Contenzioso

Rassegna della Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Forme anomale di astensione collettiva
Licenziamento nullo
Affitto di ramo d'azienda e rapporti di lavoro
Licenziamento di dirigente
Appalto e solidarietà fra committente e appaltatore

Forme anomale di astensione collettiva

Cass. Sez. Lav. 28 gennaio 2019, n. 2298

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. A.T.A.; Contr. C.G.S.S.E.;

L. n. 146/1990 – Servizi pubblici essenziali – Forme anomale di astensione collettiva di lavoratori autonomi – Mancata erogazione delle prestazioni indispensabili – Dovere degli organismi di categoria di dissociarsi pubblicamente – Sussistenza – Inottemperanza – Applicazione sanzione pecuniaria.

Laddove, nell'ambito di uno stato di mobilitazione in cui è programmata un'astensione di soggetti appartenenti a categorie di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, si inseriscano forme anomale di protesta collettiva tese alla medesima rivendicazione di categoria, il soggetto collettivo che ha indetto, o comunque promosso, lo stato di agitazione e l'astensione ha il dovere di dissociarsi pubblicamente ed in modo inequivoco da tali episodi, dal momento in cui ne viene a conoscenza. La violazione di tale dovere di dissociazione costituisce comportamento valutabile dalla Commissione di garanzia che può deliberare l'adozione di una sanzione pecuniaria ex art. 4, co. 4, l. n. 146/1990.
NOTA
Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, la Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con delibera del settembre 2006, aveva valutato negativamente il comportamento adottato dal Coordinamento Taxi Italiano (CTI), con riferimento ad una serie di astensioni collettive dalle prestazioni poste in essere in numerose città italiane, nelle giornate del 30 giugno e seguenti e del 13 luglio e seguenti, riscontrando la violazione dell'art. 2 bis della l. n. 146/1990, con applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall'art. 4, co. 4, della predetta legge.
Il CTI e la ATA Casartigiani avevano proposto ricorso, ai sensi dell'art. 20 bis della l. n. 146/1990, dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo l'annullamento della delibera, considerato che le astensioni si erano concretizzate in manifestazioni di protesta meramente spontanee adottate da singoli gruppi di tassisti. Il Tribunale aveva accolto il ricorso, ritenendo che le astensioni collettive dal servizio attuate da singoli gruppi di tassisti non potessero ricondursi allo stato di mobilitazione nazionale proclamato dal CTI. La Corte di appello di Roma, a cui si era rivolta la Commissione di garanzia, aveva riformato la sentenza di primo grado, evidenziando che la responsabilità delle associazioni di categoria doveva ravvisarsi nel non essersi attivate per impedire quei fatti illeciti configurati dalla l. n. 146/1990.
Avverso tale pronuncia la Ata Casartigiani ha proposto ricorso per cassazione denunciando la violazione di legge nella parte in cui la sentenza non aveva considerato che il CTI aveva indetto due giornate di fermo nazionale del servizio taxi, entrambe revocate, mentre le manifestazioni di protesta erano state effettuate in giornate diverse e precedenti rispetto a quelle per le quali era stata proclamata l'astensione, per cui le stesse dovevano ritenersi avulse rispetto alle iniziative promosse dal Coordinamento Taxi.
La Corte di Cassazione ritiene fondato il ricorso e, dopo un lungo e approfondito esame della normativa, l. n. 146/1990 - anche alla luce dei numerosi interventi della Corte Costituzionale - premesso che il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, garantito dai servizi pubblici essenziali ha valore primario e prevalente, ritiene che sia "comportamento valutabile", e sanzionabile, da parte della Commissione non solo quello che comprovi una diretta partecipazione o promozione del soggetto collettivo all'astensione illegittima, ma tutte quelle forme di azione o omissione dei soggetti collettivi che possano, direttamente o indirettamente, pregiudicare i diritti costituzionalmente garantiti dell'utenza. Conseguentemente, laddove nell'ambito di uno stato di mobilitazione in cui è programmata un'astensione di soggetti appartenenti a categorie di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, si inseriscano forme anomale di protesta collettiva tese alla medesima rivendicazione di categoria, il soggetto collettivo che ha indetto, o comunque promosso, lo stato di agitazione e l'astensione ha il dovere di dissociarsi pubblicamente ed in modo inequivoco da tali episodi, dal momento in cui ne viene a conoscenza. La violazione di tale dovere di dissociazione costituisce comportamento valutabile dalla Commissione di garanzia che può deliberare l'adozione di una sanzione pecuniaria ex art. 4, co. 4, l. n. 146/1990.
Di converso, a parere della Suprema Corte, l'adempimento di tale obbligo - aperta dissociazione - da parte delle associazioni di categoria, scoraggia condotte ambigue degli organismi che vogliano giovarsi delle pressioni derivanti da forme incontrollate di protesta, altamente lesive dei diritti degli utenti ed allarmanti per l'opinione pubblica, per acquisire indebite posizioni di maggiore forza al tavolo delle trattative. Si delinea, quindi, continua la Cassazione, una responsabilità che, lungi dal connotarsi come oggettiva e per fatto altrui, è invece una responsabilità per fatto proprio: essa si sostanzia in una condotta omissiva esigibile a fronte del dovere giuridico di manifestare aperto e fermo dissenso nei confronti di forme di protesta illegittime innescate nel corso di azioni collettive cui detti organismi rappresentativi hanno dato origine.
Applicando i princìpi su espressi al caso in esame, la Suprema Corte cassa la sentenza di appello che - riconoscendo in capo all'organismo promotore dell'astensione collettiva un vero e proprio obbligo di agire per impedire il fatto illecito altrui - aveva attribuito alla disposizione citata un contenuto precettivo diverso da quello proprio. La Cassazione, quindi, nell'accogliere il ricorso, rinvia alla Corte di appello affinché proceda ad un nuovo esame della controversia attenendosi al seguente principio di diritto: «in ipotesi di astensione collettiva dalle prestazioni delle associazioni e degli organismi rappresentativi dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, l'art. 4, comma 4, seconda parte, della legge 12 giugno 1990, n. 146 - recante norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - deve essere interpretato nel senso che costituisce comportamento valutabile dalla Commissione di garanzia, ai fini dell'applicazione della eventuale sanzione pecuniaria, ogni condotta, attiva o omissiva, in violazione dei precetti desumibili dalla disciplina che regolamenta l'astensione collettiva, tra cui anche il comportamento omissivo attuato da soggetti in violazione del dovere di dissociarsi pubblicamente ed in modo inequivoco da forme di protesta che, inserendosi nella rivendicazione di categoria indetta dalle associazioni e dagli organismi rappresentativi, siano esercitate senza il rispetto delle misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili al fine di garantire nei servizi pubblici essenziali il godimento di diritti della persona, costituzionalmente tutelati».

Licenziamento nullo

Cass. Sez. Lav. 23 novembre 2018, n. 30429

Pres. Napoletano; Rel. Arienzo; Ric. A.B; Controric. M.D.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento nullo per motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. - Art. 18 della l. n. 300 del 1970 come modificato dalla l. n. 92 del 2012 - Unico motivo - Irrilevanza - Esclusione del carattere determinante - Condizioni

Il nuovo testo dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, ha previsto, ai fini della nullità del licenziamento, la rilevanza del motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., anche non necessariamente unico, il cui carattere determinante può restare escluso dall'esistenza di un giustificato motivo oggettivo solo ove quest'ultimo risulti non solo allegato dal datore di lavoro, ma anche comprovato e, quindi, tale da poter da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo di dichiararsi la nullità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, denunciando invece l'intento ritorsivo dello stesso. La Corte d'appello in accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore dichiarava nullo il licenziamento intimatogli, ordinando la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro occupato all'epoca del licenziamento e condannando la società a corrispondere allo stesso un'indennità risarcitoria. In particolare la Corte di merito, con riguardo al denunciato intento ritorsivo del licenziamento, rilevava che la relativa prova poteva essere fornita anche a mezzo di presunzioni e che l'allegazione dell'intento ritorsivo non esonerava il datore di lavoro dall'onere di provare l'esistenza della giusta causa e del giustificato motivo del recesso e che, solo ove fornita anche solo apparentemente tale prova, incombesse al lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e l'illiceità del motivo (unico) e determinante del recesso. Nel caso di specie, secondo la Corte d'Appello, il passaggio in giudicato della sentenza che aveva statuito l'illegittimità dell'intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, costituiva già di per sé un segno disvelatore della esistenza di un motivo diverso all'origine del licenziamento, non palesabile perché illecito e lesivo delle prerogative del lavoratore.
La Società ha proposto ricorso per cassazione lamentando che la Corte di merito, con la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, avesse illegittimamente determinato l'inversione dell'onere della prova. In particolare, secondo la società ricorrente, considerare «la mancata dimostrazione, da parte del datore di lavoro, di un contenimento delle ricadute economiche prodotte dalla contrazione dell'attività attraverso la riduzione del personale, attuata con la soppressione del posto di lavoro del lavoratore» come presunzione assoluta di ritorsività del recesso, rappresentava violazione del principio per il quale il ricorso alle presunzioni semplici deve essere limitato ai casi nei quali la premessa del ragionamento inferenziale, ovvero il fatto noto, è provato sulla base di evidenze probatorie non costituite da presunzioni, ed in assenza di prova del nesso di causalità tra lamentele del lavoratore e intento ritorsivo.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che la Corte di merito avesse congruamente esaminato i fatti e valutato l'onere probatorio incombente sul lavoratore individuando la stretta causalità dei fatti allegati con il provvedimento espulsivo, senza errori di diritto e violazione dei richiamati principi regolanti la prova per presunzioni.
La sentenza impugnata, secondo la Corte di legittimità, «non ha infatti ricavato il motivo illecito del licenziamento quale conseguenza inferenziale della mancanza di prova del giustificato motivo oggettivo, ma si è limitata ad osservare che, mentre tale prova è mancata, dall'istruzione di causa è invece emersa la prova positiva della volontà ritorsiva della società, poi sfociata nel recesso di cui si controverte».
La Corte di cassazione ha concluso affermando che «affinché resti escluso il carattere determinante del motivo illecito ex art. 1345 cod. civ. non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l'esistenza di un giustificato motivo oggettivo, ma è necessario che quest'ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo parimenti emerso all'esito di causa».

Affitto di ramo d'azienda e rapporti di lavoro

Cass. Sez. Lav. 11 dicembre 2018, n. 31981

Pres. Napoletano; Rel. Leone; P.M. Fresa; Ric. R. S.p.A.; Controric. C.+ 4;

Affitto di ramo d'azienda - Restituzione dell'azienda per cessazione del rapporto di affitto – Applicabilità dell'art. 2112 c.c. - Condizioni - Esclusione nella fattispecie.

L'art. 2112 c.c., nel regolare i rapporti di lavoro in caso di trasferimento d'azienda, trova applicazione anche nel caso di retrocessione dell'azienda affittata, nel senso che il cedente assume, a sua volta, gli obblighi di mantenimento dell'occupazione derivanti dalla predetta norma, ma ciò presuppone che l'impresa retrocessionaria (originariamente cedente) prosegua, mediante l'immutata organizzazione dei beni aziendali, l'attività già esercitata in precedenza, vanificandosi, altrimenti, l'intento perseguito dal legislatore.
NOTA
La vicenda in esame riguarda la mancata applicazione dell'art. 2112 c.c., in un caso di retrocessione dell'azienda affittata, per difetto dell'elemento costitutivo rappresentato dalla continuazione dell'attività lavorativa in capo all'azienda retrocessionaria che consentisse l'utile reimpiego di tutti i lavoratori già addetti al ramo d'azienda retrocesso.
In particolare, la Corte d'Appello di Firenze, condividendo la decisione del Tribunale, riteneva non applicabile al licenziamento intimato a cinque lavoratori il disposto dell'art. 2112 c.c., in quanto l'impresa retrocessionaria, originaria cedente, aveva cessato la propria attività, con conseguente impossibilità di garantire la continuità del rapporto di lavoro dei dipendenti licenziati. La Corte aveva ritenuto che nella fattispecie in esame si fosse realizzata un'ipotesi di cessione del contratto ai sensi dell'art. 1406 c.c. considerata illegittima per il mancato consenso dei lavoratori a detta cessione. In conseguenza di ciò la società retrocedente era stata condannata al pagamento in favore dei ricorrenti delle retribuzioni maturate a far data dalla cessazione della prestazione lavorativa, senza alcuna detrazione delle somme medio tempore percepite a titolo di CIGS (avendo queste ultime diversità di natura e di titolo) e ferma restando l'eventuale restituzione delle stesse all'INPS.
La società ricorreva per Cassazione censurando la decisione impugnata per la mancata applicazione dell'art. 2112 c.c.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso ricordando, anzitutto, che la disciplina di cui all'art. 2112 c.c. trova applicazione anche nei casi di cessazione dell'affitto d'azienda e di restituzione della stessa alla originaria cedente, verificandosi anche in tali situazioni un fenomeno traslativo dell'azienda o di parte di essa, che richiede la tutela diretta al mantenimento dell'occupazione per i lavoratori trasferiti ed al trattamento già percepito dagli stessi. Se così non fosse, la retrocessione consentirebbe la "dismissione" del ramo di azienda e dei lavoratori ad esso adibiti, vanificando l'intento perseguito dal legislatore (in questo senso: Cass. n. 16255/2011, Cass. n. 12909/2003 e Cass. n. 7458/2002).
La Corte ha infatti precisato che l'art. 2112 c.c., nel regolare i rapporti di lavoro in caso di trasferimento d'azienda, trova applicazione in tutte le ipotesi in cui il cedente sostituisca a sé il cessionario senza soluzione di continuità, anche nel caso di affitto d'azienda. Ne deriva che l'obbligazione dell'azienda affittuaria, come avviene per gli altri casi di cessione, si risolve in un impegno "sine die" di mantenimento dell'occupazione dei dipendenti trasferiti che, una volta assunto, non può essere eluso semplicemente con la formale restituzione dell'azienda, per cessazione del rapporto di affitto, quando risulti che invece l'attività dell'impresa cedente era definitivamente cessata, mentre quella dell'azienda affittuaria era continuata.
La Suprema Corte ha proseguito il proprio ragionamento ricordando che i principi richiamati enucleano la «essenziale condizione di continuazione della attività in capo alla azienda retrocessionaria al fine di garantire l'utile reimpiego di tutti i lavoratori già addetti al ramo d'azienda retrocessa e risultano in totale sintonia con la direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE», secondo cui «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria».
La Corte di Cassazione ha dunque concluso per il rigetto del ricorso poiché, nel caso di specie, la società retrocessionaria (originaria cedente) aveva pacificamente cessato la propria attività, mentre la società retrocedente aveva proseguito la propria, seppur in differenti appalti e con procedure di CIGS e contratti di solidarietà.

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 10 gennaio 2019, n. 436

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. B.A.; Controric. B. S.r.l. +2;

Lavoro subordinato – Licenziamento dirigente – Legittimità – Requisiti – Possibilità di valutare nel merito la scelta imprenditoriale – Insussistenza

Il licenziamento individuale del dirigente d'azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata la legittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro alla lavoratrice, dipendente con qualifica di dirigente e mansioni di responsabile del personale, amministrativo e finanziario.
La Corte territoriale, da una parte, riteneva accertata la tesi della ricorrente secondo la quale la stessa aveva svolto la propria prestazione in favore non solo della società datrice di lavoro ma anche di altre due società (facenti parte del medesimo gruppo di imprese e di cui la società datrice di lavoro costituiva l'organo direttivo ed organizzativo); dall'altra parte, riteneva i presupposti del licenziamento, consistenti nell'affidamento ad un amministratore delegato dei compiti precedentemente assegnati alla ricorrente e nell'economicità di tale scelta, confermati dal quadro probatorio emerso in corso di causa.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice, sulla base di un unico motivo. La lavoratrice sosteneva, in sintesi, che la Corte territoriale avesse omesso di valutare che l'amministratore delegato, figlia del Presidente del consiglio di amministrazione della società datrice, neolaureata e del tutto inesperta, avesse avocato a sé esclusivamente le mansioni svolte per la società datrice e non quelle svolte per le altre società del gruppo.
La Suprema Corte ha però respinto il ricorso e le argomentazioni della ricorrente.
In particolare, la Cassazione ha evidenziato come la Corte territoriale avesse ampiamente esaminato i fatti controversi rilevando che, se da una parte sussisteva – come sostenuto dalla ricorrente – un unico rapporto di lavoro in capo alle tre società del gruppo, dall'altra era risultato confermato che la lavoratrice fosse stata effettivamente sostituita da un amministratore delegato e che da tale scelta aziendale era conseguito un risparmio in termini di costi.
La Suprema Corte ha anche confermato di non poter sindacare nel merito la scelta imprenditoriale effettuata, neppure con riferimento all'allegata sostituzione di una dirigente esperta con una persona di famiglia e inesperta, trattandosi di scelta economico-organizzativa del datore di lavoro. Secondo un costante orientamento della Corte di Cassazione, infatti, «il licenziamento individuale del dirigente d'azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.».

Appalto e solidarietà fra committente e appaltatore

Cass. Sez. Lav. 15 gennaio 2019, n. 834

Pres. Bronzini; Rel. Lorito; Ric. I.L.; Controric. T.I. S.p.A. e altri.

Lavoro - Lavoro subordinato - Appalto - Retribuzione - Inadempimento dell'obbligazione - Solidarietà - Committente e appaltatore - Onere della prova - Limiti - Assolvimento.

L'art. 29, c. 2, del d.lgs. 276/2003 – allorché stabilisce in caso di appalto d'opere o di servizi il regime della solidarietà tra il committente imprenditore e l'appaltatore, nonché eventuali subappaltatori, per i trattamenti retributivi e contributivi da corrispondere ai lavoratori – presuppone solo l'accertamento dell'inadempimento dell'obbligazione retributiva da parte dei coobbligati solidali, e non anche la misura della ripartizione interna dei debiti, attenendo questa solo al rapporto intercorrente fra gli stessi coobbligati.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i presupposti per l'applicazione del regime della solidarietà tra committente imprenditore, appaltatore e subappaltatore, sancito dall'art. 29, c. 2, del d.lgs. 276/2003, per il caso di appalto di opere o di servizi.
Nel caso di specie, il lavoratore, non avendo percepito la retribuzione dall'aprile 2011 sino alla cessazione del rapporto, né le relative competenze di fine rapporto, adiva il Tribunale di Alessandria. Il ricorrente esponeva di aver lavorato alle dipendenze della ditta subappaltatrice A.N., la quale soleva indicare quotidianamente i luoghi di esecuzione della prestazione sulla base delle istruzioni impartite da altre aziende appaltatrici (S. e V.) della società committente. Ciò premesso, il prestatore deduceva di aver lavorato per il 50% con riferimento al subappalto presso S. e, quanto al resto, con riferimento al subappalto presso V.: per l'effetto, chiedeva la condanna del committente, in solido con gli appaltatori, al pagamento della retribuzione e delle relative competenze a lui non corrisposte a seguito del fallimento del proprio datore di lavoro-subappaltatore.
Entrambi i Giudici del merito rigettavano il ricorso. Segnatamente, la Corte territoriale censurava la carenza di adeguata prova, «anche sotto il profilo quantitativo», dei servizi ai quali il ricorrente era stato addetto o delle opere commissionate in favore delle due società appaltatrici, in relazione ai quali il lavoratore aveva maturato l'azionato credito retributivo.
Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, violazione e falsa applicazione dell'art. 29 d.lgs. n. 276/2003.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, rammentando, anzitutto, che il disposto di cui all'art. 29 del d.lgs. 273/2003 - pro tempore vigente - stabiliva che, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o il datore di lavoro sono obbligati in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, a corrispondere ai lavoratori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto i trattamenti retributivi ed i contributi previdenziali dovuti. E che, con tale disposizione, l'ordinamento ha inteso perseguire «l'obiettivo di assicurare anche ai lavoratori delle piccole e micro imprese subappaltatrici, la possibilità di esser tutelati dal datore di lavoro per l'inadempimento del pagamento delle retribuzioni, dovute in relazione all'appalto cui ha personalmente dedicato le proprie energie lavorative».
Così chiarita la ratio della norma, la Cassazione confuta gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale, laddove ha ritenuto di porre a carico del lavoratore (creditore) l'onere di provare non soltanto il complessivo credito retributivo vantato, bensì anche la quota dei debiti gravanti su ciascuna delle società appaltatrici convenute in giudizio, quale presupposto dell'obbligazione solidale del committente.
In definitiva - conclude la Suprema Corte - «l'eventuale incertezza di attribuzione dell'opera in termini quantitativi fra le società appaltatrici non può ridondare a carico del lavoratore, il quale ben può limitarsi ad imputare la propria attività per l'intero periodo dedotto in lite alle opere concesse in appalto, senza necessità di ulteriori precisazioni, stante il vincolo di solidarietà ex lege che avvince il committente, l'appaltatore ed il subappaltatore, potendo ciascuno di essi esser costretto all'adempimento per l'intero».

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