Contenzioso

Nei licenziamenti sotto esame la sussistenza del fatto

di Arturo Maresca

Con le sentenze dell’8 e 9 maggio 2019, nn. 12174 e 12365, sul regime sanzionatorio del licenziamento disciplinare ingiustificato la Cassazione ha assolto al compito che l’Ordinamento le affida istituzionalmente di individuare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» (nomofilachia).

Infatti la Corte, intervenendo per la prima volta sulla disciplina delle tutele crescenti (Dlgs 23/15, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015), ha chiarito, anche attraverso un efficace parallelismo con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le ipotesi residuali in cui opera ancora la reintegrazione, ossia quando il “fatto” oggetto della contestazione disciplinare è: a) insussistente (sia nell’articolo 18, sia nelle tutele crescenti); b) oppure si identifica (ma solo nell’articolo 18) con una delle infrazioni tipizzate nel codice disciplinare e punite con una sanzione conservativa (e non espulsiva).

Esaminando in questa sede solo la prima sentenza (12174/19) si deve muovere dal principio di diritto in essa chiaramente enunciato che collega la reintegrazione all’«insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, [ma che] comprende non soltanto i casi in cui il fatto non sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».

All’interno di questo principio si possono individuare due nuclei che definiscono e differenziano il campo dell’indagine del Giudice: il primo riguarda «l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», il secondo concerne l’oggetto dell’indagine che «comprende non soltanto i casi in cui il fatto non sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare».

I due profili, diversamente da quanto alcuni commentatori hanno evidenziato, sono tra loro complementari e l’uno sorregge la funzionalità dell’altro a condizione che non si confondano o sovrappongano i due ambiti dell’indagine, che devono rimanere distinti nei rispettivi perimetri: a) l’insussistenza del fatto non può trasmodare in una valutazione di proporzionalità; b) il fatto contestato deve necessariamente integrare un illecito disciplinare.

Secondo la Cassazione l’indagine relativa alla «insussistenza del fatto contestato» deve prendere le mosse dal «fatto», come individuato nella lettera di contestazione disciplinare, verificando poi: a) sul piano oggettivo, l’idoneità del «fatto» a configurare un illecito disciplinare; b) nonché l’effettivo accadimento del fatto storico; c) … anche per quanto concerne gli elementi – soltanto se eventualmente inseriti nella contestazione – che concorrono a definire e qualificare il «fatto»: ad esempio, l’intenzionalità (se è contesto il danneggiamento degli strumenti di lavoro) o le sue conseguenze (in relazione ai danni prodotti), la reiterazione; d) … espungendo, per converso, gli elementi che, seppur descritti nella contestazione, si palesano irrilevanti ad integrare l’illecito disciplinare, ciò potrebbe riguardare i complementi di luogo o tempo; e) resta, invece, estranea all’accertamento la «minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità» (Cass. 18418/2016) che non ha nulla a che vedere con la sussistenza; f) infine, sul piano soggettivo, dovrà essere acclarato non solo che il lavoratore è l’autore del «fatto», ma anche che ne abbia la responsabilità (in quanto il «fatto» è a lui giuridicamente imputabile e non indotto da una forza maggiore).

Il punto centrale di questa ricostruzione è proprio la distinzione tra i due concetti: quello dell’insussistenza «del fatto contestato» e, l’altro, della valutazione della sua proporzionalità. Una distinzione palese (o, almeno, che dovrebbe essere tale), con il primo si nega che il fatto sia avvenuto, mentre il secondo ne presuppone l’esistenza, per misurarne la (maggiore o minore) gravità.

La valutazione in termini di proporzionalità della sanzione applicata (il licenziamento) rispetto all’infrazione commessa resta necessaria e determinante ex articolo 2106 del Codice civile, ma solo per accertare la legittimità del licenziamento, mentre è irrilevante per individuare il rimedio (l’indennità o la reintegrazione) da applicare a seguito dell’esito negativo di tale accertamento (come, del resto, è sempre avvenuto anche in passato).

Su questo punto si è registrato quello che può essere considerato un vero e proprio depistaggio interpretativo chiarito dalla sentenza della Cassazione. Infatti veniva evocata l’antitesi tra fatto materiale e fatto giuridico, per poi qualificare il «fatto contestato» come fatto giuridico allo scopo di sostenere, a mo’ di conseguenza indefettibile di tale qualificazione, la necessità di valutarne anche la proporzionalità e non solo l’insussistenza.

La Cassazione ha corretto l’erroneità di questo falso sillogismo, evidenziando che la condizione per applicare la reintegrazione è (e non potrebbe essere diversamente) quella posta dal legislatore, cioè l’insussistenza del «fatto contestato» e che rispetto ad essa è inconferente ogni valutazione in termini di proporzionalità. Tutto ciò, peraltro, non presenta – come precisa la Cassazione – differenze sostanziali tra l’articolo 18 e le tutele crescenti, sebbene in questa occasione il «fatto» sia stato normativamente qualificato come «materiale». Ma ciò è avvenuto proprio perché il legislatore ha voluto cogliere tale occasione per evidenziare che l’alternativa tra reintegrazione e indennità deve essere decisa accertando la sussistenza del «fatto», «rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» (così espressamente l’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/15).

Come si è detto, la necessità di verificare che «il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare» non si pone in contrasto con tale conclusione, ma anzi ne costituisce un completamento. Verifica che la Cassazione sollecita a condurre, senza che possa essere data per scontata in base alla descrizione dell’infrazione contenuta nella lettera di contestazione (nel caso esaminato dalla sentenza: l’allontanamento dal posto di lavoro).

Infatti la condotta del lavoratore potrebbe, almeno teoricamente, essere stata causata da una forza maggiore o, comunque, giustificata da un evento (il malore improvviso che non ha neppure consentito al dipendente di preavvertire il datore di lavoro) che ne escluderebbe in radice la natura di illecito disciplinare (una sorta di scriminante oggettiva).

È pur vero che queste eventualità secondo l’id quod plerunque accidit sono infrequenti, ma ciò non esclude affatto che vadano verificate da parte del Giudice di merito per poter stabilire, come indica la Cassazione, se il “fatto”, oggetto della contestazione, nella sua realizzazione si configuri o meno come illecito disciplinare.

Nel caso esaminato dalla sentenza in commento si può dire, ma solo dopo aver letto la motivazione della decisione di secondo grado poi riformata, che in essa la Cassazione avrebbe potuto ben trovare gli elementi sufficienti per acclarare la natura disciplinare dell’illecito del lavoratore, senza quindi la necessità di rimettere al Giudice del rinvio un nuovo esame.

Se questo è vero, si deve però anche dare atto che la sentenza cassata trascura del tutto di prendere posizione sul punto della rilevanza disciplinare del «fatto contestato», probabilmente ritenendolo scontato. Ma è proprio questa l’indicazione che si trae dalla sentenza in commento che pretende rigore, anche formale, su tale punto che è imprescindibile, non potendo essere omesso né dato per implicito.

La sentenza n. 121174/19 della Corte di cassazione

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