legge dettati specificamente per il recesso individuale che consentano di ritenere la scelta del lavoratore da licenziare conforme ai principi di correttezza e buona fede, non possono che trovare applicazione «in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità» stabiliti per l'analoga scelta nell'ambito dei licenziamenti collettivi.

La Cassazione ha invece accolto il secondo motivo di ricorso: atteso che nel “nuovo” regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi introdotto con la riforma Fornero, la tutela reintegratoria trova applicazione unicamente in «ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento è connotata di una particolare evidenza», la violazione dei criteri in questione non può che dar luogo alla sola «tutela indennitaria».

Quanto statuito dalla Suprema corte appare pienamente condivisibile. Nelle ipotesi come quella descritta, non possono dirsi “manifestamente insussistenti” le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento indicate dall'articolo 3 della legge 604/1996, poiché è reale e dimostrata in giudizio la necessità di ridurre personale omogeneo e fungibile, determinata dalla contrazione dell'attività produttiva. La tutela reintegratoria, proprio perché “residuale”, risulterebbe in contrasto con la lettera della legge e la ratio della norma.

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