Contenzioso

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e l’obbligo di repêchage

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage
Attività del dipendente durante la malattia
I criteri distintivi dell'appalto genuino
Declaratoria di nullità del termine e ricostituzione del rapporto di lavoro
Amministratore e compensi legati a particolari cariche conferite

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage

Cass. Sez. Lav. 29 ottobre 2018, n. 27380

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Celeste; Ric. I.M.; Intimata F.J. s.r.l.;

Giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repechage - Onere della prova - Obbligo di cooperazione del lavoratore nelle allegazioni - Insussistenza

La prova del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, all'interno del quale si colloca anche la impossibilità di repechage, quale fatto estintivo del rapporto di lavoro, non può che gravare sul datore di lavoro sia in base alla espressa previsione di cui all'art. 5 Legge n. 604/1966. sia in ragione del principio generale secondo il quale il creditore, provata la fonte legale o negoziale del proprio diritto, ha poi solo l'onere di allegare l'altrui inadempimento, mentre il debitore deve provare i fatti impeditivi, modificativi od estintivi della pretesa azionata.
NOTA
La Corte d'Appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo intimato ad un dipendente in conseguenza dell'esternalizzazione del servizio cui era adibito. La Corte territoriale, dopo aver rilevato che l'effettività dell'esternalizzazione non era stata contestata, ha ribadito che la scelta di esternalizzare l'attività alla quale era addetto il lavoratore, pur in assenza di una situazione di crisi o di un richiamo a cali di fatturato, è insindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità. In ordine alla impossibilità del repechage la Corte territoriale ha, poi, affermato che l'onere probatorio a carico della parte datoriale non può prescindere dalle allegazioni del lavoratore, ritenute sul punto insufficienti non avendo egli in ricorso indicato alcun posto che risultasse vacante.
Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi. Per quanto qui rileva, con il terzo motivo si censura la sentenza per avere condizionato l'onere probatorio, gravante sulla parte datoriale, alle allegazioni del dipendente licenziato circa gli eventuali posti in azienda reperibili nei quali potesse essere utilmente collocato.
La Suprema Corte accoglie tale motivo e cassa la sentenza impugnata, affermando il principio di cui alla massima, già sancito in numerosi precedenti ed espressione dell'orientamento ormai del tutto prevalente. Come ricorda la Cassazione, sul punto si sono, infatti, sviluppate due differenti posizioni: secondo un primo orientamento la prova della impossibilità di repechage non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dal lavoratore che impugni il licenziamento, una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli può essere utilmente ricollocato (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040; Cass. 8 novembre 2013, n. 25197; Cass. 8 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417). In seguito a tale allegazione sorge, poi, l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti, da intendersi assolto anche mediante la dimostrazione di circostanze indiziarie. Secondo, altro orientamento, più recente ed ormai del tutto prevalente (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. 22 marzo 2016, n. 5592) spetta, invece, al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di una diversa utile collocazione lavorativa. Tale ultimo indirizzo, al quale con la sentenza in esame la Cassazione aderisce, si fonda sulla considerazione che il dovere di cooperazione fra le parti del rapporto opera solo sul piano sostanziale, in quanto espressione del principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1375 e 1206 c.c.. e non può, invece, estendersi fino al piano processuale, connotato da una leale, ma pur sempre dialettica, contrapposizione fra le parti. Inoltre, come già precisato (Cass.15 ottobre 2014, n. 2184), la divaricazione tra oneri di allegazione e oneri probatori non appare coerente con i principi che regolano il nostro sistema processuale, in quanto chi ha l'onere di provare un fatto primario, costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso, ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione.
La sentenza viene, pertanto, cassata, con accoglimento del terzo motivo e rinvio alla Corte d'Appello di Ancona in diversa composizione.

Attività del dipendente durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2018, n. 27656

Pres. Patti; Rel. Lorito; P.M. Fresa; Ric. S.S.; Controric. B.S.p.a.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Dipendente assente per malattia - Svolgimento di altra attività lavorativa durante lo stato di malattia - Violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà e dei doveri generali di correttezza e buona fede - Configurabilità - Condizioni.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, sia nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, sia nel caso in cui la medesima attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
NOTA
Il Tribunale rigettava la domanda volta ad accertare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa per il comportamento assunto dal dipendente durante il periodo di malattia.
La Corte d'Appello in riforma della pronuncia di primo grado, accertava l'insussistenza della giusta causa di licenziamento, dichiarava risolto il rapporto di lavoro fra le parti e condannava la società al pagamento di un'indennità risarcitoria.
Per la Corte, la sanzione applicata non era proporzionata al comportamento del dipendente, perché non connotato da profili di tale gravità da impedire, anche temporaneamente, la prosecuzione del rapporto. Gli approdi ai quali era pervenuta la CTU medico-legale, escludevano, infatti, che lo svolgimento di attività nei giorni successivi all'infortunio - seppure non esattamente rispettosa delle prescrizioni mediche - avesse “determinato un aggravamento della malattia”.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la società.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Con riferimento al caso di specie la Cassazione ha chiarito che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità addotta a giustificazione dell'assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l'attività stessa - valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata, nonché alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro - sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del dipendente, con violazione di un'obbligazione che la dottrina inserisce nella categoria dei doveri preparatori e strumentali rispetto alla corretta esecuzione del contratto.
Per la Cassazione, la Corte di appello ha correttamente ritenuto che l'inadempimento posto in essere dal dipendente non fosse di gravità tale da integrare giusta causa di recesso posto che la condotta assunta dal dipendente, sia pure incauta, non aveva determinato un aggravamento della malattia.

I criteri distintivi dell'appalto genuino

Cass. Sez. Lav. 26 ottobre 2018, n. 27213

Pres. berrino; Rel. Ponterio; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.B.C.C.A.M.; Controric. M.D.; INPS + 8;

Lavoro subordinato – Appalto di servizi endoaziendale – Appalto di mera manodopera – Criteri distintivi – Esercizio del potere direttivo – Valore preminente – Illegittimità appalto – Conseguenze – Imputazione dei rapporti di lavoro nei confronti del committente/utilizzatore.

Il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore/datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.
L'assoggettamento dei dipendenti al potere direttivo e di controllo del committente, quale l'effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative, costituisce uno degli indici principali dell'interposizione e, quindi, della non genuinità dell'appalto.
NOTA
Una federazione bancaria proponeva opposizione, avanti al Tribunale di Teramo, alla cartella di pagamento relativa ai contributi previdenziali pretesi dall'INPS sul presupposto che un appalto di servizi non fosse genuino e che, di conseguenza, i lavoratori dell'appaltatore impiegati per la relativa esecuzione, dovessero essere considerati quali dipendenti della committente. L'appalto aveva ad oggetto, sostanzialmente, il trattamento e l'inserimento di documentazione bancaria nella piattaforma informatica gestista dalla federazione per conto delle banche associate.
Parallelamente, l'attrice agiva in giudizio anche nei confronti dei dipendenti dell'appaltatore per sentir accertare la genuinità del contratto di appalto. In tale procedimento, i lavoratori, in via riconvenzionale, chiedevano invece l'imputazione dei rispettivi rapporti nei confronti della committente.
Il Tribunale di Teramo, riuniti i giudizi, accoglieva l'opposizione promossa dalla federazione, considerando che il potere direttivo nei confronti dei lavoratori fosse stato effettivamente esercitato dall'appaltatore.
In accoglimento delle impugnazioni promosse dall'Istituto previdenziale e dai lavoratori, la Corte d'Appello di l'Aquila riformava integralmente la decisione di primo grado concludendo per l'illegittimità dell'appalto. Tale conclusione veniva motivata in ragione delle seguenti circostanze: la federazione aveva tenuto dei corsi di formazione a favore dei dipendenti dell'appaltatore in merito alle modalità operative di svolgimento del servizio appaltato; tali lavoratori aveva accesso ai sistemi informatici delle banche consorziate; il rappresentante dell'appaltatore non organizzava il lavoro dei relativi dipendenti, recandosi presso la sede del committente solamente ogni due/tre settimane ovvero in caso di problemi; l'attività svolta dai dipendenti dell'appaltatore era fungibile con quella dei dipendenti della federazione e, comunque, più ampia rispetto all'oggetto pattuito nel contratto di appalto.
Avverso tale sentenza la federazione bancaria ricorreva in cassazione; l'INPS e i dipendenti resistevano con controricorso, mentre l'appaltatore rimaneva intimato.
Il ricorrente – oltre a criticare l'applicazione della sola legge 1369/1960, nonostante l'appalto oggetto di causa fosse continuato anche successivamente all'ottobre 2003 (data di entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003) – lamentava la selezione e valutazione degli indici in forza dei quali la Corte di Appello aveva concluso per la non genuinità dell'appalto.
La Corte di Cassazione, anzitutto, ha richiamato i principî giurisprudenziali affermati con riguardo alla previgente legge 1369/1960, ribadendone l'applicabilità anche in vigenza del D.Lgs. 276/2003, in ragione del divieto, immanente all'ordinamento, di dissociazione tra l'imputazione formale del rapporto di lavoro e l'utilizzazione della prestazione lavorativa.
È stato poi riaffermato il principio secondo cui in tema di divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro occorre, di volta in volta, procedere ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se l'impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell'impresa, operi concretamente in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'impresa committente; se sia provvista di una propria organizzazione d'impresa; se in concreto assuma su di sé l'alea economica insita nell'attività produttiva oggetto dell'appalto e, infine, se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti dall'appaltatore ed agiscano alle sue dipendenze.
Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che il giudice d'appello abbia correttamente individuato ed applicato i criteri generali e astratti ai fini dell'imputazione soggettiva del rapporto di lavoro del personale formalmente assunto dall'appaltatore e, quindi, ha rigettato il ricorso.

Declaratoria di nullità del termine e ricostituzione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2018, n. 25084

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Matera; Ric. P.M.; Controric. P.I. S.p.A.

Declaratoria di nullità del termine – Ricostituzione del rapporto di lavoro – Assegnazione ad una sede diversa da quella di origine – Legittimità - Condizioni

La ricostituzione del rapporto di lavoro a seguito della declaratoria di nullità del termine deve avvenire negli esatti termini e condizioni in cui detto rapporto era sorto e si era svolto sino alla illegittima cessazione per la scadenza di un termine nullo. Ciò comporta il reinserimento del lavoratore nella stessa posizione di lavoro e nello stesso luogo in cui tale prestazione veniva svolta. L' eventuale trasferimento può pertanto operarsi solo nel rispetto della norma di cui all'art. 2103 c.c. e dell'eventuale disciplina contrattuale collettiva che le parti contraenti si sono obbligate a rispettare.
NOTA
La Corte di Appello di Palermo, riformando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda della lavoratrice avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimatole dalla società datrice per essersi rifiutata di prendere servizio nella sede di Bari, presso la quale la dipendente era stata trasferita in ottemperanza ad una precedente sentenza - resa in altro giudizio - che aveva accertato l'illegittimità del termine apposto al contratto intercorso tra le parti, con conseguente conversione del contratto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
La Corte territoriale, ribaltando la decisione del primo giudice, riteneva che il mancato adempimento della lavoratrice, che aveva rifiutato di prendere servizio nella sede di Bari, non poteva ritenersi giustificato, non sussistendo un'ipotesi di eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c., atteso che, alla data del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della nullità del termine (avvenuto nel 2009) la sede dove la lavoratrice aveva prestato servizio nel periodo in cui aveva avuto attuazione il contratto a termine – CUAS di Palermo – era stata soppressa, ed i compiti erano stati distribuiti in altri uffici; e considerato, altresì, che la sentenza con la quale era stata accertata l'illegittimità del termine e la conseguente conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato, non aveva neppure indicato una specifica sede per il ripristino del rapporto.
La Corte territoriale riteneva, inoltre, che non potesse applicarsi nei confronti della lavoratrice l'accordo sindacale del 28.12.2005, che aveva disciplinato la ricollocazione del personale “in servizio” presso il CUAS palermitano alla data dell'accordo stesso.
Per tali ragioni la Corte territoriale, ritenendo che sussistessero le ragioni tecnico – organizzative per il trasferimento presso la sede barese, considerava gravemente inadempiente la condotta della lavoratrice che aveva omesso di ottemperare all'invito rivoltole dall'azienda di prendere servizio presso la sede di destinazione di Bari.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice affidato a dieci motivi.
In particolare, sosteneva la lavoratrice che la Corte territoriale aveva erroneamente omesso di considerare che la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo del 2006 - poi confermata nel 2009 – con la quale era stata accertata la nullità del termine apposto al contratto intercorso tra le parti, imponeva la riammissione della lavoratrice nel medesimo luogo di lavoro in cui era stata svolta la prestazione lavorativa, salvo la possibilità di trasferimento presso altra sede ove fossero sussistite comprovate esigenze tecnico organizzative, ai sensi dell'art. 2103 c.c.: esigenze che la datrice di lavoro, su cui ricadeva il relativo onere probatorio, non aveva provato.
Parte ricorrente deduceva, altresì, la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. nell'interpretazione dell'accordo del 28.12.2005, sostenendo che tramite tale accordo le parti avevano voluto regolare la posizione di tutti i lavoratori in servizio “alla data dell'accordo” presso il CUAS di Palermo e, quindi, anche della ricorrente, la quale, proprio in forza della sentenza del Tribunale, doveva ritenersi in servizio sin dal 15.11.2000, data dell'inizio della sua prestazione di lavoro presso il CUAS. In detto accordo, pur non dandosi atto della chiusura del CUAS, si conveniva un percorso di mobilità professionale del personale nel medesimo ambito territoriale.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che, alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la ricostituzione del rapporto di lavoro, a seguito della declaratoria di nullità del termine, deve avvenire negli esatti termini e condizioni in cui detto rapporto era sorto e si era svolto sino alla illegittima cessazione per la scadenza di un termine nullo. Ciò comporta il reinserimento del lavoratore nella stessa posizione di lavoro e nello stesso luogo in cui tale prestazione veniva svolta. L'eventuale trasferimento può pertanto operarsi solo nel rispetto della norma di cui all'art. 2103 c.c. e dell' eventuale disciplina contrattuale collettiva che le parti contraenti si sono obbligate a rispettare. In altri termini, il datore di lavoro, ottemperando all'ordine di ripristino del rapporto, può certamente disporre un trasferimento di sede, sempre che ne sussistano le condizioni previste dalla normativa e, comunque, in applicazione dei più generali principi di correttezza e di buona fede di cui agli artt.1175 e 1375 c.c. (in tal senso cfr. Cass. 16 maggio 2013, n. 11927; Cass. 23 novembre 2010, n. 23677; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27844).
Con specifico riferimento al caso in oggetto la Suprema Corte ha osservato che la Corte territoriale, pur non disconoscendo i principi di diritto sin qui esposti, aveva tuttavia erroneamente ritenuto non applicabile alla lavoratrice l'accordo sindacale del 28.12.2005, che aveva regolamentato la ricollocazione del personale in servizio presso il CUAS di Palermo alla data dell'accordo stesso nelle strutture presenti nel “medesimo ambito territoriale”, anche con procedure di mobilità interregionale.
A tale proposito i giudici di legittimità hanno rilevato che, in virtù del principio di immediata esecutività della sentenza di primo grado, destinataria di tale accordo doveva ritenersi anche la lavoratrice, tenuto conto che con sentenza del Tribunale di Palermo del luglio 2006 era stata accertata la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente ripristino del rapporto di lavoro medesimo sin dall'origine, ovvero dal 15.11.2000. A nulla rilevava a tal fine che la sentenza che condannava la società al ripristino del rapporto era passata in giudicato solo nel 2009, allorquando già si era conclusa la fase di ricollocazione di tale personale.

Amministratore e compensi legati a particolari cariche conferite

Cass. Sez. Lav. 5 novembre 2018, n. 28148

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Patrone; Ric. K.N.; Controric. I. S.r.l.;

Società - Amministratore - Particolari cariche - Diritto ad una speciale remunerazione - Condizioni - Fattispecie.

L'amministratore di società ha diritto ad una speciale remunerazione per le prestazioni che siano state effettuate in ragione di “particolari cariche” allo stesso conferite e che quindi esulino dal normale rapporto di amministrazione; rientrano viceversa tra le prestazioni tipiche dell'amministratore tutte quelle che siano inerenti all'esercizio dell'impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall'atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria.
NOTA
Il caso di specie riguarda la domanda, avanzata da un amministratore di una società, diretta ad ottenere il pagamento del corrispettivo per alcune attività svolte, asseritamente ulteriori e diverse rispetto a quelle svolte come membro del consiglio di amministrazione.
Tali attività ulteriori, a detta del ricorrente, sarebbero consistite nella formulazione di un piano industriale, nella collaborazione alla ricerca di nuovi soci per realizzare un aumento di capitale, nella gestione del rapporto con le banche e, più in generale, nel recupero dell'impresa in un momento di difficoltà.
La Corte d'Appello di Firenze, confermando la pronuncia di primo grado, rigettava la domanda dell'amministratore, ritenendo che tali attività - relative sostanzialmente alla gestione dell'impresa - rientrassero a pieno titolo nei compiti di un consigliere di amministrazione.
La Corte di Cassazione, adita dall'amministratore, ha rigettato il ricorso, affermando che il giudice di merito si era correttamente uniformato al principio di diritto secondo cui «l'amministratore di società cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione ha per queste diritto (ai sensi dell'art. 2389 cod. civ.) ad una speciale remunerazione sempre che tali prestazioni siano effettuate in ragione di particolari cariche che allo stesso siano state conferite e che esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società, il cui limite deve individuarsi nell'oggetto sociale, talché rientrano tra le prestazioni tipiche dell'amministratore tutte quelle che siano inerenti all'esercizio dell'impresa, senza che rilevi (salvo che sia diversamente previsto dall'atto costitutivo o dallo statuto) la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria» (Cass. n. 11023/2000).
Né, prosegue la Corte, si potrebbe giungere ad una diversa conclusione sulla base dell'art. 2380 bis cod. civ; tale norma, infatti, definisce l'ambito di competenza gestionale dell'organo amministrativo con riguardo a tutti gli atti che si pongono in rapporto strumentale con il raggiungimento dell'oggetto sociale, il quale resta, quindi, l'unico limite dell'azione degli amministratori.
Per tali motivi, la sentenza impugnata è stata confermata dalla Corte di Cassazione.

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