Contenzioso

Proporzionalità del licenziamento per giusta causa

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1
Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2
Licenziamento collettivo, la procedura
Proporzionalità del licenziamento per giusta causa
Nullità del contratto di lavoro a termine e indennità risarcitoria

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/1

Cass. Sez. Lav. 2 agosto 2018, n. 20464

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; Ric. A. S.p.A.; Controric. T.I.;

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Criteri di scelta ex art. 5 L. 223/1991 – Criterio dei carichi di famiglia – Interpretazione – Riferimento alla situazione economico-familiare complessiva del lavoratore – Necessità – Esaustività del mero dato fiscale – Esclusione

Nell'individuare quale criterio di scelta i “carichi di famiglia”, lo scopo dell'art. 5 della L. 223/1991 è quello di avere riguardo alla situazione economica effettiva della situazione familiare dei singoli lavoratori che non può limitarsi alla semplice verifica del numero delle persone a carico da un punto di vista fiscale che potrebbe risultare anche riduttiva. Dalla necessità di tutelare maggiormente i lavoratori più onerati, ne deriva che il riferimento ai “carichi di famiglia” debba essere individuato in relazione al fabbisogno economico determinato dalla situazione familiare e, quindi, dalle persone effettivamente a carico e non da quelle risultanti in relazione ad altri parametri che potrebbero rivelarsi non esaustivi
NOTA
Le decisione in commento ha ad oggetto la nozione del criterio di scelta legale nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo, individuato dall'art. 5 della L. 223 del 1991, dei carichi di famiglia. Nel caso in esame la lavoratrice, licenziata all'esito di una procedura di licenziamento collettivo in applicazione del menzionato criterio, veniva reintegrata nel posto di lavoro (con diritto anche al risarcimento del danno patito) dal Tribunale di Busto Arsizio.
Contro tale decisione veniva proposta opposizione da parte della società datrice di lavoro, la quale veniva accolta; successivamente la Corte d'Appello di Milano confermava l'illegittimità del licenziamento e riformava la pronuncia del Giudice dell'opposizione in quanto, a giudizio della Corte, lo stesso aveva errato nell'interpretare il criterio di selezione dei licenziandi rappresentato dai carichi di famiglia come equivalente ai carichi risultanti dalla dichiarazione IRPEF.
La società datrice di lavoro proponeva ricorso contro la decisione della Corte d'Appello, sulla base di vari motivi. In particolare e per quanto qui interessa la società sosteneva che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere che il criterio dei carichi di famiglia di cui all'articolo 5 della L. 223/1991 dovesse essere interpretato nel senso di componenti il nucleo familiare (e non, quindi, con riferimento al mero dato fiscale) e per avere erroneamente ritenuto che la società fosse a conoscenza dei carichi di famiglia anche in assenza di una comunicazione ad hoc della lavoratrice.
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure mosse dalla società e rigettato il ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha affermato che il citato art. 5, allorquando fa riferimento al criterio dei carichi di famiglia, richiama il criterio previsto dall'accordo interconfederale del 1965 avente ad oggetto “la situazione economica” del lavoratore interessato dalla procedura di mobilità. Con ciò la Legge punta dunque ad individuare i lavoratori più deboli socialmente.
Secondo la Cassazione «lo scopo della norma è, quindi, quello di avere riguardo alla situazione economica effettiva della situazione familiare dei singoli lavoratori che non può limitarsi alla semplice verifica del numero delle persone a carico da un punto di vista fiscale che potrebbe risultare anche riduttiva. Dalla necessità di tutelare maggiormente i lavoratori più onerati, ne deriva che il riferimento ai “carichi di famiglia” debba essere individuato in relazione al fabbisogno economico determinato dalla situazione familiare e, quindi, dalle persone effettivamente a carico e non da quelle risultanti in relazione ad altri parametri che potrebbero rivelarsi non esaustivi».
Con ciò, prosegue la Corte, non si intende che il datore di lavoro debba svolgere specifiche indagine in circostanze di questo tipo ma che, al fine di individuare i lavoratori più deboli socialmente e in virtù dei principi di correttezza e buona fede, debba tenere in considerazione non solo il dato fiscale ma la reale situazione economico-familiare del dipendente rilevando a tal fine tutte le circostanze di cui il datore di lavoro abbia conoscenza in qualche modo ufficiale.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta/2

Cass. Sez. Lav. 3 agosto 2018, n. 20502

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. A. S.p.A.; Controric. P.F.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento collettivo - Riduzione e criteri di scelta del personale - Limitazione ad un'unica unità produttiva - Violazione dei criteri di scelta - Sussistenza - Conseguenze - Nozione di “singola unità produttiva”

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina una violazione dei criteri di scelta, per la quale l'art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall'art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, prevede l'applicazione del comma 4 dell'art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970, norma che riguarda tutte le modalità di applicazione dei suddetti criteri e, quindi, non solo l'errata valutazione o applicazione dei punteggi assegnati, ma anche le modalità con cui essi sono attribuiti.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli rigettava il reclamo promosso da una società avverso la sentenza che aveva dichiarato illegittimo, per violazione dell'art. 24, L. 223/1991, il licenziamento intimato a una propria dipendente per chiusura del punto di ristorazione cui la stessa era addetta, avendo la società limitato l'ambito di selezione del personale da licenziare a tale punto vendita, senza invece considerare gli addetti agli altri punti di ristorazione presenti sul territorio nazionale.
In particolare, secondo la Corte di merito, la chiusura del predetto punto di ristorazione non poteva essere considerata, come invece sostenuto dalla società, quale cessazione di un'unità produttiva dotata di indipendenza tecnica ed amministrativa tali da far ritenere che «in essa si esaurisse per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività aziendale». Pertanto, il fatto che la società avesse omesso di esplicitare i criteri di scelta con riferimento al complesso aziendale o, quanto meno, alle altre unità produttive facenti parte del medesimo territorio, aveva integrato un vizio sostanziale per violazione dei criteri di scelta. Né, d'altra parte, la società aveva provato la possibilità di collocare la lavoratrice in altra unità produttiva.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società. La lavoratrice resisteva con controricorso.
In particolare, con i primi due motivi di ricorso, la società sosteneva che il punto vendita cessato costituisse una unità produttiva autonoma poiché, da un lato, in esso si esauriva per intero il ciclo relativo ad una frazione dell'attività complessa aziendale; dall'altro, in quanto ciascun punto vendita, così come quello cessato, godeva di indipendenza tecnica, economica ed amministrativa, con personale dedicato e locali ed attrezzature esclusive.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso.
Ad avviso della Corte i Giudici di merito avevano correttamente escluso che, nella fattispecie in esame, il punto di ristorazione costituisse una “unità produttiva autonoma” intesa, per giurisprudenza costante (ex pluribus, Cass. n. 13705/2012, Cass. n. 26376/2008 e Cass. n. 14612/2006), quale «articolazione dell'azienda che si caratterizza per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale, in quanto ciò sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale e non sia il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro».
Tale impostazione è peraltro conforme all'insegnamento della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 55 del 6/3/1974), secondo cui, all'interno dell'organizzazione imprenditoriale, l'unità produttiva si caratterizza per il carattere dell'autonomia, tanto dal punto di vista economico-strutturale (criterio che pone l'accento sulla struttura organizzativa configurata dall'imprenditore), quanto dal punto di vista finalistico o del risultato produttivo, dando in tal caso rilevanza all'unità produttiva in quanto entità aziendale idonea a produrre beni o servizi.
Ad avviso della Corte di Cassazione è quindi corretta la valutazione operata dai giudici della Corte d'Appello, ossia che il punto di ristorazione in questione non configurasse una “unità produttiva” posto che vi era sostanziale omogeneità delle attività svolte dai dipendenti con quelli addetti agli altri punti vendita distribuiti nel territorio limitrofo o nazionale, rivestendo importanza marginale le possibili differenze relative alla modalità di esecuzione della prestazione.
Ad avviso della Corte, quindi, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo il quale si incorre nella violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, comma 1, L. 223/1991, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale, invece che riferirsi a più unità produttive facenti parte del medesimo complesso aziendale tenga conto, unilateralmente, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, dell'esigenza aziendale collegata all'appartenenza territoriale ad una sola di esse.
I Giudici della Corte d'appello hanno dunque sanzionato la società facendo applicazione della tutela reintegratoria e indennitaria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970, in quanto tale norma riguarda non solo l'errata valutazione o applicazione dei punteggi assegnati a ciascun lavoratore, ma anche le modalità con cui gli stessi sono attribuiti.

Licenziamento collettivo, la procedura

Cass. Sez. Lav. 17 luglio 2018, n. 19010

Pres. Napoletano; Rel. Marotta; P.M. Servello; Ric. F.R. s.p.a.; Controric. G.M.;

Licenziamento collettivo - Comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/91 - Violazione - Conseguenze - Mancata applicazione dei criteri di scelta - Reintegrazione

Nei licenziamenti collettivi, quando la comunicazione ex art. 4, co. 9, l. n. 223/1991 carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta si sia risolta nell'accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è, in conformità ai principi di questa Corte, annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, decidendo sul reclamo proposto dal datore di lavoro, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva respinto l'opposizione della società avverso l'ordinanza dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento intimato ex L. 223/1991 e disposto la reintegra del lavoratore con condanna al pagamento di una indennità risarcitoria pari ad 8 mensilità. I giudici del merito hanno ritenuto che la società si fosse semplicemente limitata ad indicare nella comunicazione ex art. 4, co. 9, L. 223/1991 i criteri di scelta individuati, senza tuttavia precisare, in concreto, le loro modalità applicative e senza procedere, in presenza di loro concorrenza, ad una graduatoria tra i lavoratori. In particolare non risultava che la società avesse assegnato un valore ai carichi di famiglia ed all'anzianità, non era dato sapere come questi avessero interagito con il criterio delle esigenze tecnico, produttive ed organizzative, nè era stata effettuata una comparazione del reclamante con l'organico aziendale nel suo complesso ed era, anzi, emerso che fossero stati preferiti altri dipendenti con minore anzianità di servizio.
Avverso tale decisione la società è ricorsa per Cassazione sulla base di sei motivi, tutti rigettati. Nella pronunzia esaminata la Suprema Corte ha ribadito una serie di principi consolidati in tema di contenuto e finalità della comunicazione ex art. 4, comma 9, fornendo altresì una precisa distinzione - determinante ai fini della individuazione delle conseguenze sanzionatorie - da operare in relazione ai vizi coinvolgenti i criteri di scelta.
In primo luogo gli ermellini ricordano che, nella comunicazione ex art. 4, co. 9, il datore di lavoro deve indicare puntualmente sia i criteri di scelta dei lavoratori licenziati che le modalità applicative dei criteri stessi, specificando, in ipotesi di concorso (come nel caso in esame), le modalità con cui gli stessi sono stati fatti interagire ed evidenziando tutti gli elementi che hanno portato all'identificazione dei dipendenti prescelti (Cass. 14 aprile 2015, n. 7490; Cass. 26 agosto, 2013, n. 19576; in senso analogo anche Cass. 19 settembre 2016, n. 18306). Ciò affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a consentire al lavoratore di comprendere perché lui e non altri colleghi sia stato licenziato onde eventualmente contestare il recesso datoriale. Nella comunicazione suddetta, quindi, devono essere indicati non solo i criteri utilizzati nella selezione dei lavoratori, ma anche i presupposti fattuali sulla base dei quali i criteri sono stati applicati. Precisa la Corte che occorre la “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, nel senso che il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa - sia pure specificamente riferiti ai singoli lavoratori che hanno impugnato il licenziamento - ma deve nella comunicazione operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione (Cass. 16 ottobre 2017, n. 24352; Cass. 10 luglio 2013, n. 17119; Cass. 5 agosto 2008, n. 21138).
Al termine di questo excursus, con il principio di cui alla massima viene, poi, diversificato il regime sanzionatorio in relazione al rispetto sostanziale dei criteri di scelta nei casi di vizio formale nella loro indicazione nella citata comunicazione. Sul punto la Corte chiarisce che, quando alla mancata indicazione nella comunicazione ex art. 4, co. 9, della l. n. 223/1991 delle modalità di applicazione dei criteri di scelta è sottesa una loro illegittima applicazione - che si concreta nell'erronea individuazione del dipendente da licenziare - il licenziamento va annullato per violazione dei criteri di scelta e non (solo) per la violazione delle procedure previste dalla legge, con conseguente applicazione del regime reintegratorio e non già indennitario (nello stesso senso Cass. 2 febbraio 2018, n. 2587; Cass. 29 settembre 2016, n. 19320; Cass. 13 giugno 2016, n. 12095).
Avendo, nella specie, la Corte territoriale accertato che la mancata indicazione delle modalità con le quali erano stati applicati i criteri di scelta si era in concreto tradotta in un'illegittima applicazione dei medesimi, con erronea individuazione dell'originario ricorrente quale dipendente da licenziare (laddove vi erano altri due dipendenti con minore anzianità di servizio) il ricorso viene rigettato.

Proporzionalità del licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 8 agosto 2018, n. 20660

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. P.; Controric. C.C.I.

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Nozione legale - Ipotesi previste dal CCNL - Vincolatività per il giudice - Valutazione - Proporzionalità - Lesione del vincolo fiduciario.

In tema di licenziamento, la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto. Il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.
NOTA
Nella sentenza in oggetto il Supremo Collegio ribadisce il principio secondo il quale essendo quella di giusta causa o giustificato motivo una nozione legale, la previsione della contrattazione collettiva non vincola il giudice di merito che ha il dovere di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari con il disposto dell'art. 2106 cod. civ.
Nel caso di specie, una lavoratrice licenziata per giusta causa agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato per l'appropriazione di beni aziendali. Si costituiva in giudizio la società chiedendo il rigetto del ricorso.
Entrambi i giudici di merito respingevano il ricorso confermando la legittimità del licenziamento avendo accertato che «il fatto contestato era risultato confermato nella sua materialità, che la condotta era sanzionata nel contratto collettivo con la massima sanzione espulsiva e che in concreto il licenziamento era proporzionato in considerazione dell'intrinseca gravità della condotta accertata e del carattere inverosimile delle giustificazioni della lavoratrice offerte nel corso del procedimento disciplinare».
La lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione in quanto la Corte d'appello aveva erroneamente ritenuto che l'addebito fosse proporzionato rispetto alla sanzione irrogata.
La Suprema Corte ha ricordato il proprio costante orientamento in materia secondo cui, il giudice, nel valutare la legittimità di un licenziamento intimato per giusta causa, non è vincolato alle previsioni della contrattazione collettiva e, nel caso in cui le ritenga contrarie all'art. 2106 cod. civ. può rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili solo ad eventuali sanzioni conservative.
Una volta terminata tale verifica ed esclusa la nullità delle clausole del contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento, al giudice è demandato il concreto apprezzamento della gravità dell'addebito. La condotta del lavoratore, infatti, «deve essere ritenuta idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, perché sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto all'adempimento dei futuri obblighi lavorativi». L'esame effettuato dal giudice sulla gravità dell'infrazione deve avvenire «sotto il profilo oggettivo e soggettivo e sotto quello della futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto». Tali valutazioni, tuttavia, non sono sindacabili in sede di legittimità ove risultino sorrette da una motivazione coerente con le acquisizioni istruttorie e sono in ipotesi censurabili esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione.
Nel caso di specie la Suprema Corte non ha potuto che rigettare il ricorso della lavoratrice da un lato ricordando che «l'appropriazione di beni aziendali è senza ombra di dubbio riconducibile al concetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento di cui all'art 2119 cod. civ. ed agli artt. 1 e 3 della legge 604 del 1966 e alla contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro in esame», dall'altro osservando che la Corte d'appello si è attenuta ai principi ed è giunta alla conclusione che «l'infrazione addebitata alla ricorrente mini, anche con riguardo all'elemento soggettivo, in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti».

Nullità del contratto di lavoro a termine e indennità risarcitoria

Cass. Sez. Lav. 3 agosto 2018, n. 20500

Pres. Bronzini; Rel. Leoni; Ric. Princ. L.S.; Controric. e Ric. Inc. S.R. S.p.A.
Lavoro – Lavoro subordinato – Contratto di lavoro a termine – Nullità termine - Accertamento rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – Indennità risarcitoria ex art. 32, L. n. 183/2010

L'indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, nel significato chiarito dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed utilizzatore della prestazione.
NOTA
Con ricorso proposto innanzi al Tribunale del lavoro di Roma, L.S. aveva richiesto l'accertamento dell'illegittimità del contratto di lavoro autonomo a termine intercorso con S.R. S.p.A. e la condanna della Società alla reintegrazione ex art. 18, L. 300/70, con il conseguente risarcimento del danno, a seguito del recesso orale subìto.
La Corte territoriale confermava la decisione del giudice di primo grado sulla natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti ed, in parziale riforma della sentenza di prime cure, ritenendo totalmente ingiustificata l'apposizione del termine, condannava S.R. S.p.A. al pagamento di un'indennità risarcitoria ex art. 32 L. n. 183/2010, nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale, riteneva, poi, insussistente la violazione del divieto di ultra petizione da parte del giudice di primo grado rispetto alla domanda azionata da L.S. per aver condannato S.R. S.p.A. al pagamento dell'indennità risarcitoria ex art. 32 cit. «atteso che la stessa, sulla premessa del riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, chiedendo la reintegrazione ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300/70, aveva in concreto richiesto comunque la ricostituzione del rapporto con il risarcimento del danno conseguente».
L.S. proponeva ricorso in Cassazione, cui resisteva S.R. S.p.A. con controricorso e ricorso incidentale.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte è stata, dunque, chiamata a valutare la corretta applicazione, da parte della Corte di merito, delle regole relative alla conversione del contratto a termine ritenuto illegittimo ex art. 32 cit. ed alle conseguenze di tale illegittimità, nonché la violazione del divieto di ultra petizione ex art. 112 c.p.c. da parte del giudice del gravame rispetto alla domanda azionata da L.S.
La ricorrente principale censurava, da un lato, la non riferibilità della fattispecie in esame ad un'ipotesi di nullità del termine illegittimamente apposto al contratto, quanto, invece, alla nullità ab origine del contratto di lavoro autonomo; dall'altro, censurava l'erroneità della decisione della Corte di merito per aver ritenuto non qualificabile quale licenziamento orale la cessazione del rapporto intercorso con S.R. S.p.A., e chiedeva, pertanto, la reintegrazione ai sensi dell'art. 18 cit. ed il conseguente risarcimento del danno, pari a tutte le retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto sino al suo ripristino.
La Società ricorrente incidentale, invece, lamentava un vizio di ultra petizione ex art. 112 c.p.c. da parte della Corte territoriale e la nullità della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., poiché la ricorrente aveva richiesto l'accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a termine e non già a tempo indeterminato, senza, peraltro, neppure impugnare il termine apposto, né richiedere la conversione dal rapporto di lavoro.
Pronunciandosi, la Suprema Corte respingeva il ricorso principale di L.S., affermando che «l'indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, nel significato chiarito dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 13, trova applicazione con riferimento a qualsiasi ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un contratto a termine, convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore ed utilizzatore della prestazione» in quanto «il principio evidenzia la conseguenza che accomuna tutte le ipotesi di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in sostituzione di altra ipotesi contrattuale a tempo determinato».
Con riferimento, invece, al ricorso incidentale proposto da S.R. S.p.A., la Suprema Corte, escludendo il vizio di extra petizione, evidenziava come nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, il giudice del merito non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma può, per converso, in virtù del principio “iura novit curia”, assegnare ad una diversa qualificazione giuridica i fatti ed i rapporti dedotti in lite nonché l'azione esercitata in causa e che, pertanto, «sussiste il vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art 112 c.p.c., quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato».

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