Contenzioso

Niente stabilizzazione se ci si è dimessi da contratti a termine

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Il dipendente che si dimetta da una serie di contratti a termine di cui intenda fare valere la nullità in giudizio non può chiedere e ottenere la conversione degli stessi rapporti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, a meno che il proprio recesso non risulti nullo poiché viziato da errore, violenza o dolo. Rimane fermo, comunque, il diritto al mero accertamento dell'invalidità del termine e alle eventuali conseguenze economiche a ciò connesse.

Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l'ordinanza 7318/2019, decidendo sulla vicenda di un lavoratore che, dopo avere rassegnato le proprie dimissioni da alcuni contratti a termine stipulati con una nota società del settore comunicazione, ha agito in giudizio per vedere riconoscere la nullità di ciascun termine e, di conseguenza, l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato con l'ex datrice di lavoro.

Rigettato in primo grado, il ricorso del dipendente ha trovato accoglimento dalla Corte d'appello di Roma che, nel dichiarare la nullità del termine apposto a un contratto dal quale il lavoratore si era dimesso per ragioni personali, ne disponeva la conversione in un rapporto a tempo indeterminato, considerando le dimissioni rassegnate nell'ambito dell'impiego precario non idonee a manifestare la volontà del dipendente di recedere anche da un rapporto di lavoro stabile, la cui esistenza sarebbe stata accertata, con effetti retroattivi, nell'ambito di un giudizio successivo a tale manifestazione di volontà.

In sostanza, secondo la Corte d'appello, le dimissioni rassegnate nell'ambito di un contratto a termine valgono a porre fine al solo rapporto esistente al momento del recesso e alla cui cessazione sono espressamente finalizzate, senza che ciò possa avere alcun effetto sul diverso rapporto eventualmente accertato in sede di giudizio: per potere esplicare i propri effetti risolutori anche nei confronti del diverso rapporto a tempo indeterminato accertato in un momento successivo a quello delle dimissioni, le stesse avrebbero dovuto fare esplicito riferimento a tale ipotesi o comunque consentire una ricostruzione della volontà del lavoratore dalla quale risultasse chiara l'intenzione di risolvere un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

La Cassazione ha ribaltato le conclusioni rese in sede d'appello, chiarendo anzitutto come le dimissioni siano un atto negoziale e unilaterale del dipendente avente a oggetto diritti disponibili dello stesso e, in quanto tali, debbano essere ritenute valide a determinare la cessazione dell'intero rapporto lavorativo e anche, dunque, alla continuità del rapporto a tempo indeterminato la cui esistenza sia accertata successivamente dal giudice. E infatti, prosegue la Corte confermando un orientamento formatosi negli ultimi anni e che gli stessi giudici di legittimità definiscono oramai consolidato, il recesso dal rapporto di lavoro da parte del dipendente è un atto idoneo a produrre l'estinzione del rapporto indipendentemente dai motivi che lo hanno determinato, salvo gli stessi non siano viziati da errore, violenza o dolo.

Tuttavia, nel caso di dimissioni da un rapporto a termine di cui il lavoratore intenda successivamente chiedere la conversione in un rapporto a tempo indeterminato, non può parlarsi di errore nella determinazione della volontà per il solo fatto che l'accertamento della nullità del termine intervenga in un momento successivo a quello delle dimissioni: anche in questo caso, come già stabilito dalla Suprema corte con la sentenza 2751/2014, l'effetto risolutorio del rapporto dipende da un atto negoziale idoneo a precludere un'azione intesa alla conservazione dello stesso rapporto.

L'orientamento della Suprema corte, dunque, è tanto recente quanto fermo: fatta eccezione per i casi in cui siano inficiate da un vizio della volontà, quale ad esempio la minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro, le dimissioni hanno l'efficacia di impedire la conversione di un rapporto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato, non essendo a questo fine necessario accertare la volontà del lavoratore dimissionario di cessare o meno un rapporto precario o stabile. Al dipendente, pertanto, rimane il diritto all'accertamento dell'invalidità del termine apposto al contratto di lavoro, laddove permanga l'interesse alle conseguenze di ordine economico che da tale nullità parziale possano scaturire.

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