Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Rapporto di lavoro giornalistico
Licenziamento del dirigente
Violazione delle misure di sicurezza e onere della prova
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Transazione tra datore e lavoratore e efficacia sull'obbligazione contributiva

Rapporto di lavoro giornalistico

Cass. Sez. Lav. 9 aprile 2019, n. 9866

Pres. Manna; Rel. Calafiore; Ric. I.N.P.G.I.; Controric. A.G.I.S.P.A.;

Lavoro subordinato – Rapporto di lavoro giornalistico – Autonomia e Subordinazione – Carattere subordinato della prestazione – Condizioni

Il carattere subordinato della prestazione del giornalista presuppone la messa a disposizione delle energie lavorative dello stesso per fornire con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell'informazione, di cui assume la responsabilità, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura così la copertura di detta area informativa, contando per il perseguimento degli obbiettivi editoriali sulla disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, ciò che rende la sua prestazione organizzabile in modo strutturale dalla direzione aziendale
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello di Napoli aveva rigettato l'impugnazione proposta da I.N.P.G.I. avverso la sentenza di primo grado che, accogliendo l'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dalla parte ingiunta, aveva dichiarato insussistenti i rapporti di lavoro giornalistico subordinato di alcuni giornalisti che l'ente previdenziale, con apposito verbale di accertamento, aveva invece ritenuto e dichiarato sussistenti.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione l'ente previdenziale sulla base di un unico motivo, consistente nella asserita genericità delle motivazioni della sentenza della Corte d'Appello. Secondo l'ente, infatti, l'efficacia probatoria del verbale ispettivo avrebbe potuto essere vinta solo dalla prova rigorosa, a carico del datore di lavoro, dell'assenza della messa a disposizione delle energie lavorative dei giornalisti e della mancata continuità del vincolo e della messa a disposizione stessa. La società datrice di lavoro ha resistito con ricorso incidentale condizionato.
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le argomentazioni dell'ente.
In particolare, la Cassazione ha dapprima evidenziato come l'onere della prova in merito all'asserita subordinazione spettasse all'ente in qualità di attore e, successivamente, ha ribadito un suo costante orientamento in materia di lavoro giornalistico secondo il quale «il carattere subordinato della prestazione del giornalista presuppone la messa a disposizione delle energie lavorative dello stesso per fornire con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell'informazione, di cui assume la responsabilità, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura così la copertura di detta area informativa, contando per il perseguimento degli obbiettivi editoriali sulla disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, ciò che rende la sua prestazione organizzabile in modo strutturale dalla direzione aziendale». La Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva giustamente confermato la ripartizione dell'onere della prova sopra riportata (negando quindi che la prova della mancanza degli indici della subordinazione spettasse al datore di lavoro) ed aveva fatto corretta applicazione degli indici individuati dalla giurisprudenza e dai contratti collettivi nazionali di lavoro dei giornalisti, rilevando che le circostanze dedotte in sede ispettiva e le testimonianze raccolte in giudizio deponessero per l'assenza degli stessi. In particolare la Corte territoriale aveva rilevato che i giornalisti oggetto del verbale ispettivo oltre ad inviare notizie alla redazione della società parte del giudizio in esame, peraltro non quotidianamente, facevano lo stesso anche in favore di altre testate e comunque non avevano obblighi di presenza né assicuravano piena disponibilità.
Conseguentemente il ricorso principale è stato rigettato e il ricorso incidentale ritenuto assorbito.

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 11 marzo 2019, n. 6950

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Fresa; Ric. E.T.; Contr. I.I. S.p.A.;

Licenziamento dirigente – Giustificatezza – Differenza con giusta causa e giustificato motivo oggettivo – Motivazione fondata su ragioni non arbitrarie – Sufficienza.

In tema di licenziamento del dirigente, la nozione di giustificatezza del recesso non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento ex art. 1, l. n. 604/1966; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riferimento alla generalità dei rapporti di lavoro, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, essendo rilevante a tale fine qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente.
NOTA
La Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un dirigente a causa del rifiuto di quest'ultimo di sottoscrivere un progetto concordato con il datore di lavoro e che tale condotta fosse idonea a determinare l'interruzione del rapporto fiduciario.
Avverso tale pronunzia il dirigente propone ricorso per cassazione denunciando l'erroneità della sentenza sotto una serie di profili. In particolare, il ricorrente lamentava la violazione dell'art. 7, l. n. 300/1970, avendo la Corte di merito, ritenuto legittimo il recesso nonostante la violazione di garanzie procedimentali rilevabili d'ufficio, vertendosi in tema di nullità del recesso. La Cassazione respinge il motivo affermando che, posto che le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, l. n. 300/1970, sono applicabili anche al dirigente, se questi, però, in primo grado abbia impugnato il licenziamento sotto profili diversi dall'inosservanza della procedura, non può poi dedurre in appello la nullità del recesso per violazione del citato art. 7, in quanto tale ulteriore prospettazione del "petitum", comportando la deduzione di un'altra e diversa "causa petendi", con l'inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema d'indagine e di decisione, è preclusa dall'art. 437, co. 2, c.p.c. (Cass. 2 marzo 2006, n. 4614). Sul punto, prosegue la sentenza, anche di recente, la Cassazione ha ribadito che la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quelle generale dell'invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo; ne consegue che il giudice non può rilevare d'ufficio una ragione di nullità di licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione di cui all'art. 18, co. 7, l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012, nella parte in cui fa riferimento alla applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, dunque affetto da nullità "sulla base della domanda formulata dal lavoratore" (Cass. 24 marzo 2017, n. 7687). Con successivo motivo, il ricorrente denunciava la erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva ritenuto giustificato il recesso dovendosi, al contrario, secondo la prospettazione del lavoratore, ritenere illogico il riferimento, contenuto nella lettera di recesso, alla mancata sottoscrizione del progetto. Anche tale doglianza viene respinta sulla base di quanto ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, vale a dire che - considerata la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale - la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento ex art. 1, l. n. 604/1966; conseguentemente, fatti o condotte, non integranti la giusta causa o il giustificato motivo, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, essendo rilevante a tale fine qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. In conformità ai tali princìpi di diritto, la Cassazione, nel caso sottoposto al suo esame, ritiene corretta la valutazione dei giudici di merito che avevano rilevato come l'atteggiamento del dirigente di non sottoscrivere il progetto concordato con i vertici societari, avesse giustificato il venir meno del rapporto fiduciario.

Violazione delle misure di sicurezza e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 29 marzo 2019, n. 8911

Pres. Nobile; Rel. Marotta; Ric. T.; Controric. L.S.

Lavoro - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare – Obbligo di sicurezza – Eccezione di inadempimento – Onere della Prova – Misure nominate e innominate – Proporzionalità – Valutazione del giudice.

Il dipendente può rifiutarsi di svolgere la prestazione se il datore di lavoro omette di applicare le misure di sicurezza, ma è tenuto a provare la gravità e la rilevanza di questo inadempimento, qualora la violazione non riguardi precauzioni espressamente previste dalla legge e attenga agli obblighi generali fissati dall'art. 2087 del codice civile.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore impugnava i licenziamenti disciplinari – il primo con preavviso ed il secondo senza preavviso - intimatigli dalla Società a fronte del suo ripetuto rifiuto di condurre il treno senza la presenza in cabina di un secondo agente abilitato alla condotta. Il Tribunale annullava i licenziamenti ritenendo che il rifiuto della prestazione fosse giustificato dal dedotto inadempimento da parte della Società rispetto alle obbligazioni di sicurezza e riteneva fondata la prospettazione del ricorrente secondo cui il suddetto rifiuto di rendere la prestazione configurasse una legittima eccezione di inadempimento. La decisione veniva confermata in sede di opposizione e in sede di appello.
La Società ha proposto avverso tale sentenza ricorso per cassazione lamentando tra il resto «violazione o falsa applicazione degli artt. 1460, 2697 e 2087 cod. civ. lamentando che la Corte territoriale avesse erroneamente ritenuto assolto da parte del lavoratore l'onere di provare il fatto costitutivo dell'eccezione di inadempimento ovvero, nel caso in esame, la pretesa violazione delle previsioni di cui all'art. 2087 cod. civ.».
I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso ribadendo il consolidato orientamento che considera di natura contrattuale la responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell'art. 2087 cod. civ. Tale responsabilità è fonte di «obblighi positivi del datore di lavoro il quale è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l'inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa». In ogni caso, precisa la Corte, la responsabilità datoriale non è suscettibile ad essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti. L'art. 2087 cod. civ. non configura infatti un'ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
Posta, come detto, la rilevanza contrattuale dell'art. 2087 cod. civ., la Corte di legittimità ha ricordato che «sul piano della ripartizione dell'onere probatorio, al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito». Viene specificato però che tale onere si atteggia diversamente in relazione a misure previste espressamente dalla legge ("nominate") oppure ricavabili in via interpretativa dal generale obbligo di sicurezza ("innominate"). Per le misure c.d. nominate «il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno». Nel caso delle misure di sicurezza c.d. innominate «il datore di lavoro non è tenuto ad adottare ogni precauzione astrattamente possibile ma quelle che in concreto, in relazione alle caratteristiche dell'attività, alle mansioni del lavoratore, alle condizioni dell'ambiente esterno e di quello di lavoro, appaiono idonee ad evitare eventi prevedibili». Prosegue la Corte affermando che «il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando (…) i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico-sociale del contratto».
Nel caso di specie la società ha dimostrato di aver applicato tutte le misure di sicurezza "nominate"; invece con riferimento a quelle "innominate" «la Corte territoriale non ha effettuato l'indicata verifica comparativa».
In conclusione, la Corte di legittimità ha annullato la decisione rinviando ad altro collegio d'appello.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2019, n. 9458

Pres. Nobile; Rel. Leone; P.M. Celeste; Ric. O.S. S.r.l.; Controric. C.S.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Comporto c.d. "prolungato" – Intimazione del licenziamento prima della scadenza del periodo – Nullità

Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto, fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110 comma 2 c.c..
NOTA
La Corte di appello di Messina, riformando la sentenza del Tribunale, dichiarava l'illegittimità del licenziamento irrogato al lavoratore, condannando la società datrice alla reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito aliunde dal lavoratore durante il periodo di estromissione.
La Corte territoriale, dopo aver precisato che il lavoratore era stato licenziato per superamento del periodo di comporto c.d. "breve" di 183 giorni disciplinato dall'art. 2 del CCNL Metalmeccanici del 5 dicembre 2012, rilevava che la condizione del dipendente, sottoposto costantemente a trattamento di dialisi salvavita, doveva ritenersi riconducibile alla diversa ipotesi di comporto c.d. "prolungato", previsto dalla medesima disposizione richiamata per i casi in cui si fosse verificato un unico evento morboso con assenza ininterrotta.
La Corte di appello rilevava, inoltre, che la domanda proposta dal lavoratore per la prima volta in fase di opposizione, con la quale veniva richiesta l'applicazione del comporto prolungato previsto per i casi in cui alla "scadenza del periodo di comporto breve sia in corso una malattia con prognosi pari o superiore a 91 giorni di calendario", non poteva considerarsi una domanda nuova consistendo esclusivamente nella prospettazione di un diverso motivo di censura fondato sui medesimi fatti costitutivi della domanda formulata nella fase sommaria.
Nel merito, la Corte territoriale riteneva pertanto applicabile l'ipotesi di comporto prolungato previsto dalla disposizione citata, in ragione del fatto che al termine del periodo di comporto breve la malattia e lo stato di "dialitico trisettimanale" nel quale versava il dipendente aveva comportato una prognosi superiore ai 91 giorni in quanto finalizzata al trapianto renale. I giudici di appello dichiaravano quindi nullo il licenziamento intimato al lavoratore prima della scadenza di tale termine, applicando conseguentemente le tutele di cui all'art. 18, commi 1 e 2 della l. n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice affidato a quattro motivi di censura.
In particolare, la società eccepiva che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto ammissibile la domanda formulata dal lavoratore per la prima volta in sede di opposizione con la quale veniva richiesta l'applicazione del comporto c.d. "prolungato", in tal modo violando il comma 51 dell'art. 1 della legge n. 92/2012 che vieta la proposizione di domande nuove, salvo che siano fondate sui medesimi fatti costitutivi.
La società si duoleva altresì della violazione dell'art. 2110 c.c. ritenendo che la Corte territoriale avesse erroneamente considerato nullo - e non già inefficace - il licenziamento intimato al lavoratore prima della scadenza del periodo di comporto.
La Suprema Corte rigettava tali motivi di ricorso.
La Suprema Corte, richiamando precedenti conformi in subiecta materia sia della Corte Costituzionale (cfr. Corte Costituzionale 13 maggio 2015, n. 78) che dei giudici di legittimità (cfr. Cass. 21 novembre 2017, n. 27655; Cass. SS.UU. 18 settembre 2014, n. 19674), ha rilevato che nel rito c.d. Fornero il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase a cognizione piena che della precedente costituisce una prosecuzione, con la conseguenza che non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della "causa petendi", la deduzione nella fase di opposizione di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato.
Alla luce di tali principi la Suprema Corte ha ritenuto pertanto infondata la relativa censura formulata dal ricorrente rilevando che poiché i fatti inerenti il licenziamento impugnato erano stati dedotti dal lavoratore sin dalla fase sommaria del procedimento, alcun elemento di novità poteva ravvisarsi nella differente qualificazione giuridica dei medesimi fatti operata dalla Corte territoriale.
Sotto altro profilo, con riferimento alle conseguenze del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto la Suprema Corte ha ritenuto corretta la determinazione del giudice di appello circa l'accertata nullità del licenziamento in questione, alla stregua del recente orientamento espresso dalle Sezioni Unite della medesima Corte secondo cui il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110 comma 2 c.c. (cfr. Cass. SS. UU. 22 maggio 2018, n. 12568).
La Suprema Corte ha invece cassato la sentenza di appello, con rinvio alla Corte di appello di Catania, con riferimento alla statuizione con la quale la Corte territoriale, a seguito dell'accertata nullità, ha ritenuto applicabili le tutele previste dall'art. 18, commi 1 e 2 della legge n. 300 del 1970 in luogo di quella prevista dal comma 7 della medesima norma. Tale ultima disposizione dispone infatti che nella specifica ipotesi di licenziamento ingiustificato perché intimato in violazione dell'art. 2110 secondo comma c.c., il giudice applichi la disciplina di cui al quarto comma e, quindi, annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, in misura non superiore comunque a dodici mensilità, anche deducendo l' "aliunde perceptum".

Transazione tra datore e lavoratore e efficacia sull'obbligazione contributiva

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2019, n. 8662

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; Ric. S. S.r.l.; Controric. C.B.; Int. R.C.; Res. I.N.P.S.

Previdenza (assicurazioni sociali) Rapporto di lavoro - Controversia in ordine all'obbligazione retributiva - Transazione tra datore di lavoro e lavoratore - Efficacia riflessa nei confronti dell'obbligazione contributiva - Esclusione - Azionabilità del credito contributivo da parte dell'I.N.P.S. - Onere probatorio a carico dell'Istituto - Portata - Fattispecie.

In caso di transazione intercorsa tra datore di lavoro e lavoratore, poiché l'obbligazione contributiva rimane insensibile agli effetti della transazione stessa, l'INPS può azionare il credito contributivo provando - con qualsiasi mezzo ed anche in via presuntiva, dallo stesso contratto di transazione e dal contesto dei fatti in cui è inserito - quali siano le somme assoggettabili a contribuzione spettanti al lavoratore.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce che il rapporto previdenziale ha natura autonoma e distinta rispetto al rapporto di lavoro ad esso sotteso e, per tale motivo, l'obbligo contributivo sussiste indipendentemente dal fatto che le obbligazioni retributive siano state in tutto od in parte soddisfatte, ovvero siano state rinunciate dal lavoratore, anche nell'ambito di una transazione novativa.
Nel caso di specie, la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza di prime cure, aveva condannato il datore al pagamento in favore di un dipendente di somme di denaro a titolo di differenze retributive, T.F.R. e risarcimento del danno da omissione contributiva, condannando, altresì, la società al pagamento in favore dell'I.N.P.S. dei contributi relativi alle predette differenze retributive.
Successivamente alla pronunzia della sentenza d'appello, la società e il lavoratore sottoscrivevano una transazione novativa, con la quale dichiaravano di voler comporre bonariamente i contenziosi tra loro pendenti, prevenendo possibili future liti, senza alcun riconoscimento delle pretese avanzate dal dipendente in relazione al rapporto di lavoro intercorso.
Sulla scorta della predetta transazione, il datore proponeva, quindi, ricorso avanti alla Suprema Corte, asserendo che, in ragione della sottoscrizione del sopramenzionato accordo conciliativo col lavoratore, non fosse dovuto alcun contributo all'I.N.P.S., dovendosi, invece, dichiarare la cessazione della materia del contendere e, per l'effetto, l'estinzione del relativo giudizio.
La Cassazione dichiara cessata la materia del contendere tra il prestatore e la società datrice, statuendo, altresì, l'inammissibilità del ricorso promosso dal datore nei confronti dell'I.N.P.S., per sopravvenuta carenza d'interesse ad impugnare: «avendo la transazione inter partes eliminato dal mondo giuridico il pregresso accertamento giudiziale, presupposto dell'obbligo contributivo alla base della statuizione di condanna in favore dell'I.N.P.S., è venuto meno anche l'interesse della società alla relativa impugnazione nei confronti dell'istituto previdenziale».
Difatti - puntualizza il Collegio - se è vero che la transazione posta in essere tra le parti di un rapporto di lavoro non estende la propria efficacia anche sull'afferente rapporto previdenziale - essendo quest'ultimo giuridicamente distinto dal primo e facendo capo ad un soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro - e che, dunque, l'obbligazione previdenziale sorge con l'instaurarsi del rapporto lavorativo, ma ne è del tutto autonoma - sussistendo indipendentemente dal fatto che le obbligazioni retributive nei confronti del lavoratore siano state in tutto od in parte soddisfatte, ovvero che quest'ultimo abbia rinunciato ai suoi diritti, col corollario che «ciò che viene meno in conseguenza dell'accordo conciliativo è lo specifico accertamento giudiziale che, travolto dalla transazione, non può più costituire titolo idoneo a fondare la pretesa contributiva dell'I.N.P.S.» -, ciò non preclude «all'istituto previdenziale la possibilità di far valere sulla base di un titolo diverso la propria pretesa contributiva in relazione al rapporto di lavoro oggetto di transazione», provandola con qualsiasi mezzo ed anche in via presuntiva, stante «l'insensibilità dell'obbligazione agli effetti della transazione».

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