Contenzioso

Prove bocciate nel processo: il licenziamento non regge

di Aldo Bottini

Le denunce anonime non sono una prova. Le email dei dipendenti vanno prodotte in giudizio nel rispetto delle norme sulla privacy e delle procedure sull’uso degli strumenti di lavoro. Le testimonianze scritte di colleghi vanno confermate oralmente. Sono questi alcuni “paletti” che le aziende devono rispettare nell’acquisizione di prove idonee a supportare in giudizio un licenziamento per ragioni soggettive o una sanzione disciplinare. In questi casi, l’onere di provare il fatto illecito che sta alla base del provvedimento disciplinare spetta al datore di lavoro. Se quest’ultimo non riesce a portare prove solide e valide, la causa è persa.

L’acquisizione delle prove

Nei giudizi di lavoro (come nei giudizi civili in generale) vige il cosiddetto principio dispositivo: il giudice non ricerca le prove di propria iniziativa, ma decide in base alle prove proposte dalle parti. Non basta, però, che le prove ci siano e siano correttamente articolate in causa fin dal primo atto difensivo, come le regole del processo del lavoro impongono. È fondamentale che le prove siano state ottenute legittimamente. Questo vale soprattutto nel caso, sempre più frequente, in cui le prove a carico del lavoratore consistano nel risultato di indagini, controlli o vere e proprie investigazioni, il cui risultato rischia di essere vanificato se non sono state rispettate le regole.

Già lo Statuto dei lavoratori del 1970 poneva limiti ai controlli sui lavoratori, vietando in linea di massima i controlli occulti. Ne erano seguiti infiniti dibattiti sulla ammissibilità in giudizio di prove raccolte da agenzie investigative e “agenti provocatori” (ad esempio finti clienti).

La soluzione elaborata dalla giurisprudenza (non senza qualche contrasto) era stata quella di ammettere come prova il risultato di controlli occulti laddove questi fossero mirati a individuare condotte illecite e non l’adempimento o meno dell’obbligazione lavorativa. È la teoria dei «controlli difensivi». La questione si è fatta più complessa con l’avvento della normativa sulla privacy (oggi rafforzata dall’entrata in vigore del Gdpr e dalla conseguente riscrittura del Codice italiano) e con la nuova formulazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che secondo alcuni porta al superamento della teoria dei controlli difensivi.

L’uso in giudizio

Buona parte degli illeciti commessi sul posto di lavoro è scoperta e documentata, oggi, attraverso strumenti che consentono un controllo a distanza del lavoratore (email, accessi a internet, social media, localizzazioni, telecamere, sistemi gestionali e di comunicazione interna). Diventa dunque cruciale, per il loro utilizzo in causa, il rigoroso rispetto delle procedure e dei requisiti previsti dal nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori sui controlli a distanza.

Serve la preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa per i dispositivi che non possono essere considerati strumento di lavoro, e va comunque predisposta per tutti gli strumenti una policy idonea che informi compiutamente tutti i dipendenti delle modalità d’uso degli strumenti stessi e di effettuazione dei controlli.

Ma non basta. I controlli dovranno risultare, a una verifica a posteriori, rispettosi dei principi e delle disposizioni sulla privacy, espressamente richiamati dal nuovo testo dell’articolo 4 e che, in via generale, non permettono l’utilizzo di dati trattati illegittimamente. Quindi, quando si intende svolgere una verifica, devono essere rispettati i principi generali di liceità, proporzionalità, pertinenza e necessità dei trattamenti.

Lasciare una fonte di dati scoperta da un punto di vista formale (procedure) e sostanziale (bilanciamento degli interessi, gravità dei sospetti) mette a rischio la tenuta di una prova in giudizio e quindi l’esito del giudizio stesso, anche a fronte di fatti gravi (o gravissimi) e verificati.

Se, per fare un esempio di scuola, la condotta del dipendente è registrata ma la registrazione è ottenuta in modo non conforme alle norme, il dato non potrà essere usato. E la condotta (grave, reale) andrà impunita: se la prova su cui si basa è inutilizzabile, e l’onere della prova è del datore di lavoro, tolta la prova non rimane nulla a sorreggere il licenziamento o la sanzione. Se si tratta di un licenziamento, peraltro, si ricadrebbe nell’ipotesi dell’insussistenza del fatto (perché non provato), e la conseguenza potrebbe essere la reintegrazione del lavoratore, anche in ipotesi colpevole di gravi illeciti. L’unica strada rimarrebbe quella di far ricorso alla vecchia tesi dei controlli difensivi, sottratti come tali all’applicazione dell’articolo 4 (ma non della privacy). Una via incerta e scivolosa che ha conosciuto, negli anni, pronunce diverse e non sempre coerenti.

Leggi la check list delle prove

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©