Contenzioso

Il furto “tollerato” annulla il licenziamento

di Giulia Bifano e Uberto Percivalle

È illegittimo poiché sproporzionato il licenziamento per giusta causa comminato al dipendente che, dopo molti anni di buona condotta alle dipendenze del proprio datore di lavoro, abbia commesso piccoli furti di materiale di scarto, tanto più se tale condotta risulti tollerata, o almeno non illegittima, secondo la prassi aziendale.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 1634/2019, respingendo il ricorso di una impresa di grandi dimensioni che, dopo essersi vista condannata alla reintegra di un lavoratore licenziato in tronco poiché sorpreso con materiale aziendale nel proprio giaccone, ha impugnato la decisione resa dalla Corte d'Appello di Napoli contestando, anzitutto, come il contratto collettivo applicato prevedesse il furto in azienda quale ragione di licenziamento per giusta causa, indipendentemente dal valore della refurtiva o da ulteriori circostanze di fatto.

Investita della questione tuttavia, la Corte suprema ha disconosciuto le ragioni della società, confermando le conclusioni dei giudici di appello secondo cui, per valutare l'integrazione di una condotta idonea a fondare il licenziamento senza preavviso dovesse essere data preminente importanza alla valutazione dei fatti alla luce di un criterio di proporzionalità, in base al quale la gravità del comportamento del dipendente avrebbe dovuto essere riconsiderata tenendo conto delle testimonianze secondo cui il fatto di impossessarsi di taluni materiali di scarto fosse prassi invalsa tra i lavoratori che, in quanto tollerata dal datore di lavoro, non poteva essere percepita dai medesimi come illegittima.

Nel concludere così, peraltro, la Corte non ha tenuto in considerazione, perché attinente al merito e non alle censure da portare all'attenzione della Cassazione, la diversa ricostruzione dei fatti resa dalla società e apparentemente corroborata da alcune testimonianze, secondo cui il dipendente, peraltro non impiegato presso il settore aziendale dal quale aveva sottratto il materiale, si era impossessato di oggetti nuovi e non, invece, di scarto. A nulla è valso che la società obbiettasse che la tenuità del danno subito non fosse sufficiente a escludere la lesione permanente del vincolo fiduciario, in quanto elemento idoneo a mettere in dubbio la futura correttezza dell'adempimento degli obblighi assunti da parte del lavoratore.

A tali conclusioni, pacifiche nella parte in cui ritengono una prassi aziendale idonea a fondare una legittima aspettativa di liceità della propria condotta da parte del dipendente, la Cassazione consente però forse di giungere con scivolosa rapidità. Non pare emergere dal testo della decisione un'analisi approfondita di come debba essere individuata una prassi aziendale al fine di derubricare una condotta idonea a fondare un licenziamento per giusta causa a mero malcostume.

Il rischio è di esporre forse a rischi di non poco conto quelle società in cui, a causa della struttura organizzativa complessa o delle dimensioni rilevanti, taluni comportamenti risultano “tollerati” solo perché in realtà ignoti alla direzione aziendale. Laddove sussistano direttive datoriali contrarie alla prassi invalsa in taluni dipartimenti aziendali dovranno essere fatte prevalere queste ultime? Emerge in modo chiaro la centralità dell'esame in ordine alla buona fede del dipendente nell'ambito della valutazione di una condotta oggetto di sanzione disciplinare, alla luce della concreta rilevanza di qualsivoglia prassi che sembri allineata a comportamenti disciplinarmente rilevanti.

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