Contenzioso

Quando il datore può recedere da un accordo collettivo

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Recesso datoriale da un accordo collettivo
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Rinnovazione di licenziamento intimato verbalmente
Contestazione disciplinare, procedimento
Annullamento di dimissioni


Recesso datoriale da un accordo collettivo

Cass. Sez. Lav. 13 novembre 2018, n. 29189

Pres. Nobile; Rel. Patti; Ric. R.G.; Controric. C.R.I.A.S.;

Lavoro subordinato – Contrattazione collettiva – Recesso datoriale da accordo collettivo a tempo indeterminato – Legittimità – Requisiti

È riconosciuta al datore di lavoro la legittima facoltà di recesso da un contratto collettivo postcorporativo stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Esso non può, infatti, vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socioeconomica in continua evoluzione; e sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio
NOTA
Il caso in esame ha in oggetto la possibilità per il datore di lavoro di esercitare il recesso da un accordo collettivo a tempo indeterminato.
Nello specifico, la Corte d'Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la richiesta del lavoratore di vedersi corrispondere, sin dalla data della sua assunzione (1° settembre 1992), un'indennità economica prevista da un accordo aziendale del 1974 e successivamente cessata per effetto di una deliberazione del 1982 ad opera di un commissario straordinario. Secondo la Corte territoriale, infatti, la deliberazione del commissario straordinario aveva natura di recesso datoriale dall'accordo collettivo che riconosceva l'indennità richiesta. Sempre secondo la Corte d'Appello l'unico limite cui la delibera del 1982 era tenuta era rappresentato dal rispetto dei diritti quesiti dei lavoratori all'epoca in servizio, mentre nessun limite era applicabile relativamente ai lavoratori assunti in epoca successiva (tra cui il ricorrente). La Corte territoriale, infine, concludeva l'iter argomentativo sostenendo che neppure il successivo riconoscimento dell'indennità da parte del contratto integrativo aziendale del 2001 poteva portare all'accoglimento della domanda del lavoratore, in quanto il contratto integrativo non prevedeva una sua efficacia retroattiva (e, quindi, non poteva accogliersi la richiesta di liquidare l'indennità a partire dal 1992).
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore sostenendo, tra l'altro e per quanto qui interessa, che la delibera commissariale del 1982 non avrebbe dovuto essere considerata quale recesso dall'accordo collettivo relativo all'indennità economica richiesta. Secondo il lavoratore, infatti, non esiste un diritto potestativo di recesso unilaterale datoriale in un contratto a prestazioni sinallagmatiche quale quello di lavoro, in assenza di un accordo con le organizzazioni sindacali o i singoli lavoratori.
La Cassazione ha respinto le censure proposte e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento sul punto, secondo il quale il recesso unilaterale da parte del datore di lavoro da un accordo collettivo a tempo indeterminato, quale quello in esame, è possibile. In proposito, infatti, la Cassazione ha statuito che «è riconosciuta al datore di lavoro la legittima facoltà di recesso da un contratto collettivo postcorporativo stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Esso non può, infatti, vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socioeconomica in continua evoluzione; e sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio.».
Proprio la funzione della contrattazione collettiva, dunque, nonché il suo rapporto con la realtà socioeconomica impediscono, secondo dal Suprema Corte, che un accordo collettivo possa vincolare i contraenti per sempre. Conseguentemente, in caso di accordo senza un termine di scadenza, al datore di lavoro non può che essere riconosciuto il diritto di recesso; tale diritto di recesso incontra, però, due limiti: il rispetto dei principi di correttezza e buona fede, nonché di eventuali diritti più favorevoli per i lavoratori e già entrati nel loro patrimonio.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 25 ottobre 2018, n. 27094

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Celeste; RicT.Italia S.r.l.; Controric. I.C.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Valutazione comparativa tra dipendenti di pari livello con mansioni fungibili - Criteri di correttezza e buona fede - Criteri di scelta ex L. 223/1991 - Applicazione - Violazione - Illegittimità del recesso

Deve ritenersi illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo laddove il datore di lavoro, in presenza di due posizioni fungibili, sopprima quella con maggiori carichi familiari e anzianità di servizio, dovendosi ritenere applicabili per analogia i criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi anche per i licenziamenti individuali in funzione di concretizzazione del generale principio di correttezza e buona fede.
NOTA
Il caso oggetto della pronuncia in commento riguarda il licenziamento per soppressione del posto di lavoro intimato da una società ad una propria dipendente, nell'ambito di un processo di riorganizzazione aziendale.
La domanda della lavoratrice di impugnazione del licenziamento veniva accolta sia in primo grado che dalla Corte d'Appello di Napoli. In particolare, la Corte territoriale, pur avendo verificato l'effettività delle ragioni di riorganizzazione aziendale addotte dalla società, aveva tuttavia accertato che vi era fungibilità di mansioni tra la lavoratrice licenziata e una collega di lavoro della stessa. La società, in violazione del principio di correttezza e buona fede, aveva invece deciso per il licenziamento della prima, nonostante i maggiori carichi familiari e anzianità di servizio. Il licenziamento operato dalla società era stato pertanto ritenuto illegittimo, in quanto non sorretto da una valutazione fondata sui criteri stabiliti dalle norma in materia di licenziamenti collettivi, «analogicamente adottabili anche per i licenziamenti individuali in funzione di concretizzazione del principio di correttezza e buona fede».
Ricorre per Cassazione la società con vari motivi di ricorso, deducendo, in particolare, che la Corte di merito aveva erroneamente affermato che vi fosse fungibilità completa tra la posizione della lavoratrice licenziata, che non svolgeva mansioni commerciali, e la collega di lavoro.
La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato.
Nel decidere il ricorso della società, la Cassazione ha anzitutto ribadito come non sia necessario, per procedere legittimamente a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che una società registri un andamento economico negativo, «essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa» (in questo senso, tra le altre, Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 e Cass. 3 maggio 2017, n. 10699).
Ciò premesso, la Corte di legittimità ha tuttavia confermato integralmente la sentenza della Corte d'Appello di Napoli, sottolineando come tale decisione non fosse in contrasto - contrariamente a quanto sostenuto dal datore di lavoro - con la tutela della libertà di scelta imprenditoriale disposta dall'art. 41 della Costituzione.
Ed infatti, prosegue la Corte, pur potendo il datore di lavoro liberamente scegliere di ridurre il proprio personale, nell'individuazione del dipendente da licenziare è tuttavia tenuto ad effettuare una «valutazione comparativa tra lavoratori di pari livello, interessati dalla riduzione ed occupati in posizione di piena fungibilità, nel rispetto del principio di correttezza e buona fede » (cfr. Cass. 21 dicembre 2016, n. 26476; Cass. 14 giugno 2007, n. 13876; Cass. 3 aprile 2006, n. 7752; Cass. 13 ottobre 2015, n. 20508; Cass. 11 giugno 2004, n. 11124).
La Corte di Cassazione ha dunque ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente applicato tali principi, senza in alcun modo interferire sulla libertà di scelta imprenditoriale e con un compiuto esame del fatto.
La Suprema Corte ha quindi concluso per il rigetto del ricorso.

Rinnovazione di licenziamento intimato verbalmente

Cass. Sez. Lav. 31 ottobre 2018, n. 27972

Pres. Bronzini; Rel. Arienzo; Ric. S. S.p.A.; Controric. F.L.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Invalidità - Nullità - Vizio di forma - Rinnovazione - Ammissibilità - Requisiti di forma.

Un licenziamento nullo per vizio di forma può essere rinnovato (con le prescritte modalità omesse nella precedente intimazione) in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la questione della validità del primo licenziamento sia ancora “sub iudice”; tale rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 c.c. (convalida dell'atto nullo).
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione dell'ammissibilità della rinnovazione del licenziamento invalido.
Nel caso di specie, un lavoratore impugnava giudizialmente il recesso comunicatogli per giustificato motivo oggettivo in data 21 gennaio 2014. Successivamente, con lettera del 23 giugno 2014, la società datrice intimava nuovamente al dipendente il licenziamento per iscritto, richiamando le motivazioni del primo recesso.
Il Tribunale accertava l'illegittimità del primo licenziamento «per mancata osservanza della procedura prevista dell'art. 7 legge 604/66», e non perché verbale, condannando il datore al pagamento della sola indennità risarcitoria.
Ad esito del gravame, la Corte territoriale dichiarava - invece - la nullità del licenziamento «per difetto di forma scritta ad substantiam», negando qualsivoglia rilevanza alla susseguente rinnovazione: «se pure il licenziamento orale può essere legittimamente rinnovato, nel caso in esame non è rinnovabile una rinnovazione atteso che, come emergente dal tenore letterale della comunicazione, la società si era limitata a confermare il venir meno del rapporto contrattuale tra le parti in forza dell'originaria lettera di licenziamento, integrando in tal modo la fattispecie vietata di convalida di un atto nullo di cui all'art. 1423 c.c.».
Contro tale pronuncia della Corte territoriale, la società proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione dell'art. 1423 c.c.
I Giudici di legittimità accolgono in parte qua il gravame, rammentando, anzitutto, che è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso e che tale rinnovazione, risolvendosi nel compimento di un negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 c.c. (i.e. convalida dell'atto nullo); norma, quest'ultima, diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti ex tunc e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia negoziale. Principio - argomenta il Supremo Collegio - valido anche nell'ipotesi in cui la rinnovazione del licenziamento faccia riferimento alla data del primo licenziamento nullo quale data di cessazione del rapporto, prevalendo la manifestazione di volontà di risolvere il rapporto manifestata ritualmente in forma scritta rispetto al riferimento contenuto alla comunicazione precedente ed al termine di cessazione ivi contenuto, applicando al secondo recesso la decorrenza che ad esso deve ex lege conseguire, ossia dalla data di ricezione della lettera stessa da parte del lavoratore.
Pertanto, conclude la Cassazione, è certamente consentita la rinnovazione del licenziamento nullo per vizio di forma - purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione - in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso.

Contestazione disciplinare, procedimento

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2018, n. 29927

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; Ric. C.T.; Controric. I.S.P.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Procedimento - Contestazione di addebiti al lavoratore - Obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati - Limiti - Indicazione specifica dei documenti aziendali idonei a permettere al lavoratore un'adeguata difesa - Necessità - Ordine di esibizione della predetta documentazione nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento - Configurabilità.

L'art. 7 della L. 300/70 non prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all'esito del procedimento suddetto, l'ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all'incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l'onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine.
NOTA
Nel caso di specie, una lavoratrice agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato per giusta causa. Si costituiva in giudizio la società chiedendo il rigetto del ricorso.
Entrambi i giudici di merito respingevano il ricorso confermando la legittimità del licenziamento avendo accertato che la società non aveva violato il principio di specificità della contestazione, rilevando come «la lettera contenesse la dettagliata indicazione di tutte le operazioni irregolari; in particolare, i fondi disinvestiti con il numero del conto corrente abbinato, il conto di accredito e il giorno di esecuzione delle operazioni. Ha precisato come la mancata indicazione dell'orario delle singole operazioni non avesse in alcun modo pregiudicato la difesa della lavoratrice (…) e come peraltro la società avesse più volte invitato la dipendente ad esaminare la documentazione per la verifica degli orari di esecuzione delle operazioni, ma con esito negativo».
La lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione per violazione degli artt. 7, L. n. 300/1970, 2106 c.c. e del principio di specificità della contestazione disciplinare, per omessa indicazione degli orari delle operazioni irregolari, nonché violazione dei principi di immodificabilità e di non integrabilità aliunde della contestazione, con lesione del diritto di difesa e del diritto alla prova.
La Suprema Corte ha ricordato il proprio costante orientamento secondo cui non è possibile dedurre la configurazione di un diritto del lavoratore ad una allegazione documentale da parte del datore di lavoro a prova dei fatti dedotti in sede in contestazione degli addebiti disciplinari, e quindi la creazione di un obbligo di esibizione degli stessi in capo al datore di lavoro, salva la possibilità di ottenerne l'esibizione forzata in corso di giudizio. La messa a disposizione da parte del datore di lavoro dei documenti aziendali deve ritenersi dovuta solo in quanto nei limiti in cui l'esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell'addebito idonea a permettere alla controparte un'adeguata difesa, con conseguente necessità, in tale ultima ipotesi, che il lavoratore, il quale lamenti la violazione di tale obbligo, individui i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine, elementi nel caso di specie del tutto assenti.
La Corte conclude respingendo il ricorso rilevando, tra il resto, che la dipendente non aveva richiesto di aver copia dei documenti o di poterli visionare con un proprio consulente e, peraltro, tale aspetto, che certo coinvolge la concreta possibilità di difesa, non attiene alla specificità della contestazione.

Annullamento di dimissioni

Cass. Sez. Lav. 21 novembre 2018, n. 30126

Pres. Napoletano; Rel. Tria; Ric. P.D. Contr. C.M.;

Dimissioni – Annullamento per incapacità naturale – Art. 428 c.c. – Condizione di turbamento psichico – Sufficiente – Totale privazione delle facoltà intellettive e volitive – Esclusione.

Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere - quale quella prevista dall'art. 428 c.c. - costituente causa di annullamento delle dimissioni, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere.
NOTA
La Corte di appello di Bologna, confermando la decisione di primo grado, rigettava la domanda di un ex dipendente del Comune di M. volta ad ottenere l'accertamento dell'invalidità delle proprie dimissioni. Secondo i giudici di merito, la domanda doveva essere respinta in quanto, pur se il CTU medico nominato in appello, aveva rilevato che il lavoratore mostrava un “notevole turbamento psichico” al momento delle dimissioni, ciò, secondo il consulente, non ne aveva determinato la esclusione totale della capacità psichica e volitiva.
Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della sentenza nella parte in cui, pur riconoscendo la sussistenza di un turbamento psichico nel momento in cui aveva rassegnato le dimissioni, aveva ritenuto tale condizione insufficiente, reputando necessario uno stato di totale incapacità di intendere e di volere.
La Suprema Corte accoglie il ricorso sottolineando che, sulla base di consolidati orientamenti dei giudici di legittimità, nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro, l'indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento - attesa la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, che è diretto alla rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. - sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso (Cass. 3 marzo 2015, n. 4241; Cass. 9 aprile 2014, n. 8361). Inoltre, prosegue la Cassazione, in caso di annullamento delle dimissione rese dal lavoratore, gli effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice e solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione la quale, salvo espressa eccezione di legge, non è dovuta in caso di mancanza di attività lavorativa (Cass. 14 aprile 2010, n. 8886). Con l'ulteriore precisazione che, in caso di rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. - come quello oggetto della presente controversia - al dipendente dimissionario, si applica l'istituto della riammissione in servizio, che non dà luogo alla riviviscenza del precedente rapporto, ma alla costituzione di uno nuovo; pertanto ai fini della progressione economica maturata dopo le dimissioni, va considerato come termine iniziale la data del provvedimento di riammissione in servizio, da cui decorre l'anzianità nella qualifica del dipendente riammesso agli effetti sia giuridici che economici (Cass. 18 dicembre 2017, n. 30342).
Alla luce di tutti i princìpi sopra richiamati, la Cassazione ritiene errata la decisione della Corte di merito - e rinvia nuovamente alla Corte di appello di Bologna - nella parte in cui basandosi, sulle conclusioni della CTU medica, che aveva diagnosticato un “notevole turbamento psichico” tale condizione non era stata ritenuta sufficiente ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere come richiesta dall'art. 428 c.c., anche considerato che la consulenza tecnica ha la funzione di risolvere questioni che presuppongono cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché se il consulente di sua iniziativa effettua simili valutazioni il giudice non ne deve tenere conto.

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