Contenzioso

Licenziamento orale

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Diritto di critica e licenziamento
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo precedente a fusione di azienda
Licenziamento orale
Lavoro subordinato e codatorialità
La responsabilità solidale del committente nei contratti di appalto


Diritto di critica e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2019, n. 1379

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. S.a.s.i. S.p.A.; Controric. D.B.G.

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento – Diritto di critica – Lesione dell'onore e della reputazione - Valutazione del Giudice

La critica manifestata dal lavoratore all'indirizzo del datore di lavoro può trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare laddove il giudice accerti il superamento dei limiti posti a presidio della dignità della persona umana, così come predeterminati dal diritto vivente.
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce i presupposti - tralatiziamente fissati dalla giurisprudenza - per il corretto esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, individuando il percorso logico-giuridico che il giudice del merito deve seguire per valutare la liceità o meno della condotta concretamente tenuta dal dipendente.
Nel caso di specie, la Corte territoriale accertava l'illegittimità, per carenza di giusta causa, del licenziamento intimato ad un lavoratore, sull'assunto che le affermazioni profferite dal dipendente - oggetto di contestazione poiché ritenute diffamatorie dal datore - fossero riconducibili nell'ambito del legittimo diritto di critica. In particolare, i Giudici d'appello argomentavano che la comunicazione scritta indirizzata dal lavoratore ai vertici della società datrice non avesse un effetto lesivo dell'onore e della reputazione di questi ultimi.
La società datrice proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, l'omesso esame da parte dei Giudici del merito di un fatto decisivo, consistente nella mancata valutazione dell'affermazione del dipendente - giudicata dalla società ricorrente patentemente calunniosa - secondo cui l'omessa utilizzazione da parte del datore di un costoso automezzo fosse stata motivata dal "solo fine di far ricorso a ditte esterne".
La Suprema Corte accoglie il ricorso, rammentando, anzitutto, che, a mente del costante orientamento di legittimità, l'apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza stabiliti per l'esercizio lecito del diritto di critica - che si sostanziano nel criterio di continenza sostanziale - ovvero la verità della notizia sia materiale, ovvero l'interesse pubblico alla diffusione dell'informazione, che formale, ossia la correttezza e civiltà della forma linguistica - costituisce valutazione di merito, che deve esser affidata ai giudici ai quali l'accertamento del fatto compete.
Segnatamente - prosegue la Cassazione - il giudice del merito, nella ricostruzione della vicenda storica che ha dato origine alla controversia, deve enucleare quei fatti che ha considerato rilevanti nell'integrazione della fattispecie legale, al fine di motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che lo ha indotto a ritenere rispettati tutti i predetti limiti imposti all'esercizio della critica, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva né mancare di delineare l'iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento.
Ebbene, tanto chiarito, a parere del Supremo Collegio, non possono ritenersi condivisibili gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale, laddove, pur avendo riprodotto integralmente in premessa la lettera del dipendente oggetto del procedimento disciplinare, ha completamente omesso di sottoporre a qualsivoglia vaglio l'affermazione ivi contenuta in base alla quale veniva specificatamente attribuito ai vertici della società datrice il mancato utilizzo di un "autospurgo del costo di circa 300.000,00 Euro … al solo fine di far ricorso a ditte esterne". Precisamente - evidenziano i Giudici di legittimità - la Corte di merito si è limitata a statuire come le espressioni utilizzate dal lavoratore fossero in realtà prive di un contenuto minaccioso, offensivo e calunniatorio, ma senza dar conto specificamente del percorso logico-giuridico per il quale l'accusa ai vertici aziendali non conclamasse una lesione della considerazione che gli amministratori di quell'impresa avevano diritto di avere tra gli altri dipendenti e, più in generale, tra i consociati, a tutela della loro dignità personale e professionale.
Per le ragioni sovra esposte, la Suprema Corte conclude statuendo che tale anomalia motivazionale, consistente nella motivazione apparente o nell'omessa motivazione su fatto essenziale e decisivo onde ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta, rende la sentenza impugnata "monca" e priva della sua conclusione razionale e, quindi, meritevole di essere cassata sul punto affinché il giudice del rinvio possa procedere a nuovo esame.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo precedente a fusione di azienda

Cass. Sez. Lav. 21 febbraio 2019, n. 5177

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Patrone; Ric. E. S.p.A.; Controric. M.C.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo precedente a fusione di azienda ex art. 2112 c.c. – Condizioni di liceità - Insussistenza del nesso causale con il trasferimento – Necessità.

In tema di trasferimento di azienda, l'art. 2112, quarto comma, c.c., nel disporre che il trasferimento non può essere di per sé ragione giustificativa di licenziamento, aggiunge che l'alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale; ne consegue che il trasferimento di azienda non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che questo abbia fondamento nella struttura aziendale e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a un dipendente per soppressione della posizione lavorativa, determinata dal futuro accorpamento di mansioni che sarebbe conseguito dalla fusione per incorporazione della società datrice di lavoro nella società capogruppo.
La Corte d'Appello di Roma dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore e condannava la società alla reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria parametrata alle retribuzioni globali di fatto tra la data del licenziamento e l'effettiva reintegra.
La Corte territoriale, infatti, aveva accertato che il licenziamento del lavoratore era avvenuto in contrasto con l'art. 2112 c.c., poiché il motivo del recesso era unicamente basato sul «nuovo assetto aziendale» della società datrice di lavoro e, quindi, nella prospettazione aziendale, determinato dalla «crisi di settore» e dalla «necessità di sinergie con la capogruppo».
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società. Il lavoratore resisteva con controricorso.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, la società denunciava la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2112 c.c., non essendo mai stato messo in discussione, neppure dalla sentenza impugnata, che vi fosse stata l'effettiva soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato con accorpamento, all'esito della fusione, delle mansioni da questi svolte a quelle di altro personale già dipendente della società incorporante. Evidenziava inoltre come l'esternalizzazione di una attività aziendale fosse operazione consentita dalla legge e, quindi, che il licenziamento del lavoratore fosse pienamente legittimo.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo. Anzitutto, in quanto la lettera di licenziamento consegnata al lavoratore non faceva alcun riferimento ad esternalizzazione o appalto di attività; inoltre, in quanto dalla lettura del ricorso per cassazione emergeva che il licenziamento del lavoratore era avvenuto unicamente in vista della fusione con la società capogruppo e, dunque, in contrasto con l'art. 2112 c.c. Ciò, quindi, in violazione del principio di diritto più volte affermato in sede di legittimità, secondo cui «in tema di trasferimento di azienda, l'art. 2112, quarto comma, c.c., nel disporre che il trasferimento non può essere di per sé ragione giustificativa di licenziamento, aggiunge che l'alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale; ne consegue che il trasferimento di azienda non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che questo abbia fondamento nella struttura aziendale, e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo» (in questo senso, Cass. n. 15495/2005 e Cass. n. 11410/2018).
Sulla base di tali considerazioni la Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata, posto che il licenziamento intimato dalla società sarebbe stato legittimo ove vi fosse stata soppressione (anche mediante redistribuzione legittima delle mansioni) della posizione lavorativa presso la medesima datrice di lavoro, mentre nella fattispecie il licenziamento avvenne unicamente in vista della fusione con la società capogruppo e, dunque, in contrasto con l'art. 2112 c.c.
La Corte ha quindi concluso per il rigetto di tale motivo di impugnazione ravvisando l'ipotesi della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» di cui all'art. 18, secondo comma, L. 300/1970, essendo le ragioni del recesso correlate ad un futuro accorpamento di mansioni, che sarebbe peraltro conseguito da una fusione societaria non ancora realizzata che, a sua volta, non costituisce per legge (art. 2112, quarto comma, c.c.) un giustificato motivo di licenziamento.

Licenziamento orale

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2019, n. 3822

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. A. s.r.l.; Contr. T.M.;

Licenziamento orale - Impugnativa giudiziale del lavoratore – Fatto costitutivo della domanda - Estromissione - Onere della prova in capo al lavoratore – Sussiste – Eccezione del datore di lavoro: dimissioni - Onere della prova in capo al datore di lavoro - Sussiste -

Qualora il lavoratore subordinato impugni un licenziamento allegando che è stato intimato oralmente ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, in quanto la mera cessazione nell'esecuzione della prestazione non è circostanza di per sé sola idonea a fornire la prova. Ove il datore di lavoro, dal canto suo, eccepisca che il rapporto si è risolto per dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa e nel caso in cui perduri l'incertezza probatoria, farà applicazione della regola di cui all'art. 2697, comma 1, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa.
NOTA
La Corte di appello di Catanzaro, in sede di reclamo ex l. n. 92/2012, confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto l'impugnativa proposta da un lavoratore avverso un licenziamento asseritamente intimato in forma orale. Secondo la Corte di merito, il dipendente aveva assolto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto, mentre non erano state provate le dimissioni dedotte dalla società datrice di lavoro.
Avverso tale sentenza la società propone ricorso per cassazione lamentando la violazione dell'art. 2697 c.c. nella parte in cui la Corte di appello ha posto a carico del datore di lavoro l'onere di provare le dimissioni del lavoratore nonostante non vi fosse prova certa dell'avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento.
La Cassazione accoglie il ricorso, rilevando come effettivamente in sede di legittimità vi siano disarmonie in tema di riparto degli oneri probatori in tema di licenziamento orale. Invero, secondo un orientamento più risalente, poiché il fatto costitutivo del diritto alla reintegrazione è, secondo la l. n. 300/70, il "licenziamento" attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, la prova che grava sul lavoratore che chieda la reintegrazione è solo quella della sua "estromissione" dal rapporto, mentre le asserite dimissioni del lavoratore assumono valenza di eccezione in senso stretto e devono essere provate dalla parte che la deduce (Cass. n. 2853/1995 e più di recente Cass. nn. 14082/2010 e 21684/2011). Secondo un diverso indirizzo, invece, è stato rilevato come il termine "estromissione" sia sinonimo di "espulsione" e, quindi, di "licenziamento", pertanto, ai sensi dell'art. 2697 c.c., la parte che deduca di essere stata licenziata, anche oralmente, ha l'onere di fornire la prova di detto recesso (Cass. n. 12520/2000). Per entrambi gli orientamenti, in ogni caso, l'indagine del giudice deve essere particolarmente rigorosa nell'apprezzamento del materiale probatorio laddove si voglia dimostrare che il lavoratore abbia rinunciato al posto di lavoro, quale bene primario (Cass. nn. 6900/2016 e 15556/2016).
Così delineato il quadro della giurisprudenza, la Cassazione nella pronuncia in oggetto, ritiene di aderire al secondo indirizzo affermando che, in tema di ripartizione dell'onere probatorio in caso di dedotto licenziamento orale, la prova gravante sul lavoratore circa la "estromissione" dal rapporto non coincide con la semplice "cessazione del rapporto" di lavoro ma con un atto volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo (Cass. n. 31501/2018). Conseguentemente, chi deduce giudizialmente di essere stato licenziato oralmente, ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti. Ciò in quanto la mera cessazione nell'esecuzione dell'attività lavorativa non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza dal significato polivalente, in quanto può costituire l'effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. Nel caso residuale, poi, in cui perduri una incertezza probatoria, opererà la regola di cui all'art. 2697 c.c. in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta, anche se non risultino provate neppure le dimissioni eccepite dal datore di lavoro, in ossequio al principio processuale secondo cui l'onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l'attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda (Cass. nn. 3642/2004 e 13390/2007).
Alla stregua dei princìpi affermati, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di appello, nella parte in cui aveva ritenuto sufficiente, ai fini dell'accoglimento della domanda di impugnativa del licenziamento orale, che la cessazione del rapporto fosse non contestata e che mancasse la prova delle dimissioni dedotte dal datore di lavoro.

Lavoro subordinato e codatorialità

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2019, n. 3899

Pres. Napoletano; Rel. Garri; Ric. C.G.C.S.A.S.D.G.D.&C.I.L.+3; Controric. D. F.;

Lavoro subordinato – Codatorialità – Requisiti – Conseguenze – Responsabilità solidale dei diversi soggetti che rivestono la posizione di datore – Sussistenza

Si ha unicità del rapporto di lavoro qualora uno stesso lavoratore presti contemporaneamente servizio per due datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta nell'interesse di un datore di lavoro e quale nell'interesse dell'altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di siffatta attività devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, ai sensi dell'art. 1294 cod. civ. che stabilisce una presunzione di solidarietà in caso di obbligazione con pluralità di debitori, ove dalla legge o dal titolo non risulti diversamente
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Roma aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice dalla società datrice e condannato quest'ultima, in solido con le altre società convenute, alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento di un'indennità risarcitoria parametrata alle retribuzioni globali di fatto tra la data del licenziamento e l'effettiva reintegra.
La Corte territoriale, infatti, aveva accertato che la lavoratrice era stata licenziata in un periodo in cui la legge lo vieta: la stessa, infatti, aveva comunicato il suo stato di gravidanza circa un anno prima dell'intimazione del licenziamento e, quindi, il bambino aveva all'epoca meno di un anno.
Secondo la Corte d'Appello, la deroga al divieto di licenziamento nel periodo di cui sopra dovuta alla cessazione dell'attività dell'azienda datrice non poteva dirsi applicabile al caso di specie in quanto esisteva, nei fatti, una situazione di cd. codatorialità. Secondo la Corte, infatti, pur non essendo ravvisabile un vero e proprio gruppo aziendale tra le società convenute, era risultato che la lavoratrice avesse prestato la sua attività in favore di tutte le convenute e ricevuto direttive da soggetti appartenenti alle diverse società.
L'attività aziendale, dunque, non poteva ritenersi – secondo la Corte – cessata nel suo complesso, in quanto solo la società datrice di lavoro in senso formale si trovava in tale situazione.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponevano ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro e le altre società condannate in appello, sulla base di vari motivi, sostanzialmente consistenti nella mancata prova da parte della lavoratrice dell'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro e della conseguente applicabilità della deroga al divieto di licenziamento di cui sopra.
La Suprema Corte ha però respinto il ricorso e le argomentazioni delle società.
In particolare, la Cassazione ha evidenziato come fosse stato provato che la lavoratrice aveva, per oltre dieci anni e contestualmente, svolto la propria attività lavorativa in favore di tutte le società convenute. Secondo la Suprema Corte «si ha unicità del rapporto di lavoro qualora uno stesso lavoratore presti contemporaneamente servizio per due datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta nell'interesse di un datore di lavoro e quale nell'interesse dell'altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di siffatta attività devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, ai sensi dell'art. 1294 cod. civ. che stabilisce una presunzione di solidarietà in caso di obbligazione con pluralità di debitori, ove dalla legge o dal titolo non risulti diversamente». La Corte di Cassazione, poi, ha anche avuto modo di precisare che in ambito lavoristico sussiste una "concezione realistica" di datore di lavoro, intendendosi come tale il soggetto che effettivamente utilizza la prestazione di lavoro e che ben può esistere un rapporto di lavoro in cui, come nel caso di specie, più soggetti occupano la posizione di datore di lavoro.
Conseguentemente, sempre secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto le società convenute solidalmente responsabili delle obbligazioni connesse al rapporto di lavoro ed escluso l'applicabilità dell'invocata deroga al divieto di licenziamento, essendo pacifico che la cessazione dell'attività era riferibile soltanto alla datrice di lavoro formale della lavoratrice.

La responsabilità solidale del committente nei contratti di appalto

Cass. Sez. Lav. 13 febbraio 2019, n. 4237

Pres. Bronzini; Rel. Patti; Ric. S.M.; Controric. T.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto – Appalto - Norme applicabili - Rapporti con i terzi - Responsabilità solidale - Escussione preventiva - Ammissibilità

Nella successione delle disposizioni diversamente regolanti, alla stregua di solidarietà in senso stretto ovvero sussidiaria (per la previsione di un beneficio di escussione), in caso di appalto di opere o di servizi, la responsabilità del committente imprenditore o datore di lavoro con l'appaltatore, ai sensi dell'art. 29, secondo comma d.lg. 276/2003, si applica, per la sua natura sostanziale, il regime di solidarietà vigente al momento di assunzione dell'obbligazione, e quindi di insorgenza del credito del lavoratore.
NOTA
Nel caso di specie, dei lavoratori, sulla base di decreti ingiuntivi di vario ammontare, avevano iniziato una procedura esecutiva nei confronti della Società committente, a titolo di responsabilità solidale, ai sensi dell'art. 29 d.lg. 276/2003, per un credito relativo a indennità una tantum contrattualmente dovuta dall'appaltatore. La Corte d'appello aveva rigettato gli appelli dei lavoratori in accoglimento dell'opposizione della società committente, dichiarando illegittima l'esecuzione presso terzi in suo danno, non sussistendo alcun diritto di procedere in via esecutiva nei confronti della società terza, in difetto della previa escussione del patrimonio della società appaltatrice, datrice di lavoro dei procedenti, in applicazione dell'art. 29, secondo comma d.lg. 276/2003 nel testo sostituito dalla l. 92/2012, vigente ratione temporis, avendone accertata la responsabilità solidale.
I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione lamentando «violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1292 c.c., 29, secondo comma d.lg. 276/2003, 4, comma 31, lett. b) l. 92/2012, 11 disp. prel. c.c., per inapplicabilità del testo dell'art. 29, secondo comma d.lg. come sostituito dalla l. 92/2012 e quindi del beneficio di escussione introdotto dopo la conclusione dell'appalto e la maturazione dei crediti posti in esecuzione dai lavoratori».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo che il regime di solidarietà nelle obbligazioni ha natura sostanziale, e ciò «comporta la naturale applicazione della legge vigente al momento dell'assunzione dell'obbligazione: non alterando un tale regime normativo la previsione del beneficio di escussione, in quanto mera modalità di realizzazione della "garanzia" per il creditore della solidarietà esclusivamente in fase esecutiva».
La Corte di legittimità ha quindi affermato che «se la disciplina normativa è quella vigente al momento dell'assunzione dell'obbligazione, questo deve essere individuato, nel caso di specie, non già all'atto della stipulazione dell'appalto, che costituisce il rapporto istitutivo del regime di solidarietà (tra committente imprenditore o datore di lavoro e appaltatore), ma della maturazione del credito, essendo la committente obbligata in solido con l'appaltatore per i trattamenti retributivi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto. Tanto meno, essa potrebbe essere individuata nel momento di esigibilità del credito (…) in quanto elemento accidentale e non costitutivo dell'obbligazione "garantita" del regime di solidarietà».
Tanto chiarito, la Corte di Cassazione conclude affermando che «la disciplina correttamente applicabile è pertanto quella secondo cui: "In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. (…) Ove convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore, il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore».

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