Contenzioso

Reintegrato chi chiede la promozione

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Va reintegrato perché licenziato per ragioni ritorsive il dipendente che abbia rivendicato un inquadramento superiore e sia stato poi estromesso dall'azienda per una riorganizzazione rivelatasi fittizia. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 11352/2019, decidendo sul ricorso proposto da una società dopo essersi vista condannata in Corte d'appello a reintegrare un dipendente licenziato per motivo oggettivo in un momento immediatamente successivo alla richiesta dello stesso di essere inquadrato come dirigente invece di quadro.

Secondo i giudici di secondo grado la coincidenza temporale tra le rivendicazioni del dipendente e l'espulsione fondata su una riorganizzazione non riscontrata nei fatti impone al giudice non già la sola condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità per licenziamento illegittimo, come disposto inizialmente dal tribunale di Roma, bensì l'accertamento della nullità del recesso stesso. Ciò perché, in casi simili, oltre alla insussistenza del giustificato motivo oggettivo (idonea di per sé a fondare la sola condanna al pagamento dell'indennità per licenziamento illegittimo, ferma però restando la cessazione del rapporto), è possibile riscontrare alla base del recesso il più grave intento ritorsivo del datore di lavoro, il quale infatti reagisce a una legittima richiesta del proprio dipendente recedendo dal rapporto.

Per giungere a un simile convincimento la Corte d'appello non ritiene necessario che il giudice cerchi e reperisca prove in grado di dimostrare inconfutabilmente la volontà ritorsiva del datore di lavoro: laddove il recesso si riveli infondato nelle ragioni formalmente addotte dal datore di lavoro, può ben essere sufficiente la presunzione derivante dalla coincidenza temporale tra le rivendicazioni del dipendente e il provvedimento espulsivo. Nel caso in esame, ad esempio, la società ha soppresso la posizione del dipendente nel 2015, con un ritardo di ben quattro anni rispetto alla comunicazione relativa alla riorganizzazione della funzione aziendale in cui lo stesso era impiegato, risalente al 2011.

Inoltre, secondo gli accertamenti dei giudici di secondo grado, le funzioni dapprima assegnate allo stesso dipendente non sono state neppure effettivamente soppresse, come indicato nella lettera di licenziamento, ma riassegnate a un'altra lavoratrice. Ciò, a parere del tribunale di Roma, vale a dimostrare l'infondatezza del licenziamento e il solo diritto del dipendente a vedersi corrispondere un'indennità pari a ventidue mensilità di retribuzione.

Tuttavia, per la Corte d'appello un licenziamento così irrogato non può essere esaminato senza tenere conto della circostanza relativa alle pretese avanzate del lavoratore, con la conseguente identificazione del motivo ritorsivo in capo al datore di lavoro e l'applicazione della sanzione massima prevista dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori: il provvedimento è nullo e il dipendente deve essere reintegrato. A nulla valgono le osservazioni della società, che lamenta anzitutto come i giudici non abbiano tenuto conto della diversa e più recente riorganizzazione nell'ambito della quale doveva essere valutato il licenziamento del dipendente, estromesso dall'organizzazione per ragioni oggettive insieme ad altri tre lavoratori, a riprova dell'assenza di un intento espulsivo esclusivamente indirizzato a una sola persona.

Ignorato anche il fatto che, ben prima delle rivendicazioni, il dipendente vantasse una retribuzione ben superiore a quella minima fissata dalla contrattazione collettiva per i dirigenti: a parere del datore di lavoro un simile dato, nel contesto di una riorganizzazione di cui il dipendente era consapevole e rispetto alla quale aveva ragione di temere la cessazione del proprio rapporto di lavoro, ben avrebbe dovuto valere a suggerire ai giudici l'esistenza di una strategia del lavoratore o, perlomeno, a ridimensionare il significato attribuito dalla Corte d'appello alla rivendicazione di un inquadramento superiore.

Le conclusioni dei giudici di secondo grado, pur coerenti con altre recenti sentenze di merito (tra cui la decisione resa dal tribunale di Milano nel giugno 2017, in base alla quale quando i motivi posti alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultino infondati, la ritorsività del recesso può anche essere provata per indizi), lasciano tuttavia spazio a taluni interrogativi circa il confine della prova in materia di licenziamento ritorsivo. Infatti, se è vero che la prova per presunzioni o indizi è indiscutibilmente utile e necessaria, oltre che sufficiente a questi fini, la gravità della sanzione connessa al motivo ritorsivo impone di interrogarsi su quanto sia fondamentale un particolare esercizio di esame e approfondimento delle stesse presunzioni e indizi, anche alla luce di una possibile strategia del dipendente che, in alcune circostanze, non pare affatto possa essere ipotesi trascurabile.

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