Contenzioso

Tra le alternative entrano in gioco mansioni inferiori

di Daniele Colombo

Il datore di lavoro, nell’assolvere l’obbligo del repêchage, deve tenere conto anche della presenza in azienda di posizioni professionali inferiori rispetto a quella ricoperta dal lavoratore licenziato o basta dimostrare che, al momento del recesso, non sussistevano mansioni equivalenti o simili nelle quali ricollocare il dipendente? Prima della modifica dell’articolo 2103 del Codice civile (avvenuta nel 2015) la giurisprudenza di legittimità limitava la prova dell’impossibilità di repêchage alle sole mansioni equivalenti, ammettendo l’assegnazione a mansioni inferiori solo in presenza di un preesistente «patto di demansionamento». Su questo tema, tuttavia, non mancavano sentenze che, invece, consentivano al datore di lavoro di adibire il dipendente allo svolgimento di mansioni diverse, anche inferiori alle ultime assegnate, qualora il demansionamento costituisse l’unica alternativa praticabile al licenziamento(si veda la sentenza della Cassazione 22798 del 9 novembre 2016). Questo orientamento ha negato, altresì, la necessità un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o concomitante al licenziamento.

Il tema si è complicato con la riforma dell’articolo 2103 del Codice civile, che ha consentito di adibire il dipendente anche a mansioni diverse rispetto alle ultime svolte, purché sia mantenuto lo stesso livello di inquadramento contrattuale. Secondo una parte della giurisprudenza di merito, la nuova formulazione della norma ha introdotto un «aggravamento dell’onere della prova in tema di repêchage» per il datore di lavoro. Superata la nozione di equivalenza delle mansioni, infatti, il datore di lavoro sarebbe ora chiamato a dimostrare anche l’impossibilità di adibire il lavoratore licenziato a mansioni «riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte oppure corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito» (Tribunale di Milano, sentenza 3370 del 16 dicembre 2016). Questo indirizzo sembrerebbe in contrasto con l’orientamento precedente all’entrata in vigore della nuova formulazione dell’articolo 2103 del Codice civile, estendendo l’onere del datore di lavoro di provare l’adempimento all’obbligo di repêchage anche in riferimento a posizioni di lavoro inferiori, ove riconducibili alla stessa categoria professionale. In ogni caso, l’obbligo di repêchage non può estendersi a qualsiasi mansione inferiore, ma solo a quelle che presentino caratteristiche di compatibilità e omogeneità con le ultime assegnate e disimpiegate dal lavoratore (Cassazione, sentenze 4509 dell’8 marzo 2016 e 9467 del 10 maggio 2016). Tale orientamento giurisprudenziale non è esente da censure. In primo luogo, infatti, ricorrere all’articolo 2103 del Codice civile è una facoltà dell’impresa, mentre il repêchage è un obbligo. Inoltre, è possibile che ci sia un contrasto con i principi dell’articolo 41 della Costituzione: se si sposa tale interpretazione, infatti, potrebbe imporsi all’impresa un obbligo formativo che potrebbe comportare costi non sempre sostenibili, oltre a quelli già sostenuti per mantenere in servizio, anche se in mansione inferiore, il lavoratore, che altrimenti sarebbe stato licenziato per motivi economici.

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