Contenzioso

Se l’azienda non si oppone, si matura il diritto a lavorare fino a 70 anni

di Matteo Prioschi


Prolungare il rapporto di lavoro fino a 70 anni non è un diritto potestativo del dipendente, ma se l'azienda non si esprime in senso contrario si configura un comportamento concludente di consenso al mantenimento in servizio.

A pochi giorni dalla sentenza 20089/2018, che ha respinto la richiesta di un giornalista di proseguire l'attività fino a 70 anni, con la sentenza 20458/2018 depositata ieri la Cassazione affronta di nuovo questo tema, con il caso di un altro giornalista.

Quest'ultimo ha continuato a lavorare dopo il raggiungimento dei 66 anni di età, limite minimo per il pensionamento di vecchiaia. Trascorso oltre un anno, quindi giunto a 67 anni, il giornalista ha chiesto all'azienda di proseguire l'attività fino a 70 anni, sfruttando l'opzione prevista dall'articolo 24, comma 4, del decreto legge 201/2011. L'azienda non ha dato riscontro, consentendo il proseguimento del rapporto di lavoro e solo dopo 16 mesi ha proposto la risoluzione consensuale del contratto, offerta rifiutata dal dipendente.

La Corte di cassazione ricorda, così come ha fatto la Corte d'appello, che con la sentenza a sezioni unite 17859/2015 è stato stabilito che quanto previsto dal decreto legge 201/2011«non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione…ma solo una possibilità» e che perché ciò avvenga è necessario che «le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi».

Perché si realizzi un consenso, non è necessario un atto scritto esplicito, ma si può tener conto del comportamento delle parti, alla luce anche del canone generale di buona fede e correttezza. Nel caso specifico, il prolungato mantenimento in servizio del dipendente, secondo i giudici, non può essere considerato come una condotta neutrale ma delinea un comportamento concludente «perché definito da una serie di molteplici indici significativi della manifestazione del consenso delle parti alla prosecuzione del rapporto».

Di conseguenza la Suprema corte ha confermato la decisione del giudice di secondo grado che ha stabilito l'illegittimità del licenziamento irrogato dall'azienda al dipendente di fronte al rifiuto di risoluzione consensuale del rapporto.

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