Contenzioso

La proporzionalità ritorna nei licenziamenti del Jobs act

di Angelo Zambelli

Con l’importante sentenza n. 12174/19 (si veda il Sole 24 Ore di ieri), la Cassazione si è pronunciata per la prima volta sull’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/15, riaprendo l’annosa problematica relativa al “fatto contestato” che aveva animato giurisprudenza e dottrina dopo l'entrata in vigore della Riforma Fornero.

La legge 92/12, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ha limitato la tutela reintegratoria nelle ipotesi in cui il giudice «accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili».

I giuristi si sono subito interrogati sul significato da attribuire alla locuzione «insussistenza del fatto contestato», elaborando due contrapposte teorie: da un lato, la teoria del “fatto materiale”, in base alla quale la reintegrazione va circoscritta all’ipotesi d’insussistenza del solo fatto materiale contestato, dall’altro, quella del “fatto giuridico”, secondo cui ai fini della reintegrazione nel posto di lavoro è necessario considerare non solo la sussistenza del fatto storico materialmente commesso dal lavoratore, ma anche la rilevanza disciplinare e giuridica del fatto.

La giurisprudenza, in particolare quella di merito, ha in gran parte aderito a quest’ultimo orientamento interpretativo.

Il legislatore del Jobs Act - riprendendo alla lettera la formulazione contenuta in una delle prime sentenze sul punto della Cassazione (Cass. 6 novembre 2014, n. 23669) - ha abbracciato la teoria del “fatto materiale”, precisando che il giudice dovrà disporre la reintegrazione «esclusivamente nelle ipotesi […] in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» (articolo 3, comma 2, Dlgs 23/15).

Quella del legislatore del Jobs Act voleva essere una chiara presa di posizione volta a porre fine, almeno per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, alle querelle interpretative che avevano animato gli interpreti della Riforma Fornero arrivando persino, novità assoluta sin lì, ad espungere dalla valutazione giurisdizionale il canone della proporzionalità.

Una norma chiara e asciutta che avrebbe dovuto consentire al datore di lavoro di prevedere al momento del licenziamento con certezza (quasi matematica) il rischio di causa, sia in termini di possibile reintegrazione in servizio del dipendente sia, alternativamente, con riferimento al possibile quantum risarcitorio.

Tuttavia, la certezza sanzionatoria – obiettivo dichiarato dal Legislatore - ha avuto vita breve: la ben nota sentenza della Consulta n. 194/18 ha, infatti, dato nuova linfa alla discrezionalità del giudice, vanificando la portata innovativa dell’articolo 3, comma 2, del Jobs Act: discrezionalità che nel frattempo - grazie al Decreto Dignità – ha raggiunto una forbice (6-36 mensilità) addirittura superiore a quella (12–24 mensilità) prevista dalla legge Fornero.

Con la sentenza in commento, la Cassazione ha proseguito l’opera di “smantellamento” del Jobs Act. Accogliendo il ricorso promosso dalla lavoratrice, la Corte ha precisato che «ai fini della pronuncia di cui all’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore […] comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».

Se da un lato l’equiparazione – in termini di conseguenze sanzionatorie - della ”insussistenza del fatto” al “fatto sussistente ma non disciplinarmente rilevante” risulta senza dubbio corretta e coerente con la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione al testo statutario, dall’altro, per comprendere appieno la portata “riformatrice” di quest’ultima sentenza, non si può prescindere dall’analisi della fattispecie oggetto di giudizio, riguardante pur sempre l’allontanamento della dipendente dal posto di lavoro. Seppur non è dato comprendere i dettagli del comportamento tenuto dalla lavoratrice, tale condotta appare di per sé disciplinarmente rilevante.

Nonostante ciò, pur richiamando alla lettera la necessaria estraneità del giudice da ogni valutazione sulla sproporzione del licenziamento, la Cassazione reintroduce surrettiziamente una valutazione soggettiva (e dunque discrezionale) della rilevanza disciplinare del comportamento contestato: il che, di fatto, cancella ogni e qualsivoglia portata innovativa del Jobs Act rispetto alla legge Fornero.

La sentenza n. 12174/19 della Corte di cassazione

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