Contenzioso

Diritti sindacali e rappresentatività

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nomen iuris e qualificazione giuridica del rapporto
Diritti sindacali e rappresentatività
Licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore
Demansionamento e attività accessorie non contemplate nel Ccnl
La motivazione del recesso durante il periodo di prova


Nomen iuris e qualificazione giuridica del rapporto

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2018, n. 25072

Pres. Napoletano; Rel. Leo; P.M. Sanlorenzo; Ric. J.A.A.F. S.r.l.; Controric. R.P.

Autonomia/Subordinazione – Qualificazione – Nomen iuris – Vincolatività – Non sussiste

Onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto di lavoro, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l'altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell'esercizio della loro autonomia contrattuale. Pertanto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti stesse al contratto, non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario, non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto medesimo, e diretta a modificare singole sue clausole, e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista.
NOTA
La Corte di Appello di Catanzaro, accogliendo l'appello proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza, riconosceva la natura subordinata del rapporto di lavoro svolto alle dipendenze della società datrice, e condannava quest'ultima al pagamento delle differenze retributive.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società articolato su tre motivi.
In particolare, la società ricorrente lamentava che la Corte di Appello aveva disatteso l'orientamento della Suprema Corte che qualifica come rapporto di lavoro autonomo, e non subordinato, quello svolto dal corriere di medicinali.
Parte ricorrente, inoltre, censurava la sentenza impugnata, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2106, 2222 c.c. e di norme di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, deducendo che i giudici di seconda istanza non avevano correttamente qualificato il rapporto di lavoro in oggetto, perché avevano equivocato le risultanze istruttorie e non avevano tenuto conto del fatto che il dipendente non era stato in grado di provare il proprio assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Cassazione osservava che i giudici di appello, attraverso un percorso motivazionale ineccepibile, sia sotto il profilo logico che giuridico, erano correttamente pervenuti alla gravata decisione, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell'istruttoria espletata in primo grado.
I giudici di legittimità rilevavano, inoltre, che nelle ipotesi di prestazioni lavorative caratterizzate da ripetitività - tra le quali rientra quella di cui si tratta - , o nel caso in cui le stesse siano estremamente elementari, ed in quanto tali non richiedenti un esercizio continuo del potere di controllo, il vincolo della subordinazione può sussistere anche se il potere direttivo datoriale si manifesti attraverso direttive ed istruzioni di carattere generale, impartite una tantum all'inizio del rapporto, e si può desumere altresì dalla permanente disponibilità del prestatore ad eseguire le dette istruzioni, perché, in tali ipotesi, costituisce evidente indice di subordinazione l'inserimento del lavoratore nella struttura aziendale, o la presenza di un compenso fisso e l'osservanza di un determinato orario di lavoro (cfr., ex plurimis, Cass. 23 giugno 2010, n. 18271; Cass. 19 aprile 2010, n. 9252; Cass. 31 marzo 2010, n. 7681; Cass. 27 novembre 2002, n. 16805; Cass. 1 marzo 2001, n. 2970).
In ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata dalle parti, i giudici di legittimità hanno altresì evidenziato che, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto di lavoro, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l'altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell'esercizio della loro autonomia contrattuale.
Pertanto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti stesse al contratto non è vincolante per il giudice, ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto medesimo, e diretta a modificare singole sue clausole, e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista. Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro (al riguardo, e per ciò che più specificamente attiene agli indici di subordinazione, cfr. Cass. 8 aprile 2015, n. 7024).
La Suprema Corte ha, dunque, concluso osservando che i giudici di appello, nel procedimento di sussunzione operato, avevano correttamente tenuto conto degli anzidetti principi, oltre che delle risultanze probatorie, delle quali avevano dato motivatamente conto.

Diritti sindacali e rappresentatività

Cass. Sez. Lav. 17 ottobre 2018, n. 26011

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. F.L.M.U.; Controric. T.I. S.p.a.;

Attività sindacali - Rappresentanze sindacali - R.S.A. ed R.S.U. - Assemblee - Diritto di indire le assemblee - Caratteristiche - Rappresentatività - Necessità - Fattispecie.

In tema di rappresentatività sindacale, dalla lettura coordinata degli artt. 19 e 20 dello Statuto dei lavoratori, si desume che il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell'Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993, istitutivo delle R.S.U., deve essere interpretato nel senso che il diritto di indire assemblee rientra tra le prerogative attribuite non solo alla R.S.U. considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della R.S.U. stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell'azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi del citato art. 19.
NOTA
Il caso di specie riguarda un ricorso per repressione di condotta antisindacale promosso da una Federazione del settore metalmeccanico in seguito al rifiuto di una società con riferimento al permesso di indire un'assemblea, in quanto indetta da un solo componente della r.s.u. aziendale.
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, escludeva che vi fosse stato un comportamento antisindacale da parte della società, avuto riguardo alla disciplina dettata in materia dagli artt. 19 e 20 dello Statuto dei lavoratori e dagli artt. 4 e 5 dell'Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 (che regola la costituzione delle r.s.u.). A tal fine, la Corte di merito richiamava il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2855/2002, secondo cui «trattandosi di un diritto che l'art. 20 st. lav. ha attribuito alla r.s.a. nel suo complesso e non ai singoli componenti della stessa, l'indizione di un'assemblea dei lavoratori spetta alla r.s.u. (subentrata nella titolarità dei diritti della r.s.a.) unitariamente considerata e, pertanto, non pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che disconosca l'assemblea indetta da una sola componente della r.s.u.».
La Corte di Cassazione, adita dalla Federazione, ha accolto il ricorso, rilevando che, in base al principio fissato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13978/2017, l'autonomia collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda diversi rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali, assegnando ad essi prerogative sindacali non necessariamente identiche a quelle delle r.s.a., con l'unico limite del divieto di riconoscere ad un sindacato un'ingiustificata posizione differenziata, che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro.
Ne consegue, prosegue la Corte, che il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell'Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 deve essere interpretato nel senso che il diritto d'indire assemblee, di cui all'art. 20 dello Statuto dei lavoratori, rientra tra le prerogative attribuite non solo alla r.s.u., considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della r.s.u. stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell'azienda di riferimento, sia di fatto dotato di rappresentatività ai sensi dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori, come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013.
Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha, infatti, previsto un ulteriore criterio di rappresentatività, ossia non più soltanto l'essere la singola organizzazione sindacale firmataria del contratto collettivo applicato nell'unità produttiva, ma anche il solo fatto di aver partecipato alla relativa negoziazione dello stesso.
In conclusione, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte di merito per nuovo esame della controversia, che dovrà uniformarsi al principio sopra enunciato.


Licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 22 ottobre 2018, n. 26675

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; P.M. Fresa; Ric. A.G.; Controric. C.P.S.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Per giustificato motivo - Inidoneità fisica o psichica del lavoratore - Giustificazione - Repêchage - Mancata applicazione - Regime sanzionatorio - Reintegrazione

In caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica del lavoratore in cui venga accertato che il datore di lavoro non ha verificato la presenza di mansioni, anche inferiori, cui adibire il lavoratore, quale alternativa al licenziamento la tutela applicabile è la reintegrazione.
NOTA
Nel caso in esame, la Corte d'appello dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra lavoratore e società per la sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni e condannava la società al pagamento di un'indennità risarcitoria.
Per la Corte, ove siano disponibili posizioni lavorative, anche dequalificanti, il datore di lavoro ha l'obbligo proporle al dipendente al fine di evitare il licenziamento, diversamente da quanto accaduto nel caso di specie.
Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore contestando alla Corte di non aver considerato che il comma 7 dell'articolo 18 Legge 300/1970 prevede l'applicazione della tutela reintegratoria nel caso in cui si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso sulla base del fatto che, stante il dato normativo di riferimento, un licenziamento per motivo oggettivo in violazione dell'obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, sia qualificabile come ingiustificato.
Ed infatti, per la Cassazione il caso di specie ha ad oggetto la verifica in diritto, della tutela applicabile in caso di illegittimità del licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore dovuta a violazione dell'obbligo di adibire il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute.
Secondo la Suprema Corte, l'art. 18 cit., nel comma 7 introdotto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1 prevede espressamente la reintegrazione per il caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, senza attribuire al giudice stesso alcuna discrezionalità.

Demansionamento e attività accessorie non contemplate nel Ccnl

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2018, n. 26805

Pres. Di Cerbo; Rel. Leo; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.s.p.a.; Controric. T.F e N.R.S.;

Demansionamento - Attività accessorie non contemplate nel CCNL - Sussistenza - Condizioni

Il demansionamento derivante dallo svolgimento di attività accessoria (di pulizia del locale) estranea alle mansioni di appartenenza non si rinviene nella semplice circostanza che le stesse non siano presenti nella elencazione contrattuale, ma dalla considerazione che non si tratta di compiti preparatori o necessariamente strumentali rispetto a quelli previsti dalla contrattazione, non potendo un difetto organizzativo, quale la mancanza di personale addetto alle pulizie dei locali, rendere legittima la richiesta di una attività che esula dal mansionario proprio della qualifica di appartenenza delle lavoratrici, tale da incidere negativamente sulla loro figura professionale.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano ha rigettato l'appello della società avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede di accoglimento parziale della domanda di due lavoratrici volta ad ottenere il riconoscimento dell'avvenuto demansionamento ed il conseguente risarcimento del danno.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando, tra l'altro, che i giudici di merito abbiano ritenuto dequalificanti le marginali attività di pulizia svolte dalle due dipendenti perchè esulanti dalle mansioni previste dalla contrattazione collettiva per il loro livello, senza tenere conto che del fatto che il contratto individuale prevedeva la Job description (di addetta alla vendita), in cui veniva, tra l'altro, stabilito all'occorrenza lo svolgimento di tale attività. Si sostiene, in particolare, la violazione dell'art. 2103 c.c., laddove la corte territoriale ha escluso che il lavoratore possa essere adibito in via marginale ed accessoria a mansioni inferiori, richiedendosi necessariamente una previsione collettiva in tale senso, nella specie mancante.
La Suprema Corte rigetta il ricorso con l'affermazione di cui alla massima. Secondo la Cassazione la Corte di Appello è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un iter logico-argomentativo ineccepibile, corroborato dalle risultanze istruttorie e dall'attenta analisi delle declaratorie contrattuali applicabili, il cui esame ha l'ha condotta a ritenere che le attività di pulizia svolte in via accessoria dalle ricorrenti non solo non era previsto dal CCNL, ma sminuisse la loro figura professionale, così dando luogo al lamentato demansionamento.

La motivazione del recesso durante il periodo di prova

Cass. Sez. Lav. 22 ottobre 2018, n. 26679

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. S.G.; Controric. ASL;

Lavoro pubblico privatizzato – Patto di prova – Recesso datoriale – Obbligo di motivazione previsto dal contratto collettivo – Sindacabilità della motivazione – Limiti.

Il lavoratore, anche ove dipendente di una pubblica amministrazione, che impugni il recesso motivato dal mancato superamento della prova deve allegare e provare che le modalità dell'esperimento non fossero adeguate ad accertare la sua capacità lavorativa, o il positivo esperimento della prova oppure la sussistenza di un motivo illecito o comunque estraneo all'esperimento stesso, restando escluso che l'obbligo di motivazione, previsto dalla contrattazione collettiva, possa far gravare l'onere probatorio sul datore di lavoro e che il potere di valutazione discrezionale dell'amministrazione possa essere oggetto di un sindacato giudiziale che omologhi la giustificazione del recesso in prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.
NOTA
Una dirigente di un'azienda sanitaria locale impugnava il recesso irrogatole al termine del periodo di prova semestrale.
Il Tribunale, sia nella fase a cognizione sommaria, sia nella successiva fase di opposizione, rigettava il ricorso della lavoratrice.
In sede di reclamo, la Corte d'Appello, premesso che il contratto collettivo applicato prevedeva uno specifico obbligo di motivazione del recesso per mancato superamento della prova, riteneva che la lettera di recesso fosse priva di una motivazione sufficientemente specifica e che quest'ultima, a tratti, fosse addirittura contraddittoria. La Corte territoriale, pur escludendo la nullità del recesso, condannava l'amministrazione al risarcimento del danno per violazione dell'obbligo di motivazione e di apprezzamento della prova che, in via equitativa, veniva liquidato in dieci mensilità.
Avverso tale sentenza la dirigente ricorreva in Cassazione al fine di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro; l'amministrazione resisteva con controricorso, proponendo ricorso incidentale.
In seguito alla c.d. privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, le assunzioni sono assoggettate – ai sensi dell'art. 70, co. 13, d.lgs. 165/2001 – all'esito positivo di un periodo di prova, la cui durata è rimessa alla contrattazione collettiva.
Ciò premesso, la Suprema Corte ha richiamato i principî giurisprudenziali in materia di recesso in prova dal rapporto di lavoro di diritto comune, chiarendone l'applicabilità anche al periodo di prova dei dipendenti pubblici. In particolare, è stato ribadito il principio di diritto (già espresso in Cass. 23061/2007) secondo cui il lavoratore che impugni il recesso durante il periodo di prova deve allegare e provare che le modalità dell'esperimento non fossero adeguate ad accertare la sua capacità lavorativa (ad esempio, per esiguità della durata o per estraneità delle mansioni svolte), oppure il positivo esperimento della prova ovvero la sussistenza di un motivo illecito o comunque estraneo alla prova stessa.
La Corte di Cassazione ha poi chiarito che l'obbligo contrattuale di motivare il recesso durante il periodo di prova, non muta la natura discrezionale del potere datoriale di valutare l'esperimento della prova, né comporta una inversione degli oneri probatori in capo al datore di lavoro in merito al mancato superamento della prova.
In conclusione, la sentenza di merito è stata cassata con rinvio per aver indebitamente omologato il sindacato sulla motivazione del recesso per mancato superamento della prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.

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