Contenzioso

Per la consulta legittimo il calcolo del Tfr dei dipendenti pubblici

di Salvatore Servidio

La Corte costituzionale ha stabilito che la riduzione del 2,5% dello stipendio dei dipendenti pubblici in regime di trattamento di fine rapporto (Tfr) è legittima in quanto assicura la parità di trattamento economico con i dipendenti pubblici in regime di Tfs.

La questione
La questione sottoposta allo scrutinio della Corte costituzionale che si è pronunciata con sentenza 22 novembre 2018, numero 213, riguarda l'articolo 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, numero 448 (legge di bilancio per il 1999) che ha fissato il criterio secondo il quale per i dipendenti pubblici in regime di Tfr (cioè gli assunti dopo il 15 maggio 2000) come base imponibile ai fini fiscali e previdenziali e del Tfr si debba scomputare dalla retribuzione lorda una somma pari al soppresso contributo del 2,5% della base retributiva (previsto dall'articolo 11 della legge 8 marzo 1968, numero 152, e dall'articolo 37 del Dpr 29 dicembre 1973, numero 1032) gravante sul lavoratore destinato in origine al finanziamento dell'indennità di buonuscita (Ibu) e dell'indennità premio di servizio (Ips). La norma è stata attuata dal successivo dal Dpcm 20 dicembre 1999 allo scopo di assicurare l'invarianza della retribuzione netta tra il personale in regime di Tfs e i nuovi assunti in regime di Tfr e, quindi, la garanzia del medesimo trattamento retributivo netto.

Il Tribunale di Perugia, sotto la spinta di diversi ricorsi presentati dai lavoratori, con tre ordinanza del 2017 aveva ravvisato nella citata disposizione una evidente ed ingiustificata disparità di trattamento (articolo 3 della Costituzione) tra i lavoratori dipendenti dello Stato e degli enti locali in regime di trattamento di fine servizio (Tfs) e tra dipendenti delle medesime amministrazioni in regime di trattamento di fine rapporto (Tfr).

Secondo il rimettente la legge avrebbe, infatti, riconosciuto ai primi «un trattamento retributivo più elevato» e avrebbe disposto, a danno dei secondi, una irragionevole riduzione della retribuzione lorda, che sarebbe risultata compressa in misura pari all'ammontare del soppresso contributo previdenziale obbligatorio. Pertanto, secondo il giudice la base imponibile del Tfr avrebbe dovuto coincidere con la retribuzione lorda, senza operare la riduzione. Il Tribunale osservava, peraltro, come la normativa sarebbe stata lesiva anche dell'articolo 36 della Costituzione, norma posta a presidio della proporzionalità e sufficienza dei trattamenti retributivi dei lavoratori in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato in quanto avrebbe collocato la retribuzione dei dipendenti pubblici in regime di Tfr al di sotto della soglia della retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva con riferimento a determinate tipologie di prestazioni anche in spregio del rispetto di quelli minimi previsti dalle parti collettive.

La decisione
Nel decidere la vertenza, con la sentenza 213/2018, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 26, comma 19, della legge 448/1998, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione, sollevata dal giudice del lavoro di Perugia in quanto l'attuale sistema di calcolo per il trattamento di fine rapporto non viola alcun principio costituzionale, poiché le regole vigenti assicurano la parità di trattamento economico con i dipendenti pubblici che sono in regime di Tfs. Vengono così confermate le attuali modalità per il calcolo del Tfr per i dipendenti pubblici.

Nel merito, secondo il giudice costituzionale, la censura non è meritevole di accoglimento in quanto non tiene conto dell'intero quadro normativo. Il legislatore, nel prudente esercizio della sua discrezionalità, ha scandito la descritta transizione secondo un percorso graduale, che investe anche la disciplina delle indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici, progressivamente ricondotte all'unitaria matrice civilistica del trattamento di fine rapporto (articolo 2120 del codice civile).

La Corte osserva, infatti, che per i dipendenti che transitano al regime del Tfr, il superamento delle forme previgenti delle indennità di fine rapporto ha determinato l'eliminazione della trattenuta del 2,5% a carico del lavoratore, originariamente destinata a finanziare l'Ibu e l'Ips. La decurtazione della retribuzione lorda si prefiggerebbe quindi il fine di evitare disparità di trattamento ai fini fiscali tra lavoratori in regime di Tfs e lavoratori in regime di Tfr, che presentino la stessa situazione lavorativa e retributiva complessiva. In altri termini, senza la riduzione, i lavoratori in regime di Tfr godrebbero di una retribuzione netta più alta a differenza degli altri in regime di Tfs posto che questi ultimi deducono il contributo destinato al finanziamento del Tfs, con conseguente violazione del principio di invarianza del trattamento retributivo a cui si è ispirata la norma del 1998.

L'auspicata equiparazione tra lavoratori in regime di Tfr e lavoratori in regime di Tfs – si legge nelle trame argomentative della sentenza in esame - , nei termini adombrati dal giudice a quo, non potrebbe che alterare il punto di equilibrio individuato dal legislatore e dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole, e determinare, per ammissione dello stesso rimettente, una diversa sperequazione, che avvantaggerebbe i lavoratori in regime di Tfr, destinati a beneficiare di un più cospicuo trattamento retributivo rispetto ai lavoratori in Tfs.

La decurtazione, inoltre, non ha effetti sul piano previdenziale in quanto, proprio allo scopo di scongiurare possibili pregiudizi ai dipendenti in regime di Tfr, il Dpcm 20 dicembre 1999 prevede un recupero in misura pari alla riduzione, attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell'applicazione delle norme sul Tfr.
La disciplina censurata, per un verso, lascia inalterata la retribuzione netta, senza incidere sull'importo effettivamente percepito dal lavoratore, e, per altro verso, si ripromette di salvaguardare la parità di trattamento contrattuale e retributivo, nel perimetro tracciato dalla contrattazione collettiva e dalla necessaria verifica della compatibilità con le risorse disponibili. Principio di parità di trattamento che si pone a ineludibile presidio dello stesso diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata.
Quanto basta, ritiene sostanzialmente la Consulta, per assicurare la piena legittimità della disposizione incriminata dal giudice di merito.

In conclusione,«il principio dell'invarianza della retribuzione netta, con i meccanismi perequativi tratteggiati in sede negoziale, mira proprio a garantire la parità di trattamento, nell'àmbito di un disegno graduale di armonizzazione, e non contrasta, pertanto, con il principio di eguaglianza invocato dal rimettente». Né è ravvisabile violazione del diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato atteso che la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione devono essere valutate avendo riguardo al trattamento complessivo e non a una singola sua componente, quale è l'importo del contributo previdenziale soppresso (Corte Costituzionale 23 luglio 2015, numero 178; 6 maggio 2016, numero 96).

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