Contenzioso

Pubblico impiego, la Cassazione fa il punto sulla successione di contratti a termine

di Angelina Turco

La Corte di cassazione, con le sentenze 9114, 9115, 9116 del 2 aprile 2019, fa il punto sugli effetti della successione e della mancata conversione di contratti a termine nel pubblico impiego.

La vicenda dalla quale muovono le sentenze è la medesima, ovvero: una lavoratrice assunta dalla Regione Valle d'Aosta, in forza di una pluralità di contratti a tempo determinato, succedutisi nel tempo, ha proposto ricorso al giudice del lavoro, in primo luogo per far dichiarare, previo accertamento della illegittimità del termine, la trasformazione dei contratti in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in secondo luogo per ottenere la corresponsione delle somme non percepite nei periodi di interruzione del rapporto di lavoro tra i singoli contratti e, da ultimo, per il risarcimento dei danni derivati dall'abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato e patiti in conseguenza del comportamento illegittimo tenuto dalla Regione.

La vicenda, giunta in Cassazione, offre ai supremi giudici l'occasione di fare il punto e tracciare i tratti fondamentali del quadro normativo e giurisprudenziale sul tema, che in questa sede vengono riepilogati sinteticamente.
In primo luogo viene ricordato che il principio sancito dall'articolo 97 della Costituzione, dell'accesso mediante concorso all'impiego presso la pubblica amministrazione, giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione delle norme imperative conseguenze solo risarcitorie e patrimoniali in luogo della conversione del rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati (Corte costituzionale 89/2003).

Un altro principio ribadito dalle sentenze è che il concorso pubblico costituisce la modalità generale e ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, anche delle Regioni, pure se a statuto speciale. L'eccezionale possibilità di derogare per legge al principio del concorso per il reclutamento del personale (articolo 97, comma 3, della Costituzione) deve rivelarsi funzionale al buon andamento dell'amministrazione e corrispondere a "straordinarie esigenze d'interesse pubblico" (tra le altre Corte costituzionale 211 e 134 del 2014).

I giudici della Cassazione ricordano (come ribadito anche dalla Corte di giustizia europea - sentenza 7 marzo 2018, C-494/16), che l'Accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999 non istituisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato e lascia un certo potere discrezionale in materia agli Stati membri. Di conseguenza l'Accordo «non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che tali contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico. Tuttavia, affinché una normativa nazionale che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all'Accordo quadro, l'ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un'altra misura effettiva destinata a evitare e se del caso a sanzionare, l'utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato».

Le sentenze della Cassazione concludono cristallizzando il principio, già espresso in precedenza dai medesimi giudici, secondo il quale «in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'articolo 1223 c.c.» (Cassazione 5072/2016).

Per quanto riguarda la pretesa concernente le retribuzioni per gli intervalli non lavorati, l'esclusione della possibilità di conversione dei contratti di lavoro a termine in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato rende i singoli contratti del tutto autonomi. La possibilità di riconoscere la retribuzione per gli intervalli non lavorati presuppone l'unicità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e dunque una conversione che non è configurabile nella specie.

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