Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e reintegra
Prosecuzione della malattia e assenza ingiustificata
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa

Licenziamento disciplinare e reintegra

Cass. Sez. Lav. 9 maggio 2019, n. 12365

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. F. S.p.A.; Controric. L.M.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Previsione contrattuale di sanzione non espulsiva per una determinata mancanza - Fattispecie di difformità tra il comportamento accertato e quello previsto dal contratto - Tutela reintegratoria - Condizioni - Divieto di estensione analogica - Sussistenza - Tutela indennitaria - Fattispecie.

Il licenziamento irrogato al dipendente è illegittimo e meritevole della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa. Coerentemente non è consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha ribadito che non è consentito al Giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria, così operando un'estensione non consentita al caso non previsto dal CCNL, ancorché sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare delle condotte tipizzate e di quelle concretamente appurate in giudizio.
Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Trieste, confermando la pronuncia del Tribunale di Gorizia, aveva accolto la domanda di annullamento del licenziamento del dipendente, il quale era stato sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso altra zona dello stabilimento, a distanza di circa un'ora dalla pausa prestabilita.
In particolare, la Corte territoriale affermava che, dalla disamina del CCNL applicato in azienda, la condotta posta in essere dal dipendente poteva essere ricondotta nell'alveo delle fattispecie punite con sanzione conservativa e, segnatamente, nel c.d. abbandono del posto di lavoro.
La società proponeva, quindi, ricorso avanti alla Suprema Corte asserendo che la Corte distrettuale, da un lato, avesse omesso di considerare la complessiva condotta posta in essere dal dipendente, e, dall'altro, avesse, altresì, operato un'illegittima interpretazione estensiva ed analogica delle condotte punite con sanzione conservativa dal CCNL applicato in azienda, nonostante il tenore letterale dell'art. 18, commi 4 e 5, della L. 300/1970, secondo il quale la tutela reintegratoria è suscettibile di applicazione solo nel caso in cui il comportamento contestato sia stato previsto specificamente dalle parti sociali.
Il Supremo Collegio, risolvendo la questione, ha accolto entrambi i motivi addotti dalla società.
Anzitutto, la Suprema Corte ribadisce come - a seguito delle modifiche apportate dalla L. 92/2012 al regime sanzionatorio dettato dall'art. 18 della L. 300/1970 - il Giudice debba procedere ad una valutazione più articolata circa la legittimità dei licenziamenti disciplinari, dapprima accertando se sussistono o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, e, laddove mancanti, se sussiste una delle due condizioni previste dal comma 4 del summenzionato art. 18 per accedere alla tutela reintegratoria («insussistenza del fatto contestato» ovvero, se il fatto è rientrante «tra le condotte con sanzione conservativa sulla base delle previsioni di contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili»).
Pertanto - soggiungono i Giudici di legittimità - solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà illegittimo ed anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18.
Coerentemente, però, puntualizza il Supremo Collegio, «non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando un'estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare».
A parere della Cassazione, infatti, una tale possibilità, non solo è negata dalla lettera del comma 4 dell'art. 18 (che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l'eccezione della tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria), ma anche dal punto di vista sistematico, in quanto ciò violerebbe la ratio del nuovo regime, in cui la tutela reintegratoria sanzionerebbe il solo abuso consapevole del potere disciplinare, il quale, quindi, implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo.
Per i suddetti motivi, la Suprema Corte conclude che, non potendo ritenersi ricollegabile la condotta tenuta dal lavoratore alle tipizzazioni contenute nel CCNL applicato in azienda - che prevedono l'applicazione di una sanzione conservativa - deve escludersi l'assoggettabilità ex se della condotta tenuta alla sanzione meramente conservativa, dovendo il Giudice procedere nuovamente all'accertamento della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.

Prosecuzione della malattia e assenza ingiustificata

Cass. Sez. Lav. 3 maggio 2019, n. 11700

Pres. Bronzini; Rel. Leo; Ric. T.A.W.; Controric. A.D.G.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Subordinazione - Sanzioni disciplinari - Impedimento legittimo nell'espletamento della prestazione lavorativa - Obbligo di esatta comunicazione della sua durata – Assenza Ingiustificata - Violazione - Conseguenze - Fattispecie in tema di licenziamento disciplinare.

Rientra tra i normali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto di lavoro anche quello che fa carico al lavoratore di assicurarsi che impedimenti nell'espletamento della prestazione, seppure legittimi, non arrechino alla controparte datoriale un pregiudizio ulteriore, per effetto di inesatte comunicazioni che generino un legittimo affidamento in ordine alla effettiva ripresa della prestazione lavorativa.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore impugnava il licenziamento disciplinare comminatogli per assenza ingiustificata. Il Tribunale accoglieva parzialmente l'opposizione proposta dal lavoratore avverso l'ordinanza del Tribunale della stessa sede ritenendo che la Società avesse violato l'art. 7 della l. n. 300 del 1970 per tardiva contestazione disciplinare rispetto ai fatti addebitati al lavoratore.
La Corte d'Appello, in accoglimento del gravame interposto dalla Società, rigettava integralmente il ricorso proposto dal lavoratore in prima istanza e dichiarava la legittimità del licenziamento allo stesso intimato condannandolo a restituire alla reclamante le somme corrisposte in esecuzione della sentenza impugnata.
Il lavoratore ha proposto avverso tale sentenza ricorso per cassazione lamentando tra il resto «violazione dell'art. 2119 c.c. e della l. n. 300 del 1970 per intempestiva reazione del datore di lavoro al fatto già contestabile della mancanza di ulteriori certificazioni sanitarie».
I giudici di legittimità hanno respinto il ricorso affermando che le censure formulate alla sentenza della Corte d'Appello sono risultate inconferenti in quanto non hanno evidenziato «in modo puntuale gli "standards" dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato». Secondo la Corte di Cassazione nell'iter decisionale della Corte di merito è stato coerentemente messo in luce il comportamento certamente lesivo del vincolo fiduciario tenuto dal lavoratore. Al riguardo la Corte d'Appello ha evidenziato che il lavoratore ha presentato certificati medici dal 12.3.2013 al 12.9.2013. Dal 13.9.2013 al 6.12.2013 la Società non ha più avuto notizie del lavoratore. Secondo la Corte d'Appello «sarebbe stato onere del medesimo, a fronte di una eventuale prosecuzione della malattia, attivarsi e darne comunicazione al datore di lavoro, il quale ultimo, a fronte di quell'assenza proseguita per 84 giorni, senza alcuna comunicazione o giustificazione, ha correttamente intimato il licenziamento al dipendente».
La Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso sottolineando inoltre che «non si configura, nella fattispecie, alcuna sproporzione tra il comportamento tenuto dal lavoratore e la sanzione comminata dalla società, anche in considerazione di quanto previsto dal CCNL del Terziario che, all'art. 225, prevede il licenziamento senza preavviso quale sanzione congrua in caso di assenze che si protraggano senza giustificazione per oltre tre giorni. E non può non tenersi in considerazione il fatto che rientra nella normale diligenza e correttezza del lavoratore malato l'onere di avvertire tempestivamente il datore di lavoro, qualora non sia in grado di rispettare il termine previsto per il rientro della malattia, dando così modo alla parte datoriale di valutare i fatti nel loro insieme e di stabilire la sanzione da applicare».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2019, n. 8660

Pres. Nobile; Rel. Marotta; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.M.; Contr. C.L. s.r.l.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Procedura conciliativa ex art. 7, l. n. 604/1966 – Violazione – Impugnativa recesso – Decorrenza – Dalla data di comunicazione al lavoratore – Necessità – Sospensione dei termini di impugnativa per violazione procedura conciliativa – Insussistenza.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora il datore di lavoro sia obbligato ad attivare la procedura conciliativa, ex art. 7, l. n. 604/1966, e la stessa venga promossa dopo l'intimazione del recesso, anziché prima come previsto dalla legge, il lavoratore che voglia contestare la legittimità del provvedimento - e quindi anche il mancato rispetto della procedura - è tenuto ad impugnare il recesso entro il termine di 60 giorni dalla data della sua comunicazione, termine che non è sospeso per il tempo necessario all'espletamento della procedura.
NOTA
La Corte di appello di Ancona, alla quale si era rivolto il datore di lavoro in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione, dichiarava la inammissibilità della domanda avanzata dal lavoratore tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli in data 18 febbraio 2013. In particolare, la Corte di merito, rilevava come il recesso fosse stato impugnato (il 27 maggio 2013) oltre il termine di 60 giorni previsto dall'art. 6, l. n. 604/1966, e che tale termine non potesse considerarsi sospeso per il tempo necessario all'espletamento della procedura obbligatoria ex art. 7, l. n. 604/1966, in mancanza di espressa previsione al riguardo. Avverso tale pronuncia il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 7 della l. n. 604/1966. Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia considerato che la comunicazione del 18 febbraio 2013 non poteva considerarsi quale provvedimento di licenziamento atteso che la procedura presso la Direzione provinciale del lavoro, successivamente avviata (il 20 febbraio 2013), aveva proprio lo scopo di individuare eventuali soluzioni alternative.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso rilevando che l'art. 7, l. n. 604/1966, come modificato dall'art. 1, commi 40 e 41 della l. n. 92/2012, prevede che l'intimazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, l. n. 300/1970, "deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore". Una sospensione del termine di decadenza per l'impugnativa del licenziamento non è prevista nell'ipotesi di attivazione della procedura in quanto, afferma la Cassazione, di regola, tale procedura deve precedere l'adozione del licenziamento. La questione che si pone è se, nel caso in cui, come in quello in esame, la procedura venga attivata dopo la formale comunicazione di licenziamento, possa essere applicata una sospensione del termine di impugnativa. In tali ipotesi, evidenzia la Cassazione, il comma 6, dell'art. 18, l. n. 300/1970, espressamente prevede che, in caso di violazione della procedura di cui all'art. 7, l. n. 604/1966, al lavoratore spetti un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ma, per far valere tale tutela, sottolinea la Suprema Corte, il lavoratore deve impugnare il licenziamento nel termine ordinariamente previsto. Tanto non è avvenuto nel caso in esame, avendo il ricorrente impugnato il licenziamento oltre il termine di sessanta giorni, restando così preclusa la possibilità di far valere ogni contestazione, ivi compresa quella relativa alla violazione della procedura di cui all'art. 7. l. n. 604/1966, ragione per cui il ricorso viene integralmente respinto.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 maggio 2019, n. 12534

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Celentano; Ric. B.V.; Controric. C.B.R.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Precedenti disciplinari - Rilevanza - Registrazioni di conversazioni tra colleghi a loro insaputa - Utilizzo a fini difensivi - Legittimità

L'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e, pertanto, di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Ne consegue che è legittima, e inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento disciplinare proposta dal lavoratore. La Corte territoriale riteneva, infatti, legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, essendo risultati provati in giudizio tutti gli addebiti contestati (consistenti in gravi accuse di illecito nei confronti dei vertici dell'azienda, nell'auto-assegnazione dei periodi di congedo per le ferie, nella sistematica registrazione dei colloqui con i colleghi all'insaputa degli stessi).
La Corte specificava altresì che nel giudizio di impugnativa di licenziamento ex L. n. 92/2012 non poteva trovare ingresso la domanda di accertamento della nullità e/o inefficacia e/o illegittimità di precedenti sanzioni disciplinari che nella lettera di contestazione erano state richiamate non a titolo di recidiva, ma soltanto in quanto significative del persistere di un atteggiamento di ostilità del dipendente nei confronti dell'azienda.
Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione avverso tale pronuncia con sei motivi di impugnazione. In particolare, e per quanto di interesse, con il primo motivo di ricorso il lavoratore censurava la sentenza impugnata per avere «delimitato la materia del contendere al solo profilo relativo alla validità/efficacia e legittimità del licenziamento per giusta causa, senza estendere l'indagine a tutte le contestazioni di addebito dedotte in causa e poste a base del recesso datoriale».
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo, posto che dal contenuto della lettera di contestazione disciplinare si evinceva chiaramente che il datore di lavoro, nel fare riferimento a precedenti disciplinari, non aveva inteso configurarli quali elementi costitutivi dell'illecito oggetto di addebito; gli stessi erano stati richiamati in quanto «elementi sintomatici dell'atteggiamento ostile» del lavoratore verso la parte datoriale e, quindi, per la loro rilevanza sul piano della lesione del rapporto fiduciario (Cass. n. 1909/2018).
Con il quarto motivo di ricorso il lavoratore deduceva, inoltre, l'errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di merito per avere ritenuto che le registrazioni effettuate dal lavoratore di colloqui con i colleghi rientrassero tra le condotte vietate dalla legge, essendo avvenute all'insaputa degli interlocutori e, quindi, che le stesse non potessero essere legittimamente utilizzate per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria.
La Corte di Cassazione ha parzialmente accolto il suddetto motivo di impugnazione e, richiamando il proprio consolidato orientamento, ha ricordato il principio secondo il quale «l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Ne consegue che è legittima, e inidonea ad integrare un illecito disciplinare, la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto» (Cass. n. 11322/2018, Cass. n. 27424/2014).
La Suprema Corte ha dunque cassato con rinvio la sentenza impugnata in relazione a tale motivo di impugnazione, affinché la Corte d'Appello, rivalutati gli addebiti contestati sulla base del principio richiamato, verifichi se sussista o meno la giusta causa di licenziamento.

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