Contenzioso

Condotta datoriale vessatoria

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e permessi sindacali
Licenziamento per giusta causa
Revoca del licenziamento
Condotta datoriale vessatoria
Abuso dei permessi ex legge 104 e agenzia investigativa


Licenziamento disciplinare e permessi sindacal i

Cass. Sez. Lav. 20 febbraio 2019, n. 4943

Pres. Napoletano; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.O. S.r.l.; Controric. F.Z.;

Licenziamento disciplinare - Assenza per fruizione di permessi sindacali ex art. 30 St. Lav. - Controllo datoriale sul legittimo utilizzo dei permessi - Ammissibilità - Svolgimento da parte del dirigente di attività avulse dalle finalità del permesso - Sanzionabilità

Mentre le attività in genere necessarie per l'espletamento del mandato sindacale non sono controllabili, ma comunque censurabili specie laddove si accerti che il permesso (anche ex art. 23 L. n. 300\70) venga utilizzato per fini personali, la partecipazione alle riunioni degli organi direttivi - per cui sono concessi i permessi ex art. 30 St. Lav. - può essere naturalmente controllabile ed, in caso di accertata mancata partecipazione, certamente sanzionabile.
NOTA
La Corte d'appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente per avere, nel corso di quattro giornate di assenza per permessi sindacali, svolto attività ricreative ed avulse dalle finalità dei permessi accordati, in particolare non partecipando alle riunioni degli organismi sindacali per i quali i permessi erano stati richiesti. La Corte condannava, pertanto, la società alla reintegrazione del lavoratore ed al risarcimento del danno parametrato a 12 mensilità.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione censurandola laddove si è ritenuto che la qualificazione dei permessi - richiesti ex art. 23 o 30 dello Statuto dei Lavoratori - sarebbe irrilevante, dato che, nel caso di permessi ex art. 23, il datore di lavoro, stante il tenore della norma, non poteva svolgere alcun controllo, mentre il mancato svolgimento dell'attività sindacale di cui al permesso ex art. 30, se dimostrato, avrebbe al più consentito alla società di chiedere la restituzione delle somme retribuite corrisposte nei giorni in contestazione, senza conseguenze sul piano del rapporto di lavoro.
La Suprema Corte accoglie la doglianza affermando il principio di cui alla massima, già parzialmente sancito in alcuni precedenti (Cass. 14 gennaio 2003, n. 454; Cass. 7 aprile 2001, n. 5223; Cass. 15 dicembre 1999, n. 14128; Cass. 20 novembre 1997, n. 11573). Richiamando altre pronunzie (Cass. 24 marzo 2001, n. 4302), la Cassazione precisa che i permessi previsti dall'art. 30 St. Lav. per i dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali possono essere utilizzati soltanto per la partecipazione a riunioni degli organi direttivi, come risulta dal raffronto con la disciplina dei permessi ex art. 23 per i dirigenti interni, collegati genericamente all'esigenza di espletamento del loro mandato; ne consegue che l'utilizzo per finalità diverse dei permessi ex art. 30 giustifica la cessazione dell'obbligo retributivo da parte del datore di lavoro, che è abilitato ad accertare l'effettiva sussistenza dei presupposti del diritto. Inoltre, prosegue la Corte, l'indebita utilizzazione dei permessi rivela l'inesistenza di uno degli elementi costitutivi del diritto, pertanto, in caso di contestazione, qualora il lavoratore, su cui grava il relativo onere, non fornisca la prova dell'esistenza del diritto, trovano applicazione le regole ordinarie del rapporto di lavoro e l'assenza del dipendente è ritenuta mancanza della prestazione per causa a lui imputabile.
Sulla base di tali principi, avendo i giudici del merito accertato che il lavoratore durante i permessi retribuiti si è dedicato ad attività ricreative o personali del tutto avulse dai permessi ottenuti e, comunque, non ha partecipato alle riunioni degli organi direttivi dell'organizzazione sindacale per cui ottenne taluni dei permessi in questione, avrebbero dovuto ritenere giustificata, oltre che la trattenuta della retribuzione, l'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro in conseguenza della condotta abusiva.
La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio ad altro giudice per l'ulteriore esame necessario alla luce dei principi sopra esposti.


Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 7 febbraio 2019, n. 3655

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; Ric. S.E. S.p.a.; Controric. R.N.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Svolgimento di attività extra-lavorativa da parte del lavoratore durante la malattia - Violazione dei doveri di correttezza e buona fede - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie

Non è ipso facto illecito lo svolgimento da parte del dipendente, durante l'assenza per malattia, di attività lavorativa, ove questa sia compatibile con l'infermità denunciata e sia inidonea a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche.
NOTA
La società proponeva reclamo avverso la sentenza del Tribunale che aveva accolto, con ordine di reintegra e diritto al risarcimento del danno, la domanda del dipendente volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento.
Nel caso in esame, il dipendente era stato licenziato perché nella serata dell'ultimo giorno di malattia era stato visto presso il ristorante-pizzeria della moglie, mentre provvedeva alla preparazione di pizze ed alla relativa cottura in forno, oltre che alla consegna di pizze da asporto ed incasso dei relativi pagamenti.
La Corte d'appello confermava la sentenza impugnata, considerando la condotta del dipendente legittima, essendo circoscritta a sole poche ore della sera dell'ultimo giorno di malattia; per la Corte l'attività svolta era compatibile con la malattia posto che nel corso del giudizio era stato accertato che lo svolgimento di tale attività non aveva comportato alcun aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la società, ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione, lo svolgimento di attività lavorativa del dipendente durante l'assenza per malattia non è di per se illegittima, gravando sul lavoratore assente per malattia l'onere di dimostrare la compatibilità del lavoro svolto presso terzi con l'infermità e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche. La sentenza impugnata si è conformata all'orientamento prevalente, per cui l'assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all'ipotesi dell'insussistenza del fatto contestato che prevede come sanzione la reintegra nel posto di lavoro.
In conclusione, per la Suprema Corte la sentenza impugnata ha accuratamente valutato il fatto in esame alla luce dei predetti principi, avendo accertato ed evidenziato che il fatto contestato non solo era circoscritto a due sole ore della sera dell'ultimo giorno di malattia ma risultava anche compatibile con la malattia e non aveva comportato alcun aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro.

Revoca del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 7 febbraio 2019, n. 3647

Pres. Napoletano; Rel. Marchese; P.M. Celeste; Ric. M.F.M. S.p.A.; Controric. A.D.C.;

Licenziamento individuale – Revoca del licenziamento – Accettazione della revoca – Necessità forma scritta – Esclusione – Libertà di forma – Comportamenti taciti – Ammissibilità.

La revoca del licenziamento non richiede la forma scritta, atteso il principio per cui i negozi risolutori degli effetti di atti che richiedono la forma scritta (come il licenziamento), non sono assoggettati ad identici requisiti formali in ragione dell'autonomia negoziale. Per le medesime ragioni, è libera anche la forma dell'accettazione, da parte del lavoratore, della revoca del licenziamento, che può avvenire anche in forma tacita.
NOTA
Un dipendente di una società appaltatrice, dopo essere aver ricevuto un recesso per giusta causa, veniva, da un lato, inserito nella lista (comunicata al committente) dei dipendenti in forza e, dall'altro, licenziato per cessazione del contratto di appalto, con invito a prendere contatti con la società subentrante nell'appalto.
Il licenziamento per giusta causa, impugnato in via d'urgenza dal lavoratore, era revocato dal datore di lavoro nell'ambito di una conciliazione giudiziale.
Il dipendente agiva in giudizio al fine di sentir accertare, nei confronti della società subentrante nell'appalto, il proprio diritto all'assunzione, con conseguente condanna alla costituzione del rapporto o, in subordine, al risarcimento del danno.
La Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso ritenendo che, al momento del subentro della convenuta nell'appalto, il dipendente fosse ancora in forza presso la precedente appaltatrice e che, quindi, rientrasse tra i soggetti che l'azienda subentrante aveva l'obbligo di assumere. In particolare, a giudizio della Corte territoriale, il licenziamento disciplinare doveva considerarsi inefficace proprio in ragione del fatto che, successivamente, il ricorrente fosse stato indicato tra i dipendenti ancora in forza, che gli venisse irrogato un nuovo recesso per giustificato motivo oggettivo. Tali circostanze, unitamente alla successiva revoca del primo licenziamento, costituivano elementi probatori gravi, precisi e concordanti.
Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione la società; il dipendente resisteva con controricorso.
Per quel che interessa ai fini della presente nota, l'azienda lamentava violazione degli artt. 2118 e 2119 c.c., sostenendo che gli effetti del licenziamento per giusta causa sarebbero potuti venir meno solo ex tunc, cioè dal momento del relativo annullamento e/o della revoca, non già retroattivamente.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza di merito che ha ritenuto che il datore avesse revocato per facta concludentia il licenziamento disciplinare prima dell'irrogazione del recesso per giustificato motivo oggettivo, consistente nella perdita del contratto di appalto. Sul punto, è stato ribadito il principio di diritto (già affermato, tra le altre, in Cass. 5929/2008) secondo cui la revoca del licenziamento non richiede la forma scritta, atteso il principio per cui i negozi risolutori degli effetti di atti che richiedono la forma scritta (come il licenziamento) non sono assoggettati ad identici requisiti formali in ragione dell'autonomia negoziale, di cui la libertà di forma costituisce, in mancanza di diversa prescrizione di legge, significativa espressione. Per le medesime ragioni, è libera anche la forma dell'accettazione, da parte del lavoratore, della revoca del licenziamento, che può avvenire anche in forma tacita o presunta.

Condotta datoriale vessatoria

Cass. Sez. Lav. 19 febbraio 2019, n. 4815

Pres. Bronzini; Rel. Ponterio; Ric. P.R. S.p.A.; Controric. Z.G.

Condotta datoriale vessatoria – Ripetute offese sulla presunta omosessualità di un dirigente – Danno alla reputazione – Sussiste

Anche nel caso di lesione di diritti inviolabili della persona il danno non patrimoniale non può mai ritenersi "in re ipsa", ma dev'essere analiticamente allegato e provato dalla parte che lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici.
La Corte di Appello di Venezia confermava la sentenza di primo grado con la quale la società datrice, esercente un pastificio, era stata condannata al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al dipendente, con qualifica dirigenziale, a causa della condotta offensiva e vessatoria posta in essere dal legale rappresentante della società medesima.
In particolare, la Corte territoriale escludeva il carattere scherzoso degli epiteti con i quali il legale rappresentante della società era solito apostrofare il dipendente - sistematicamente appellato col termine "finocchio"- ritenendo che la condotta datoriale, ripetutamente posta in essere dal titolare della società nei confronti di un dipendente che, sebbene avesse la qualifica dirigenziale, si trovava comunque in una condizione di inferiorità gerarchica, esprimesse un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e, quindi, di lesione della personalità morale del lavoratore.
La Corte territoriale riteneva, inoltre, congruo il criterio di liquidazione del danno non patrimoniale adottato dal giudice di prime cure, osservando al riguardo che il lavoratore aveva puntualmente allegato il danno subito e che lo stesso risultava provato per presunzioni.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice sulla base di due motivi.
In primo luogo, la società criticava la sentenza impugnata per non aver colto il carattere scherzoso degli epiteti coi quali il legale rappresentante apostrofava il dipendente in un clima cameratesco, nonché per avere letto, in modo illogico e contraddittorio, la mancata reazione del dipendente in dette circostanze come sopportazione di un'offesa anziché come riflesso della irrilevanza ed inoffensività della condotta datoriale, senza considerare neanche come il dipendente fosse rimasto a lavorare alle dipendenze della società per circa dieci anni, arrivando a ricoprire una importante posizione dirigenziale.
Con riguardo al profilo risarcitorio, parte ricorrente rilevava che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto integrata la prova presuntiva del danno, confermando la liquidazione equitativa dello stesso effettuata dal tribunale, pure a fronte della totale carenza di allegazione e prova circa l'esistenza del danno, la gravità della lesione e/o la serietà del pregiudizio patito dal lavoratore a causa della condotta datoriale.
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha osservato che la Corte territoriale, una volta ricostruita la condotta inadempiente posta in essere dalla parte datoriale, aveva correttamente ritenuto il danno non patrimoniale provato in via presuntiva.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto precisato che il danno non patrimoniale non possa mai ritenersi "in re ipsa" ma debba essere debitamente allegato e provato dalla parte che lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici.
La Suprema Corte ha, altresì, osservato che, come hanno affermato le Sezioni Unite nella sentenza n. 26972 del 2008, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, purchè sussistano le seguenti tre condizioni: a) che l'interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi (Cass., SS.UU. 11 novembre 2008, n. 26972).
La Suprema Corte ha, pertanto, ritenuto che i giudici di appello si fossero coerentemente uniformati al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla stregua del quale l'obbligo di tutela di interessi non patrimoniali, presidiati da diritti inviolabili della persona, quali appunto quello alla salute ed alla personalità morale, deve ritenersi veicolato nel contratto di lavoro dall'art. 2087 c.c., con la conseguenza che ove l'inadempimento abbia provocato la lesione di tali diritti, il datore di lavoro deve ritenersi tenuto al risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. SS.UU. 11 novembre 2008, n. 26972).
In relazione al danno recato alla reputazione, da inquadrare nella categoria del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., i giudici di legittimità hanno chiarito che lo stesso, da intendersi in termini unitari, senza distinguere tra "reputazione personale" e "reputazione professionale" non concepibili alla stregua di beni diversi, trova il fondamento della propria tutela nell'art. 2 Cost. ed, in particolare, nel rilievo che tale norma attribuisce alla dignità della persona in quanto tale (Cass. 25 agosto 2014, n. 18174).
Applicando tali principi al caso di specie la Suprema Corte ha rilevato che correttamente i giudici di appello avevano ritenuto che le offese ripetute nel tempo avessero arrecato concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore ed alla sua reputazione, tenuto conto del fatto che gli epiteti spregiativi rivolti dall'amministratore delegato della società nei confronti del dipendente erano ripetuti alla presenza dei colleghi ed in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire.

Abuso dei permessi ex legge 104 e agenzia investigativa

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2019, n. 4670

Pres. Nobile; Rel. Marotta; Ric. P.R.; Controric. F. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Uso improprio dei permessi ex art. 33 legge 104 del 1992 - Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa - Legittimità - Condizioni - Fattispecie.

Il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un'agenzia investigativa, finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge n. 104/1992 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non riguarda l'adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento di un lavoratore che aveva indebitamente utilizzato i permessi ex art. 33 L. n. 104/1992 per svolgere attività varie di tipo personale, anziché prestare assistenza al familiare per il quale usufruiva dei suddetti permessi. Tale circostanza era stata accertata dal datore di lavoro tramite ricorso ad un'agenzia di investigazione privata.
Il licenziamento veniva dichiarato legittimo sia in primo che secondo grado. In particolare, la Corte d'Appello di Napoli riteneva pienamente fondati gli addebiti alla base del licenziamento, nonché legittimo il controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi ex L. n. 104/1992, dal momento che lo stesso non riguardava l'adempimento della prestazione, essendo effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere tale prestazione.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha rigettato il ricorso, ribadendo innanzitutto che i controlli demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative non sono preclusi ai sensi degli artt. 2 e 3 St. Lav., laddove non riguardino l'adempimento della prestazione lavorativa, ma siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo (v. da ultimo Cass. n. 22196/2018). Inoltre, prosegue la Corte, è giustificato l'intervento delle agenzie in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione da parte del lavoratore (v. Cass. n. 848/2015).
Infine, conclude la Corte, è da ritenersi legittimo tale controllo durante i periodi di sospensione del rapporto, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro, che permane nonostante la sospensione. La Corte ha in particolare richiamato anche la sentenza Cass. n. 4984/2015, secondo cui il comportamento del prestatore di lavoro subordinato, che si avvalga dei permessi ex L. n. 104/1992 non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, ed integra nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale.
Per tali motivi la Corte di Cassazione, come anticipato, ha rigettato il ricorso del lavoratore.

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