Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mobbing e onere probatorio
Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore/1
Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore/2
La retribuzione corrisposta nel periodo di ferie
Giusta causa di licenziamento e fattispecie tipizzata dal contratto collettivo

Mobbing e onere probatorio

Cass. Sez. Lav. 6 maggio 2019, n. 11777

Pres. Balestrieri; Rel. De Gregorio; Ric. T. G.; Controric. M. I. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore da mobbing e da demansionamento - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. - Configurabilità - Condizioni - Onere probatorio del lavoratore danneggiato - Oggetto - Dimostrazione dell'avvenuta violazione di regole contrattuali o legali o della mancata adozione di misure di prevenzione - Necessità

Lavoro subordinato - Mobbing - Nozione - Danno alla salute - Nesso eziologico - Intento persecutorio - Necessità

La responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subìto un danno alla salute l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze, l'onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.
Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
NOTA
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Ancona che, conformemente a quanto statuito dal giudice di prime cure, aveva rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno da mobbing, per le «continue vessazioni» e «vicissitudini lavorative» cui sarebbe stato sottoposto da parte del proprio datore di lavoro e per l'asserito demansionamento subìto.
In particolare, la Corte territoriale aveva rilevato che le circostanze di fatto addotte dal lavoratore a sostegno sia del lamentato mobbing, sia del demansionamento (dedotto anche nella forma dello svuotamento di mansioni) non avessero trovato riscontro nelle risultanze istruttorie e che, quindi, non vi fosse stata violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di tutela delle condizioni di lavoro del dipendente.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che deduceva, in particolare, la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3, c.p.c., per non avere il datore di lavoro posto in essere tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Anzitutto, ha ricordato che la responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma è di natura contrattuale per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore, che lamenti di aver subìto a causa dell'attività lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza del danno e la nocività dell'ambiente di lavoro. Solo una volta soddisfatto tale onere probatorio, sarà il datore di lavoro a dover provare di «avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi» (Cass. n. 2038/2013, Cass. n. 3786/2009 e Cass. n. 3788/2009).
La Suprema Corte, ricordando la nozione di mobbing più volte affermata (Cass. n. 26684/2017, Cass. n. 898/2014, Cass. n. 17698/2014, Cass. n. 18836/2013 e Cass. n. 3785/2009), ha poi ribadito che, ai fini della sussistenza di una rilevante condotta lesiva del datore di lavoro, è necessario che via siano sia l'elemento oggettivo (molteplicità e sistematicità di comportamenti vessatori), sia l'elemento soggettivo (intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi). L'accertamento di tali elementi è rimesso al giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, ed è riservato al giudice di merito, il quale dovrà valutare, in maniera rigorosa, entrambi gli elementi costitutivi della fattispecie.
La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto la pronuncia gravata immune da censure e concluso per l'inammissibilità del ricorso.

Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore/1

Cass. Sez. Lav. 21 maggio 2019, n. 13643

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; Ric. N.E; Controric. INAIL; G.D.; U.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Comportamento colposo del lavoratore – Responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità e imprevedibilità della condotta del lavoratore - Accertamento.

Al fine dell'affermazione della responsabilità del datore di lavoro per mancato rispetto dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. è necessario che l'evento dannoso sia riferibile a sua colpa. Il relativo accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore subì un infortunio sul lavoro, indennizzato dall'INAIL. Il lavoratore esperì un'azione di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. nei confronti della Società per il risarcimento del c.d. danno differenziale. Tale domanda, respinta in primo grado, veniva accolta dalla Corte d'appello di Firenze che accertava la responsabilità della Società, in quanto rimasta inadempiente ai propri obblighi di sicurezza. La Corte d'appello, inoltre, accertava, che la condotta del lavoratore infortunato non potesse considerarsi abnorme. La Società veniva quindi condannata al pagamento del danno differenziale. La Corte d'appello accoglieva poi l'azione di regresso proposta dall'INAIL, rilevando che il datore di lavoro si era reso responsabile di condotte integranti gli estremi del reato di lesioni colpose gravi e per tale titolo condannava la Società a rimborsare all'INAIL il costo dell'infortunio. Dichiarava infine la Compagnia di assicurazione obbligata a tenere indenne la Società di quanto la stessa era tenuta a corrispondere al lavoratore e all'INAIL nei limiti del massimale.
La Società ha proposto ricorso per Cassazione «per avere la sentenza violato le norme sulle prove legali omettendo di considerare la dichiarazione confessoria del lavoratore, il quale aveva ammesso che, eseguendo il ciclo produttivo della carta, aveva disattivato la sicurezza della ribobinatrice per rendere più rapida l'operazione di distacco delle steccate che erano rimaste incollate». La Società ha quindi ribadito il carattere abnorme e imprevedibile dell'azione posta in essere dal dipendente, consistita nella volontaria disattivazione delle misure di cautela, elusione cosciente delle norme di sicurezza da parte del lavoratore.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ricordando, anzitutto, che, «al fine dell'affermazione della responsabilità del datore di lavoro per mancato rispetto dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. è necessario che l'evento dannoso sia riferibile a sua colpa. Il relativo accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato. Elemento costitutivo della responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. è la colpa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore».
La Suprema Corte ha affermato che la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene protetto dall'art. 41, secondo comma Cost.
La Corte di legittimità conclude ritenendo che «l'operazione di sussunzione della fattispecie concreta, nei termini in cui è stata ricostruita dalla sentenza impugnata, in quella astratta di cui all'art. 2087 c.c. è conforme a diritto, mentre il prospettato carattere abnorme del comportamento posto in essere dal lavoratore muove da una diversa ricostruzione delle risultanze processuali, inammissibile» in sede di legittimità.

Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore/2

Cass. Sez. Lav. 21 maggio 2019, n. 13644

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; Ric. B.L.; Controric. G.I. S.p.A. e I. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Libertà e dignità del lavoratore - Tutela della salute e dell'integrità fisica - Responsabilità risarcitoria ex art. 2087 cod. civ. - Responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro - Configurabilità - Esclusione - Onere probatorio incombente rispettivamente sul lavoratore e sul datore di lavoro.

L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, nonché il nesso tra l'uno e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la lesione fisio-psichica del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
NOTA
Colla sentenza in commento, la Cassazione definisce i presupposti della responsabilità datoriale in caso di infortunio ex art. 2087 cod. civ.
Nel caso di specie, un dipendente, impegnato in una lavorazione di stampaggio di metalli, veniva colpito all'occhio destro da un corpo estraneo, riportando una lesione fisica, di cui chiedeva, giudizialmente, il risarcimento, adducendo l'inadeguatezza dei dispositivi di protezione messi a disposizione dall'azienda nonché la carenza di informazione e formazione sui rischi lavoro-correlati.
Entrambi i Giudici del merito rigettavano la pretesa, sull'assunto che l'attività lavorativa cui era dedito il dipendente al momento dell'incidente era specificamente proceduralizzata nel documento di valutazione dei rischi aziendali e che le relative prescrizioni in tema di sicurezza erano state pedissequamente rispettate, essendo, tra il resto, stati forniti al lavoratore occhiali protettivi conformi alla normativa comunitaria e nazionale nonché impartito al ricorrente uno specifico addestramento inerente le criticità della mansione nonché il corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale.
Avverso tali decisioni, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione delle regole sul riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità ex art. 2087 cod. civ.
Il Supremo Collegio respinge il gravame, rammentando, anzitutto, che l'art. 2087 cit. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va sempre collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Sicché - argomenta la Cassazione - il lavoratore che agisca, nei confronti del datore, per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno. Solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze - conclude il Collegio - sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la lesione fisio-psichica del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Il corollario - a parere della Cassazione - è che l'ambito di responsabilità datoriale di cui all'art. 2087 non può fondarsi sul «mero presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell'evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova dell'inidoneità dei mezzi in concreto apprestati dal datore di lavoro», né tale responsabilità può essere fatta derivare dalla sola circostanza che l'evento lesivo si sia verificato.
Chiarito ciò, i Giudici di legittimità affermano che la Corte territoriale non ha affatto invertito l'onere probatorio, avendo incentrato il decisum sulla conformità degli occhiali forniti dall'azienda alle prescrizioni di legge e alla normativa regolamentare che disciplina i mezzi di protezione individuale, nonché sulla adeguatezza del mezzo di protezione alla particolare lavorazione cui era stato adibito il prestatore e, in definitiva, reputando sussistente la prova dell'assenza di una colpa datoriale relativa all'inosservanza di cautele specifiche inerenti alla particolare mansione.

La retribuzione corrisposta nel periodo di ferie

Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2019, n. 13425

Pres. Nobile; Rel. Marchese; Ric. D.G.; Controric. C.&T.S.P.A.+1;

Lavoro subordinato – Diritto alle ferie – Retribuzione di riferimento – Nozione di retribuzione di riferimento elaborata dalla Corte di Giustizia – Elementi cui rapportare la retribuzione di riferimento.

In tema di determinazione della retribuzione da corrispondere al lavoratore nel corso delle ferie annuali è compito del giudice di merito valutare, in primo luogo, il rapporto di funzionalità che intercorre tra i vari elementi che compongono la retribuzione complessiva del lavoratore e le mansioni ad esso affidate in ossequio al suo contratto di lavoro e, dall'altro, interpretate ed applicate le norme pertinenti del diritto interno conformemente al diritto dell'Unione, verificare se la retribuzione corrisposta al lavoratore, durante il periodo minimo di ferie annuali, sia corrispondente a quella fissata, con carattere imperativo ed incondizionato, dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE.
NOTA
Nel caso in esame il Tribunale di Messina aveva respinto la richiesta del lavoratore di dichiarare la natura retributiva dell'indennità di navigazione «Stretto di Messina» prevista dal contratto collettivo aziendale, con conseguente inclusione della stessa nella base di calcolo della retribuzione imponibile e di quella del TFR e condanna del datore di lavoro al pagamento delle connesse differenze retributive relative a gratifiche e ferie, nonché al versamento delle differenze contributive.
Il gravame proposto dal lavoratore contro tale decisione veniva respinto dalla Corte d'Appello di Messina. La Corte territoriale evidenziava che l'indennità di navigazione in esame, relativa alla tratta dello stretto di Messina, costituiva un emolumento equivalente a quelli previsti dai CCNL di settore per compensare il disagio delle tratte a lunga percorrenza e che, in tali contratti, sono espressamente qualificati come indennità non retributive e non computabili nelle basi di calcolo degli istituti indiretti.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che sosteneva, per quanto qui interessa, che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere l'indennità in parola non computabile nella base di calcolo per la retribuzione del periodo feriale.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo d'impugnazione e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo.
In particolare, la Cassazione ha fondato la sua decisione sulla Direttiva 2003/88/CE, con particolare riferimento all'art. 7 ed alla giurisprudenza elaborata dalla Corte di Giustizia in merito. La Corte di Cassazione ha evidenziato come il diritto alle ferie e quello alla retribuzione delle stesse rappresentino, in sostanza, due facce della stessa medaglia poiché – secondo la Corte – l'espressione «ferie annuali retribuite» di cui all'art. 7 della Direttiva sta a significare che, per la durata delle ferie annuali, deve essere mantenuta la retribuzione ordinaria, in modo che il lavoratore non sia scoraggiato nella fruizione delle ferie dalla previsione di una retribuzione più bassa rispetto ai periodi di lavoro effettivo. La Suprema Corte ha poi proseguito citando una decisione della Corte di Giustizia nell'ambito della quale si dichiarava che «qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all'esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva del lavoratore [...] deve obbligatoriamente essere preso in considerazione ai fini dell'ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali». Sempre per la Corte di Giustizia, secondo quanto riporta la Cassazione, nel calcolo della retribuzione dovuta in corso di ferie vanno tenuti in considerazione gli elementi ricollegati allo status personale e professionale del lavoratore mentre vanno esclusi quelli destinati a coprire spese meramente occasionali. A conclusione di tale excursus ed in considerazione di quanto sopra la Suprema Corte ha rilevato l'esistenza di una nozione europea di retribuzione dovuta al lavoratore durante il periodo di ferie annuali, fissata dall'art. 7 della direttiva 88/2003, come interpretato dalla Corte di Giustizia. Per la Cassazione, pertanto, nel caso in cui il giudice di merito sia chiamato a verificare l'adeguatezza della retribuzione corrisposta al lavoratore nel periodo di ferie è suo compito «valutare, in primo luogo, il rapporto di funzionalità che intercorre tra i vari elementi che compongono la retribuzione complessiva del lavoratore e le mansioni ad esso affidate in ossequio al suo contratto di lavoro e, dall'altro, interpretate ed applicate le norme pertinenti del diritto interno conformemente al diritto dell'Unione, verificare se la retribuzione corrisposta al lavoratore, durante il periodo minimo di ferie annuali, sia corrispondente a quella fissata, con carattere imperativo ed incondizionato, dall'art. 7 della direttiva 2003/88/CE.».
Secondo la Cassazione la decisione della Corte d'Appello di Messina è errata poiché la stessa non ha effettuato la verifica di cui sopra in relazione all'indennità di navigazione in esame.

Giusta causa di licenziamento e fattispecie tipizzata dal contratto collettivo

Cass. Sez. Lav. 20 maggio 2019, n. 13534

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Cimmino; Ric. M.M.; Contr. G.C. S.p.A.;

Giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Nozione legale – Fattispecie tipizzata dal contratto collettivo – Non vincolatività – Accertamento in concreto della gravità condotta – Necessità – Distinzione con sanzioni conservative.

Nel rapporto tra le previsioni del contratto collettivo e i fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, deve affermarsi che la contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole al dipendente, pertanto anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, stante la nozione legale di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, deve essere in ogni caso effettuato un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento del lavoratore. Al contrario, la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al dipendente, in quanto ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore, il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità della condotta, compiuta dalla autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.
NOTA
Il Tribunale di Sassari, confermando l'ordinanza della fase sommaria, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente, addetta alle vendite, per essere venuta alle mani con altra collega in presenza della clientela. Il Tribunale aveva ritenuto legittimo che la dipendente licenziata avesse reagito ad un precedente schiaffo inferto dalla collega, colpendo quest'ultima con una cartella di plexiglass.
Proposto gravame, la Corte di appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la legittimità del recesso intimato, in quanto la lavoratrice licenziata aveva volontariamente creato la situazione di pericolo, poiché, pur sapendo del carattere aggressivo e violento della collega, non aveva esitato ad intimare alla stessa di comportarsi in un determinato modo nei suoi confronti, intimazione non solo inopportuna - atteso che la stessa ne aveva già segnalato il comportamento scorretto ai suoi responsabili - ma anche perchè effettuata in presenza di altre colleghe e di un cliente, così dimostrando di voler amplificare il disagio e l'imbarazzo della collega. Conseguentemente, secondo la Corte di appello, tale pregresso comportamento doveva ritenersi idoneo a far venire meno la necessità della reazione allo schiaffo dovuto al precedente comportamento della lavoratrice licenziata.
Avverso tale decisione, la lavoratrice propone ricorso per cassazione denunciando la violazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 229 CCNL dipendenti aziende del terziario, in quanto il diverbio litigioso seguito da vie di fatto, a parere della ricorrente, non potrebbe condurre al licenziamento nell'ipotesi in cui si reagisca all'altrui aggressione, come sarebbe avvenuto nel caso di specie.
La Cassazione respinge il ricorso, evidenziando, in primo luogo, che la contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole al dipendente, pertanto anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, stante la nozione legale di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, deve essere in ogni caso effettuato un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo del dolo e della colpa (Cass. n. 8826 del 5 aprile 2017; n. 10842 del 25 maggio 2016). Dalla natura legale della nozione deriva che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa e non precluda un'autonoma valutazione da parte del giudice di merito in ordine alla idoneità della condotta a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. In senso opposto, invece, la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al dipendente, in quanto ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore, il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità della condotta, compiuta dalla autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (Cass. n. 8718, del 4 aprile 2017; n. 9223 del 7 maggio 2015).
Tanto premesso, a parere della Suprema Corte, i giudici di merito, nel caso sottoposto al loro esame, hanno correttamente proceduto a valutare tutti gli elementi concreti, ivi comprese le fasi precedenti all'avvenuto passaggio alle vie di fatto, giudicando la condotta della licenziata come volta a provocare la collega e, quindi, non paragonabile a quella del lavoratore che si limiti a reagire all'altrui aggressione. Per tali ragioni il ricorso della lavoratrice viene integralmente respinto.

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