Contenzioso

Risoluzione del rapporto per mutuo consenso, i paletti della Cassazione

di Angelina Turco

La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine non è sufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso. È quanto stabilito dalla Cassazione con sentenza 13 febbraio 2019, numero 4224.

La decisione della Suprema corte si muove nel quadro delle motivazioni della sentenza della Corte di appello che aveva ritenuto insussistente lo scioglimento di un contratto per mutuo consenso, reputando che il mero decorso del tempo non poteva essere considerato indice della risoluzione consensuale, né poteva esserlo la riscossione delle somme ancora dovute, in quanto necessarie alla lavoratrice per assicurarsi il sostentamento, o l'iscrizione nelle liste di disoccupazione, non potendo la stessa attendere tutto il tempo necessario per la conclusione dell'instaurando giudizio. La società aveva proposto appello contro la sentenza di merito, ritenendo che essa movesse «dall'erroneo presupposto secondo cui la risoluzione tacita del rapporto di lavoro è configurabile di fatto solo ove vi sia un rifiuto espresso del lavoratore di riprendere servizio».

La sentenza della Corte di appello, nella motivazione relativa alla non configurabilità del mutuo consenso, aveva reputato che la complessiva valutazione di tutti gli elementi non potesse indurre a ritenere cessato il rapporto di lavoro per mutuo consenso tacito alla data in cui il contratto si è concluso, poiché il semplice decorso di pochi mesi tra tale data e la messa in mora del datore di lavoro, con offerta delle prestazioni lavorative da parte della ricorrente, e la riscossione delle ultime somme alla stessa dovute, compreso il Tfr, non integrano una condotta incompatibile con la ripresa della funzionalità del rapporto di lavoro, in considerazione del fatto che tali somme erano finalizzate a garantire i fondamentali bisogni materiali e morali della lavoratrice e della propria famiglia. Per i giudici della Corte di appello, inoltre, la parte datoriale non aveva fornito elementi dai quali poter desumere la volontà della lavoratrice di prestare acquiescenza alla conclusione definitiva del rapporto lavorativo.

I giudici della Suprema corte ribadiscono quindi, sulla scorta di precedenti decisioni, che «affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro». (Cassazione 20605/2014).

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