Contenzioso

Discrezionalità del giudice nei licenziamenti anche dopo il Jobs act

di Marcello Floris

Ha riaperto il dibattito sul concetto di insussistenza materiale del fatto e sugli spazi della reintegra nel contratto a tutele crescenti la sentenza della Cassazione 12174 dell’8 maggio 2019 (si veda Il Sole 24 Ore del 16 e del 17 maggio).

Per la Corte, anche con le regole del Dlgs 23/2015 (Jobs act) il lavoratore licenziato può essere reintegrato se il fatto contestato è avvenuto davvero, ma non ha rilievo disciplinare.

L’articolo 3 del Dlgs 23/2015 stabilisce che «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro».

La norma tende a escludere espressamente la discrezionalità del giudice. Nondimeno, la Corte ha ritenuto corretto giuridicamente equiparare il fatto effettivamente accaduto, ma irrilevante sul piano disciplinare, a quello che non sia stato affatto commesso dal lavoratore. Ciò perché, in qualunque settore del diritto punitivo, il fatto incriminato deve essere riconducibile ad azioni fonte di responsabilità in ambito giuridico.

La vicenda alla base della sentenza è quella di una lavoratrice che era stata licenziata per essersi allontanata dal posto di lavoro, circostanza ammessa dalla stessa dipendente licenziata. In appello, i giudici le avevano riconosciuto il solo risarcimento di quattro mensilità di retribuzione, perché la condotta contestata era stata accertata ma la gravità non era tale da giustificare il recesso immediato per giusta causa.

La Cassazione ha invece ritenuto che i giudici di appello avessero tratto dall’accertamento del fatto nella sua materialità delle conseguenze erronee rispetto alla disciplina introdotta con il Dlgs 23/2015. La delega alla quale il Governo ha dovuto attenersi nell’emanazione del decreto sul contratto a tutele crescenti era tale per cui il diritto alla reintegrazione avrebbe dovuto essere limitato ai licenziamenti nulli e discriminatori e a determinate fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

Questa disciplina si è affiancata a quella originaria dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che riconosce la sanzione della reintegrazione quando il giudice accerta che non ci sono gli estremi del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa. Quindi: in base alle regole in vigore prima del Dlgs 23/2015 la reintegrazione conseguiva alla insussistenza del fatto contestato. Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, ai quali si applica il contratto a tutele crescenti, questa consegue alla insussistenza del fatto «materiale» contestato.

La giurisprudenza, negli anni, ha elaborato una nozione di insussistenza del fatto contestato che comprende non solo i casi in cui il fatto non sia accaduto nella sua materialità, ma anche le ipotesi in cui il fatto, pur materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare dal punto di vista oggettivo o soggettivo perché non imputabile al dipendente. Non sono mancate interpretazioni più letterali e rigoristiche dell’articolo 3 del Dlgs 23/2015, secondo cui la menzione del fatto materiale imporrebbe la reintegra solo in assenza degli elementi costitutivi della condotta, senza che possa avere rilievo l’atteggiamento psicologico dell’agente. Per la Cassazione, questa interpretazione non è corretta: se il fatto sussiste ma è privo del carattere di illiceità, non è suscettibile di alcuna sanzione. Al fatto accaduto, ma disciplinarmente irrilevante, non può logicamente riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.

La Corte aggiunge che questa lettura della norma è conforme alla Costituzione e in linea con i principi espressi dalla Consulta, che ha ribadito «la garanzia costituzionale del diritto a non subire un licenziamento arbitrario». Per la Cassazione, dunque, la reintegrazione deve conseguire al giudizio di rilevanza sul piano disciplinare del fatto contestato.

È chiaro che la valutazione della consistenza sotto il profilo disciplinare, introduce per il giudice anche un sindacato sulla possibile sproporzione del licenziamento, che invece il Dlgs 23/2015 aveva voluto escludere.

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