Contenzioso

Violare l’obbligo di repêchage può far reintegrare il lavoratore

di Daniele Colombo

La violazione dell’obbligo di repêchage - l’esigenza, elaborata dalla giurisprudenza, di dimostrare che è impossibile adibire il lavoratore ad altre mansioni piuttosto che licenziarlo - può mettere a rischio la legittimità del recesso per ragioni economiche, con le conseguenze sanzionatorie che questo comporta per le aziende.

Negli ultimi anni, la giurisprudenza ha definito l’estensione e le caretteristiche dell’obbligo di repêchage.

Con la sentenza 29179 del 13 novembre 2018, ad esempio, la Cassazione ha stabilito che nel licenziamento per motivi oggettivi l’obbligo può estendersi alle società che fanno parte dello stesso gruppo societario di quella che recede dal rapporto di lavoro, solo se esiste un «unico centro di imputazione» dei rapporti giuridici ove le varie aziende solo formalmente sono separate, ma in realtà beneficiano della prestazione lavorativa del lavoratore licenziato. Al di fuori di questo caso, il repêchage deve riguardare solo l’azienda ove era impiegato il lavoratore licenziato.

Il centro unico di imputazione del rapporto di lavoro ricorre ogni volta che c’è una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò sia accertato in modo adeguato, con l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti:

unicità della struttura organizzativa e produttiva;

integrazione tra le attività esercitate dalle imprese del gruppo e relativo interesse comune;

coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune;

uso contemporaneo della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle imprese.

In caso di licenziamento per motivi economici il datore di lavoro deve provare la sussistenza in concreto delle ragioni di fatto (attinenti all’organizzazione del lavoro ed all’incidenza sulla posizione del lavoratore) che lo hanno indotto a risolvere il rapporto di lavoro. Non solo. L’azienda, deve anche provare che non sussiste la possibilità di ricollocare il lavoratore adibendolo a mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte. Ma come può essere provata l’impossibilità del repêchage?

La giurisprudenza, mitigando questo onere probatorio in capo al datore di lavoro, ha evidenziato che spetta al lavoratore indicare le mansioni nelle quali avrebbe potuto essere riutilizzato. In quest’ultimo caso, il datore di lavoro dovrà dimostrare l’inutilizzabilità del lavoratore, anche provando che le assunzioni effettuate in concomitanza o successivamente al recesso riguardavano mansioni e profili professionali non compatibili con quello del dipendente licenziato.

Un orientamento giurisprudenziale formatosi di recente e che sembra prevalere, tuttavia, solleva il lavoratore da questo onere. Con la sentenza 5592 del 22 marzo 2016 (e nella sentenza 618 del 2017), la Corte di cassazione ha affermato che non può essere addossato al lavoratore alcun onere di questo tipo.

Le conseguenze giuridiche del mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage assumono particolare importanza per i “vecchi assunti”, ai quali continua ad applicarsi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: in base a questa normativa, nel caso della manifesta insussistenza del fatto posto a base licenziamento, è prevista la reintegra. Per coloro che sono stati assunti dal 7 marzo 2015, invece, il Dlgs 23/2015 (sul contratto a tutele crescenti) ha previsto solo conseguenze economiche in caso di illegittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo.

Nella sentenza 10435 del 2 maggio 2018 la Cassazione, la verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento deve estendersi a entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia al «fatto posto a base del licenziamento sia al cosiddetto repêchage». Per i giudici, la manifesta insussistenza va riferita a una evidente, e facilmente verificabile assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso (conforme anche la sentenza della Corte d’appello di Roma del 1° febbraio 2018).

Il principio espresso dalla Cassazione secondo il quale anche la ricollocazione fa parte del «fatto», segna una parziale rottura con parte della giurisprudenza di merito. I tribunali, infatti, erano soliti collocare il repêchage al di fuori del “fatto”. La violazione di questo onere pertanto, comportava l’applicazione della sola tutela indennitaria con esclusione della reintegrazione in servizio (Tribunale di Milano, 29 marzo 2013; Tribunale di Roma, 8 agosto 2013).

Il nuovo orientamento, tuttavia, non supera le incertezze ancora esistenti sui criteri che devono orientare il giudice nel disporre la reintegrazione o l’indennità risarcitoria nel caso di licenziamento dichiarato illegittimo.

Grafico: Le pronunce

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