Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Adozione internazionale e congedo parentale
Recesso ante tempus dal contratto a termine

Licenziamento per giusta causa/1

Cass. Sez. Lav. 4 giugno 2019, n. 15168

Pres. Nobile; Rel. Arienzo; Ric. C. A. C.; Controric. C.F.

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa – Vincolo di fiducia - Lesione - Diligenza professionale generica – Comportamento omissivo - Accertamento

L'omessa vigilanza da parte del quadro direttivo sulla condotta fraudolenta posta in essere da un sottoposto integra una violazione del dovere di diligenza professionale generica di cui al primo comma dell'art. 2104 c.c. Detto comportamento omissivo, infatti, anche in presenza di un regolamento interno meno stringente in termini di doveri di controllo, è idoneo a vulnerare in maniera irreparabile il peculiare vincolo di fiducia con il datore, date l`importanza e la delicatezza delle funzioni attribuite al responsabile.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli per giusta causa per avere favorito l'operatività fraudolenta di un dipendente del quale il ricorrente era responsabile in quanto Direttore della Banca.
Il Tribunale annullava il licenziamento, ritenendo non sussistente la condotta ascritta, e condannava la Società alla reintegra del lavoratore nel posto di lavoro ed alla corresponsione di un'indennità pari a 18 mensilità.
La Corte d'appello rigettava il reclamo proposto dalla Società ritenendo prive di rilevanza disciplinare una serie di omissioni contestate al lavoratore che avrebbero favorito l'operatività fraudolenta del sottoposto essendo stati rispettati i regolamenti interni allora vigenti.
La Banca ha proposto ricorso per Cassazione «per violazione dell'art. 2104 c.c., in relazione all'art. 2119 c.c. ed all'art. 3 l. 604/66, assumendo che la diligenza del prestatore di lavoro si articola su due livelli, di cui il primo è quello della diligenza professionale generica, trattata dall'art. 2104 c.c., ed il secondo è quello del livello di diligenza professionale specifica, la cui operatività è eventuale in quanto dettata da possibili disposizioni datoriali aggiuntive rispetto all'obbligo di diligenza generica». La Società ha rilevato che la Corte di merito ha erroneamente preso in considerazione solo il secondo e secondario dei due profili, mancando di applicare il prioritario parametro della diligenza professionale generica, basata sulla natura della prestazione e sull'interesse dell'impresa. In particolare, come previsto da circolari interne, nella mansione del lavoratore rientrava la funzione di controllo, di correzione e di prevenzione di anomalie sull' operatività dei processi interni.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso della Banca ritenendo che la valutazione operata dalla Corte d'appello con riferimento al parametro della diligenza professionale generica, di cui al primo comma dell'art. 2104 c.c., non sia stata condotta in conformità alla previsione dell'art. 2119 c.c. La Corte di legittimità ha ricordato che l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
La Suprema Corte ha, quindi, accolto il ricorso rilevando che «la sentenza impugnata non si è attenuta ai principi sopra richiamati, avendo omesso di considerare, in una prospettiva unitaria, tutti gli addebiti formulati posti a fondamento del recesso della Società, e al di là di una considerazione di conformità degli stessi alla disciplina regolamentare interna che, ratione temporis, era meno stringente in termini di doveri di controllo del responsabile dell'ufficio o filiale rispetto a quella successivamente introdotta, non ha preso in considerazione il disvalore sociale comunque espresso della condotta ascritta al lavoratore, sul piano dei doveri generali di diligenza nell'esecuzione della prestazione dovuta. È stata omessa ogni considerazione della notevole entità dell'importo che si asserisce essere stato sottratto, con condotta fraudolenta, dal dipendente della società sul quale è pacifico che il ricorrente dovesse comunque vigilare in ragione del ruolo ricoperto nella filiale».

Licenziamento per giusta causa/2

Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2019, n. 14787

Pres. Manna; Rel. Leo; Ric.ti S.G. e M.V.; Controric. I.V. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale per giusta causa - Giusta causa di licenziamento - Nozione - Impossibilità di prosecuzione anche provvisoria del rapporto - Riammissione in servizio – Incompatibilità.

In tema di giusta causa, l'adozione da parte del datore di comportamenti incompatibili con l'impossibilità di prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro si pone in contrasto con il perdurare della giusta causa di recesso in quanto esprime una volontà contraria all'intento solutorio datoriale (nella specie, un istituto di vigilanza - dopo aver inizialmente sospeso cautelarmente due guardie giurate sottoposte a procedimento penale per il reato di truffa - le aveva riammesse temporaneamente in servizio per ragioni economiche e poi licenziate in tronco).
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha ribadito, anzitutto, il consolidato orientamento secondo il quale la giusta causa di licenziamento, intesa come evento «che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», integra una clausola generale, il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede che sia colmato dall'interprete mediante la valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, i quali hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. La Cassazione ha, altresì, puntualizzato che, alla luce della predetta nozione, è esclusa la sussistenza di una giusta causa di recesso allorché il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare venga riammesso in servizio.
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Milano aveva rigettato il reclamo proposto da due dipendenti avverso la pronuncia del Tribunale della stessa sede, con la quale era stato confermato il licenziamento in tronco dei lavoratori a causa di truffe che gli stessi, responsabili della gestione del parco auto della società datrice, avevano attuato in danno di quest'ultima di concerto con il gestore di un impianto di benzina.
I dipendenti proponevano, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando, tra gli altri motivi, la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., per inesistenza di una giusta causa di recesso. In particolare, i lavoratori licenziati si dolevano che la Corte distrettuale aveva omesso di verificare in concreto il comportamento della datrice di lavoro, la quale, a seguito del rinvio a giudizio dei lavoratori, aveva espressamente dichiarato per iscritto alla Prefettura di Milano di essere consapevole di dover reintegrare i due dipendenti nel luogo di lavoro, a seguito della sospensione cautelare, «qualora non fosse intervenuta la sospensione dei titoli di P.S. (possesso d'armi) da parte del Prefetto». A parere dei dipendenti, dunque, i Giudici di merito, ritenendo che «l'esigenza di reintegrare in servizio le guardie giurate derivasse solo da motivi economici e non certo da una valutazione di non rilevanza disciplinare dei fatti», avevano omesso di valutare come detta esigenza e la correlativa volontà aziendale, indipendentemente dalla relativa motivazione, erano in patente contrasto con, sin tanto da escludere, la compromissione del vincolo fiduciario tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.
La Cassazione accoglie tale censura, statuendo che, in tema di giusta causa, l'adozione da parte del datore di comportamenti incompatibili con l'impossibilità di prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro si pone in contrasto con il perdurare della giusta causa di recesso in quanto esprime una volontà contraria all'intento solutorio datoriale.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2019, n. 13203

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; Ric. G.F.; Controric. O.M.S.A.C. S.r.l.; A.I. S.p.A.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Obbligo del datore di lavoro non solo di adottare idonee misure protettive ma anche di vigilare sull'uso di tali misure da parte dei dipendenti - Conseguenze

Il datore di lavoro è tenuto ad adottare idonee misure protettive che garantiscano la sicurezza sul lavoro e a vigilare sull'uso di tali misure da parte dei dipendenti. Ove tale controllo venga omesso, il comportamento (omissivo) del datore di lavoro costituisce inadempimento agli obblighi di protezione ed è tale da esaurire il nesso eziologico dell'infortunio occorso al lavoratore, così da radicarne in via esclusiva la responsabilità in capo all'azienda.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore, mentre era impegnato in una lavorazione al tornio, veniva colpito all'occhio sinistro da un pezzo metallico, riportando una lesione fisica che veniva indennizzata dall'INAIL. Il lavoratore, esperita l'azione di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. nei confronti della Società per il risarcimento del c.d. danno differenziale, vedeva respingersi la domanda in primo grado. La Corte d'appello di Salerno riformava tale sentenza e, pur accertando la responsabilità della Società per non avere imposto al dipendente l'uso dello schermo protettivo da montare sul tornio, riteneva altresì sussistente un concorso di colpa del lavoratore, avendo questi omesso di indossare le lenti protettive fornitegli dal datore di lavoro.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1227, 2087, 2697 c.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per erroneo riconoscimento del suo concorso di colpa.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, avendo l'istruttoria evidenziato, da un lato, che, al momento dell'incidente, il tornio era sprovvisto dello schermo protettivo, dall'altro, che il datore di lavoro aveva omesso il controllo sull'effettivo utilizzo da parte del lavoratore dei dispositivi di protezione forniti.
La Corte di Cassazione, sulla scorta di tali risultanze, ha dunque ritenuto sussistente l'esclusiva responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio occorso al lavoratore ed ha affermato che detta responsabilità sussiste sia quando il datore di lavoro ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore. Infatti, la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (cfr., in questo senso: Cass. 13 ottobre 2000, n. 13690; Cass. 21 maggio 2002 n. 7454; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656).
Nel caso di specie era dunque emerso che la società, rendendosi inadempiente rispetto ai propri obblighi protettivi nei confronti del lavoratore, aveva "esaurito" «il nesso eziologico dell'infortunio occorso al lavoratore, così da radicarne in via esclusiva la responsabilità», a nulla rilevando il contributo concausale dato dal lavoratore con il proprio comportamento (non anomalo o imprevedibile) alla verificazione dell'infortunio.

Adozione internazionale e congedo parentale

Cass. Sez. Lav. 29 maggio 2019, n. 14678

Pres. D'Antonio; Rel. Calafiore; P.M. Celeste; Ric. I.N.P.S.; Contr. B.A.;

Adozione internazionale – Congedo parentale – Art. 36, d. lgs. 151/2001 – Condizione – Ingresso del minore in Italia – Necessità.

In ipotesi di adozione internazionale, il congedo parentale da parte del padre adottivo di minore straniero, ai sensi dell'art. 36, d. lgs. n. 151 del 2001, non può essere fruito prima dell'ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato Italiano perché è solo dopo tale evento che avviene l'"ingresso del minore in famiglia", quale condizione voluta dalla legge per la fruizione del predetto congedo. Conseguentemente, per il periodo precedente di permanenza all'estero del futuro genitore, questi non ha diritto ad alcuna copertura economica o previdenziale, essendo solo garantita la salvaguardia del rapporto di lavoro subordinato.
NOTA
La Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda proposta da A.B. tesa ad ottenere il congedo parentale per astensione facoltativa per il periodo 27 dicembre 2010/20 febbraio 2011, relativa all'adozione, di un minore cittadino polacco, autorizzato all'ingresso in Italia con decreto del 2 febbraio 2011.
Ad avviso della Corte di merito, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, l'art. 36, d. lgs. n. 151/2001, non vincolerebbe il diritto al congedo parentale all'ingresso del minore in Italia ma farebbe espresso riferimento al suo "ingresso in famiglia" e, nel caso in esame, il bambino era stato affidato alla famiglia adottiva in Polonia, il 20 dicembre 2010, data a decorrere dalla quale il padre avrebbe avuto diritto a fruire del congedo in parola. Avverso tale pronuncia l'ente previdenziale propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 26 e 36 del d. lgs. 151/2001, in quanto la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere che il padre adottivo potesse fruire del congedo parentale prima dell'ingresso del minore in Italia.
La Corte di cassazione, dopo un approfondito esame della normativa in questione, accoglie il ricorso. In sintesi, affermano i giudici di legittimità, nel caso di minori stranieri, la legge riconosce, ad entrambi i genitori, il diritto alla permanenza all'estero per tutto il tempo necessario all'adozione. Si tratta di un congedo, precisa la Cassazione, che può essere fruito contemporaneamente da entrambi i genitori ma che non dà diritto a copertura economica né previdenziale, essendo solo garantita la salvaguardia del rapporto di lavoro subordinato; tale congedo preliminare, costituisce deroga al principio - previsto per le adozioni nazionali - che i congedi decorrono solo successivamente all'ingresso del bambino nel nucleo familiare. Le tutele previdenziali previste per i lavoratori (futuri genitori) presso lo stato estero costituiscono previsioni specifiche del tutto peculiari e, l'ingresso del minore e dei genitori adottanti nel territorio nazionale, realizza l'evento giuridico che deve essere considerato come momento di inizio del definitivo inserimento del minore all'interno del nucleo familiare, mentre tale situazione non può dirsi giuridicamente presente nelle fasi antecedenti.
In tal senso, quindi, la sentenza impugnata ha errato nel ritenere equiparabile all'ingresso in famiglia del minore adottato in Italia, la diversa ipotesi dell'affidamento alla famiglia adottiva del minore straniero nel territorio estero; conseguentemente, la Suprema Corte cassa la pronuncia e rinvia alla Corte di appello di Torino perché si uniformi al principio espresso.

Recesso ante tempus dal contratto a termine

Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2019, n. 14799

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; Ric. C.G.; Controric. A.S.P.A.;

Lavoro subordinato – Contratto a tempo determinato – Raggiungimento età pensionabile – Causa di estinzione automatica del rapporto – Esclusione – Recesso ante tempus – Illegittimità

Nel lavoro subordinato privato è regola generale quella secondo la quale la tipicità e tassatività delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, ancorché contemplate dalla contrattazione collettiva, in quanto il raggiungimento dei requisiti per l'attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determina il venir meno del regime di stabilità (con conseguente recedibilità ad nutum) ma non l'automatica estinzione del rapporto
NOTA
Nel caso in esame il lavoratore, assunto dalla società datrice con contratto dirigenziale a termine, veniva collocato a riposo a seguito del raggiungimento dell'età pensionabile. Il lavoratore impugnava il licenziamento dinanzi al Tribunale di Palermo sostenendo, tra le altre cose, di non aver raggiunto l'età pensionabile prevista dalla normativa applicabile e che, comunque, la stessa prevedesse non un obbligo di collocamento a riposo al raggiungimento dell'età pensionabile ma una mera facoltà. Il lavoratore sosteneva altresì che il rapporto dovesse essere considerato a tempo indeterminato in virtù dei numerosi rinnovi occorsi, che il recesso datoriale fosse discriminatorio e lamentava il mancato pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. Il giudice di prime cure accoglieva esclusivamente la domanda relativa all'indennità sostitutiva del preavviso, mentre la Corte d'Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava tutte le domande del lavoratore.
La Corte territoriale, infatti, dapprima escludeva la sussistenza degli estremi per la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, successivamente riteneva che il lavoratore avesse maturato all'epoca del recesso i requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità secondo la normativa applicabile ratione temporis e che, pertanto, il recesso datoriale fosse giustificato, sostenendo peraltro che non vi fosse prova alcuna della natura discriminatoria dello stesso.
Contro tale decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che sosteneva, per quanto qui interessa, che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere il raggiungimento dell'età pensionabile una causa legittima di recesso dal contratto a termine di natura dirigenziale, osservando altresì che l'obbligo di pensionamento opera soltanto nell'ambito del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo di impugnazione e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo in diversa composizione.
In particolare, la Cassazione, dopo aver confermato la natura privatistica del rapporto oggetto di disamina, ha confermato il suo costante orientamento secondo il quale «nel lavoro subordinato privato è regola generale quella secondo la quale la tipicità e tassatività delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, ancorché contemplate dalla contrattazione collettiva, in quanto il raggiungimento dei requisiti per l'attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determina il venir meno del regime di stabilità (con conseguente recedibilità ad nutum) ma non l'automatica estinzione del rapporto».
Per la Corte, dunque, la sentenza in esame si pone in contrasto con tali principi in quanto ritiene che il raggiungimento dell'età pensionabile si ponga in contrasto con la prosecuzione del rapporto a termine e giustifichi il recesso del datore.

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