Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2
Sicurezza del lavoro e responsabilità del datore
Trasferimento d'azienda e cessione del contratto di lavoro

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 23 aprile 2019, n. 11181

Pres. Manna; Rel. Curcio; P.M. Cimmino; Ric. P.P.; Controric. A. S.r.l.;
Licenziamento per giusta causa – Appropriazione indebita di buoni sconto clienti – Violazione art. 2105 c.c. – Sussiste

L'art. 2105 c.c., nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcuni obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di una più vasta gamma di comportamenti, anche positivi, ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento coi doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all'obbligo di fedeltà.
La Corte di appello di Catanzaro riformava la sentenza del Tribunale di Cosenza che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice – cassiera presso il punto vendita della società datrice – ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro.
La Corte territoriale riteneva legittimo il licenziamento irrogato alla dipendente a seguito di contestazione disciplinare con la quale era stato addebitato alla stessa di aver omesso di consegnare otto buoni sconto del 10% sulla spesa a clienti titolari di una tessera promozionale, per un valore complessivo di 24 euro, buoni che erano stati spesi presso il punto vendita della società datrice dal marito della lavoratrice il giorno successivo.
A fondamento della propria decisione la Corte territoriale rilevava che i giudici di primo grado avevano omesso di considerare talune circostanze dalle quali inferire la prova presuntiva, ai sensi dell'art. 2729 c.c., in ordine al volontario ed indebito utilizzo da parte della lavoratrice dei buoni spesa spettanti ad altri clienti. In particolare, secondo quanto ritenuto dai giudici di appello, i giudici di prime cure avevano omesso di rilevare l'abbinamento dei buoni sconto utilizzati ad un numero identificativo di tessera che apparteneva ad una cliente, la quale aveva dichiarato di avere smarrito tempo prima detta tessera. La sentenza impugnata, inoltre, non aveva considerato che nei filmati del servizio di video sorveglianza del punto vendita era ritratto il consorte della dipendente mentre pagava presso una cassa utilizzando dei buoni, collegati tutti ad una stessa tessera sconto.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice affidato a due motivi.
In primo luogo, la ricorrente lamentava che la sentenza di appello avesse errato nel ritenere presuntivamente acquisite le prove circa la mancata consegna da parte della dipendente dei buoni sconti ai clienti e l'impossessamento degli stessi con artifici e raggiri mediante l'utilizzo di altra tessera, nonché circa la consegna dei buoni stessi al coniuge per l'utilizzazione, ostandovi il fatto che non potevano ritenersi configurabili nella specie, nè risultavano indicati in sentenza indizi gravi, precisi e concordanti.
La ricorrente denunciava, altresì, la violazione degli artt. 2105, 2106 e 2119 c.c. sostenendo che la Corte di appello avesse erroneamente sussunto la condotta contestata nell'ambito della disposizione di cui all'art. 2105 c.c. e non avesse nemmeno valutato la proporzionalità della sanzione inflitta, tenuto conto dell'esiguo valore economico complessivo dei buoni sconto oggetto di contestazione pari a soli 24 euro.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Innanzitutto, la Suprema Corte, richiamando il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, ha rilevato che spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove correttamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità. Dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l'assoluta illogicità e intrinseca contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (cfr. Cass. 2 aprile 2009, n. 8023; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15737).
Applicando tali principi alla fattispecie di causa la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte distrettuale avesse correttamente utilizzato il ragionamento probatorio presuntivo ai sensi dell'art. 2729 c.c., avendo ricavato dall'esame di fatti secondari, dotati dell'efficacia probatoria di gravità, precisione e concordanza, la prova del fatto principale, rappresentato dalla consapevole volontà della lavoratrice di utilizzare per sé, con la complicità del marito, buoni sconto che aveva abbinato ad una tessera smarrita tempo addietro dalla proprietaria.
La Suprema Corte ha inoltre rilevato che i giudici di appello avevano correttamente sussunto la condotta posta in essere dalla lavoratrice – consistita nell'impossessamento e nel successivo utilizzo di buoni sconto, ai quali non aveva diritto, in cambio di merce non pagata – nell'ambito della previsione di cui all'art. 2105 c.c., atteso che tale norma, nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcuni obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di una più vasta gamma di comportamenti, anche positivi, ma pur sempre riconducibili in senso ampio, ed in collegamento coi doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all'obbligo di fedeltà (cfr. Cass. 4 aprile 2017, n. 8711).
La Suprema Corte ha infine osservato che la Corte territoriale, nel pieno rispetto dei principi di cui all'art. 2106 e 2119 c.c., aveva rilevato che la gravità della condotta posta in essere dalla lavoratrice, realizzata attraverso artifici e raggiri, era tale da ledere l'elemento fiduciario, indipendentemente da una valutazione economica dell'entità del danno causato alla datrice di lavoro, certamente non rilevante.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1

Cass. Sez. Lav. 18 febbraio 2019, n. 4672

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Patrone; Ric. L.A.; Controric. M.I.s.r.l.;
Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto di lavoro - Verifica giudiziale - Effettività della soppressione – Necessità - Repêchage -Onere della prova - Incombe sul datore

Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sufficiente che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost.
NOTA
La Corte di Appello di Milano ha rigettato il reclamo proposto da una dipendente averso la sentenza di opposizione che, nel confermare l'ordinanza emessa in fase sommaria, aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato per soppressione della posizione di lavoro occupata. In particolare i giudici del merito sottolineavano: che non era contestato il riassetto organizzativo e che, in seguito ad esso, la posizione lavorativa della ricorrente fosse stata soppressa, anche considerato che la stessa ricorrente non aveva allegato la sussistenza di nuove assunzioni; che si era accertato che le mansioni residue erano state esternalizzate o ridistribuite tra altri dipendenti; che, con riferimento all'obbligo di repêchage, la ricorrente non aveva indicato posizioni vacanti cui avrebbe potuto essere utilmente addetta.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione censurandola sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori, sia in ordine all'accertamento del motivo posto a base del recesso che dell'assolvimento dell'obbligo di repêchage.
La Suprema Corte respinge il ricorso affermando il principio di cui alla massima, che riprende affermazioni consolidate (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882), alle quali ritiene che i giudici del merito si siano correttamente attenuti.
In particolare, secondo la Cassazione, nella sentenza impugnata non viene compiuta alcuna effettiva inversione degli oneri probatori, essendo la Corte di merito giunta alla più che ampiamente motivata conclusione dell'esistenza del giustificato motivo di licenziamento dopo una meticolosa ricostruzione delle circostanze di causa dedotte e provate dalla società, che aveva mostrato l'effettiva soppressione della posizione conseguita, in parte, al venire meno di alcune funzioni ed, in parte, alla ridistribuzione tra i dipendenti di quelle rimaste.
Stesso discorso per il repêchage, ove la sentenza impugnata, pur sembrando rilevare in un inciso che "spettava alla ricorrente quanto meno additare, anche in modo sommario o impreciso' gli elementi da cui poter evincere la possibilità di una sua utile ricollocazione in azienda", afferma, poi, con chiarezza - aderendo all'impostazione da ultimo prescelta dalla giurisprudenza di legittimità - che tale onere grava unicamente, ex art. 5 L. n. 604\66 sul datore di lavoro, esaminando quindi le ragioni per cui, a suo avviso, tale ricollocazione era stata dimostrata anche in relazione alla provata mancanza di nuove assunzioni nel semestre successivo al recesso.
Il ricorso viene, pertanto rigettato.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/2

Cass. Sez. Lav. 4 aprile 2019, n. 9468

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; P.M. Fresa; Ric. L.D. s.r.l.; Controric. E.D.;
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto di lavoro – Miglioramento dell' efficienza ed incremento della produttività – Sussiste - Eventuale intento ritorsivo - Irrilevanza

In ipotesi di domanda proposta dal lavoratore che deduca la nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, la verifica di fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso, che risulti solo allegata dal datore, ma non provata in giudizio, poiché la nullità per motivo illecito ex art. 1345 c.c. richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno del licenziamento sia solo formale e apparente.
NOTA
La Corte di Appello di Bari ha rigettato il reclamo proposto dalla società avverso la sentenza del Tribunale che aveva accolto l'opposizione proposta dal lavoratore e dichiarato la nullità del licenziamento intimato ritenendo il recesso adottato per ritorsione. Il caso concerne un lavoratore assunto con un periodo di prova di quattro settimane e licenziato dopo solo 8 settimane per suo mancato superamento. Avvedutasi dell'errore la società ha revocato il licenziamento, invitando formalmente l'istante a rientrare in servizio, ma, di fatto, ciò non è mai avvenuto per motivi non chiari tra cui una paventata collocazione in CIGS, seguita da collocazione in ferie "forzate" e culminata in un secondo licenziamento motivato dalla soppressione della posizione. Da tale sequenza dei fatti la Corte territoriale ha desunto il carattere ritorsivo del licenziamento ritenendo sussistenti una serie di circostanze indicative dell'intenzione della società di procedere solo fittiziamente alla riassunzione, essendo invece evidentemente propensa solo ad estromettere il dipendente. La Corte territoriale ha, inoltre, affermato che, ai fini della legittimità del licenziamento per soppressione di un posto di lavoro, non è sufficiente che i compiti espletati dal lavoratore siano distribuiti ad altri, ma è necessario che il riassetto sia diretto a fronteggiare effettive situazioni sfavorevoli non contingenti e idonee a giustificare un piano di riorganizzazione aziendale, presupposti, nel caso di specie, non allegati né comprovati dal datore.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi, dolendosi, innanzitutto, che la Corte territoriale avesse anteposto la trattazione dell'assunto carattere ritorsivo del licenziamento, anziché verificare con priorità logica e giuridica l'obiettiva esistenza dei fatti necessari a radicare il giustificato motivo oggettivo, il quale, una volta accertato nella sua effettività, rende irrilevante ogni altro aspetto della vicenda. Inoltre si censura la decisione laddove ha ritenuto che non si possa procedere ad una riduzione di personale per migliorare la redditività dell'impresa, ma solo a fronte di situazioni sfavorevoli non contingenti o in caso di uno "stravolgimento di tipo economico finanziario".
La Suprema Corte accoglie il ricorso, affermando il principio di cui alla massima, conforme all'orientamento consolidato. Secondo la giurisprudenza, infatti, affinché il recesso sia nullo occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. 14 luglio 2005, n. 14816), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. 9 marzo 2011, n. 5555). Precisa la Corte che il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l'unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L'esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest'ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale.
Nel caso in esame, invece, la Corte territoriale ha operato un indebito giudizio di comparazione o di bilanciamento tra le circostanze allegate dal lavoratore a sostegno del motivo illecito e i fattori prospettati dal datore a giustificazione del licenziamento, anziché applicare le regole sul riparto dell'onere probatorio e seguire l'ordine logico degli accertamenti.
Parimenti la Cassazione sottolinea l'erroneità della sentenza nella parte in cui la Corte si è ingerita nella scelta imprenditoriale, sindacando le ragioni che hanno condotto alla soppressione, essendo ormai principio consolidato quello per cui, in caso dì licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost. (Cass. 3 maggio 2017, n. 10699).
La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Bari in diversa composizione che si dovrà adeguare al principio di diritto riportato nella massima.

Sicurezza del lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 25 marzo 2019, n. 8292

Pres. Di Cerbo; Rel. Ponterio; Ric. F.; Controric. M.A.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. - Portata - Danno alla salute da esposizione lavorativa all'amianto - Prova liberatoria a carico del datore di lavoro - Contenuto
La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
NOTA
La Corte d'appello confermava la sentenza del Tribunale condannando la società al pagamento del risarcimento del danno agli eredi dei lavoratori deceduti per mesotelioma pleurico.
Per la Corte di merito nel corso del giudizio era stata dimostrata la nocività dell'ambiente di lavoro per l'esposizione dei dipendenti all'amianto, il nesso causale tra tale condizione di nocività e il decesso dei dipendenti per mesotelioma pleurico. D'altra parte la società non aveva fornito la prova dell'adempimento all'obbligo di prevenzione sulla base delle conoscenze scientifiche acquisite all'epoca.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso la società ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione, la Corte di Appello aveva correttamente statuito, essendo onere del datore di lavoro ex articolo 2087 c.c. fornire la prova dell'adozione delle misure necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze disponibili.
Nel caso in esame la società ricorrente aveva genericamente argomentato (senza fornire prove a supporto) l'assenza di una propria condotta colposa e del nesso causale tra questa e la malattia contratta dai dipendenti richiamando l'assenza di prova dell'idoneità delle misure di prevenzione omesse ad impedire l'evento.


Trasferimento d'azienda e cessione del contratto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 10 aprile 2019, n. 10044

Pres. Manna; Rel. Balestrieri; P.M. Cimmino; Ric. V.C. + 4; Controric. S.A.S. S.C.p.A.;

Lavoro subordinato – Trasferimento d'azienda – Art. 2112 c.c. – Cessione del contratto di lavoro – Applicabilità del regime di decadenza di cui all'art. 32, comma 4, L. n. 183/2010 – Configurabilità – Fattispecie.

L'art. 32, comma 4, L. n. 183/2010 prevede l'applicabilità anche alla cessione del contratto di lavoro, avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., delle disposizioni in materia di impugnazione del licenziamento di cui all'art.6 L. n. 604\66, allorquando venga impugnata la suddetta cessione, ma non nel caso in cui la si persegua.
NOTA
Il caso di specie riguarda il passaggio di alcuni lavoratori alle dipendenze del cessionario ai sensi dell'art. 2112 c.c., accertato dal Tribunale di Palermo su domanda dei lavoratori stessi.
La Corte d'Appello di Palermo, adita dalla società cessionaria, rigettava invece la domanda dei lavoratori, ritenendo intervenuta la decadenza degli stessi dalla proposizione di tale domanda, ai sensi dell'art. 32 della L. 183/2010.
In particolare, la Corte d'Appello aveva ritenuto applicabile tale decadenza dopo aver accertato che i lavoratori avevano atteso quasi due anni (dal trasferimento d'azienda) prima di formulare la domanda di accertamento del trasferimento stesso e di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della cessionaria; pertanto, era evidente la violazione del termine stragiudiziale di 60 giorni entro cui i lavoratori avrebbero dovuto manifestare alla cessionaria la volontà di far valere nei suoi confronti l'avvenuta cessione dei contratti di lavoro.
La Corte di Cassazione, successivamente adita dai lavoratori, ha invece ritenuto erroneo il ragionamento seguito dal giudice di seconde cure, affermando che la cessione dei contratti di lavoro, nell'ipotesi del trasferimento di azienda, avviene automaticamente ex art. 2112 c.c., e nella fattispecie si era peraltro già verificata due anni prima della domanda giudiziale dei lavoratori, sicché non vi era alcuna necessità, né onere per il lavoratore, di far valere formalmente nei confronti del cessionario l'avvenuta prosecuzione del suo rapporto di lavoro con quest'ultimo, essendo tale prosecuzione già avvenuta ope legis. Pertanto, prosegue la Corte, è evidente che solo il lavoratore che intenda contestare la cessione del suo contratto di lavoro ex art. 2112 c.c. debba far valere tale impugnazione nel termine di cui all'art. 32 cit. mentre, nel caso di specie, i lavoratori avevano richiesto di accertare il passaggio alle dipendenze della cessionaria.
Del resto, conclude la Corte, l'art. 32 cit. prevede l'applicabilità anche alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c. delle disposizioni in materia di impugnazione del licenziamento di cui all'art.6 L. n. 604\66 solo allorquando venga impugnata la detta cessione e non certo nel caso in cui il lavoratore la persegua.
Per tali motivi la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Palermo.

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