Contenzioso

Quando il part time non è regolato in forma scritta, orario full time ma solo se il dipendente mette in mora l’azienda

di Angelina Turco

In caso di nullità del contratto part time per difetto della forma scritta prevista ad substantiam dalla legge, il rapporto di lavoro deve considerarsi come un ordinario rapporto full time, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione parametrata a un orario a tempo pieno, solo ove risulti la messa in mora del datore di lavoro, in coerenza col principio di corrispettività delle prestazioni.

È il principio affermato dalla Corte di cassazione con sentenza del 30 maggio 2019, numero 14797, con la quale cassa la decisione della Corte d'appello, giacché aveva aderito a un orientamento giurisprudenziale (Cassazione 4482/1991; 6487/1993; 5265/1994) da considerarsi superato alla luce delle pronunce della Corte costituzionale numero 210 del 1992 e 283 del 2005 e delle più recenti pronunce di legittimità.

I giudici di Cassazione ripercorrono in prima battuta il percorso logico svolto dalla Corte costituzionale, nella sentenza 210/1992 (si veda anche la sentenza 283/2005), che nell'esaminare la questione specifica della nullità della clausola di distribuzione dell'orario part time priva della necessaria determinatezza, tra i principi validi in generale a individuare le conseguenze della nullità del contratto part time per difetto dei requisiti di contenuto o forma prescritti da norme imperative di legge, ha affermato che «deve quindi escludersi che, nell'ipotesi di nullità della clausola di riduzione e distribuzione dell'orario di lavoro che dia al datore di lavoro il potere di variare liberamente e unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, si possa verificare l'estensione della nullità all'intero contratto».

L'altro tema specifico, e altrettanto importante, affrontato dalla sentenza è quello della necessità della cosiddetta "mora accipiendi", ovvero della messa in mora del datore di lavoro quanto alle residue energie lavorative. A tal proposito la Cassazione richiama l'ampia elaborazione della giurisprudenza di legittimità che, in base alla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel contratto di lavoro, ha precisato come la retribuzione spetti al lavoratore soltanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, a condizione che il datore di lavoro versi in una situazione di "mora accipiendi" (Cassazione. 20316/2008 e sezioni unite 2990/ 2018). Ne deriva quindi la necessità, ritiene opportuno esplicitare la Suprema corte, «per ottenere il risarcimento, che il lavoratore si attivi per offrire l'esecuzione delle prestazioni, costituendo in mora il datore di lavoro nelle forme di cui all'art. 1217 c.c., ossia, "mediante l'intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla possibile" o anche "nelle forme d'uso"».

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