Contenzioso

Sicurezza, luci e ombre per chi lavora all’estero

di Cristina Casadei

Alberto C. è appena atterrato all’aeroporto di Istanbul. È un comandante di volo di una compagnia olandese dove è impiegato per le tratte cargo che arrivano nel paese a cavallo tra l’Europa Orientale e l’Asia Occidentale. Gli allarmi che la compagnia gli manda attraverso il suo smartphone sono sempre più frequenti: gli suggeriscono, o meglio ancora indicano, di rimanere dentro determinate aree, seguire certi percorsi e i consigli del vademecum aziendale, di non uscire solo, di mantenere un low profile per abbigliamento e accessori. Il coprifuoco è una costante della vita dei lavoratori di tutto il mondo che viaggiano all’estero, così come di quelli espatriati in paesi dagli equilibri geopolitici non facili. Nel nostro paese policy e procedure molto avanzate, come quelle delle multinazionali del settore oil&gas che operano in larga misura nei paesi cosiddetti a rischio, si affiancano a storie che lo sono meno. «Secondo i dati del ministero degli Affari esteri sono circa 40mila le aziende che hanno sedi o filiali all’estero - spiega la professoressa Paola Guerra, che nel 2009 ha fondato la Scuola Internazionale Etica & Sicurezza -. Di queste, però, soltanto una piccola parte, circa il 4% ha adottato adeguate misure. C’è un gap profondo tra i grandi gruppi che hanno adempiuto agli obblighi di legge e le aziende più piccole che invece devono fare ancora molta strada». L’Italia è sì il paese delle pmi, ma anche il paese che ha una quota elevatissima di export e partnership all’estero e «c’è molto da fare sulla security di espatriati e trasfertisti - continua Guerra -. Il decreto legislativo 81 del 2008 che ha rivisto e integrato la maggior parte dei decreti dagli anni 50 in poi, oltre ovviamente a contenere importanti novità, ha stabilito che al datore di lavoro spetta l’obbligo di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa in Italia come nel resto del mondo. Fino a poco tempo fa il percepito delle aziende, soprattutto piccole e medie, è stato: la sicurezza è un tema da sede. Non è così, come hanno dimostrato le cronache».

Oltre la sede

Sia che il lavoratore sia in sede, sia che sia all’estero per qualsiasi evento legato alla sua vita professionale, dalla conferenza all’avvio o controllo o manutenzione di un impianto, a una partnership, la sua salute e sicurezza sono in capo al datore di lavoro. Quando si parla di security dei lavoratori espatriati o trasfertisti, si parla di eventi legati a fattori esterni che possono nuocere o mettere in pericolo le persone e gli asset dell’azienda. Come la criminalità con rapine e rapimenti, l’eversione, il terrorismo di matrice religiosa. Paese che vai, quadro che trovi. Nella zona settentrionale del Caucaso, Cecenia, Dagestan, Inguscezia e Ossezia vi sono alti rischi di attacchi terroristici, in Russia c’è il problema degli incidenti automobilistici, in Venezuela, Messico, Colombia, Guatemala, Honduras e El Salvador i sequestri lampo organizzati da bande criminali stanno aumentando. La soluzione per le imprese che operano all’estero non può essere una polizza o uno strumento che interviene quando l’evento - dalla rapina, al rapimento, all’attentato terroristico - è già accaduto. L’integrazione con le comunità locali e la collaborazione pubblico privato nei paesi in cui si lavora è un passaggio fondamentale. La tecnologia e la digitalizzazione oggi consentono di condividere real time tutte le informazioni, vademecum, travel guide e app fanno il resto, ma non bastano. «Nelle aziende, siano esse grandi, medie e piccole, bisogna diffondere la cultura e la consapevolezza della sicurezza», dice Guerra. Gli obblighi di legge fanno riferimento a tre questioni.

La valutazione dei rischi

La prima è la valutazione di tutti i rischi, a livello globale. Non esiste, infatti, un paese più a rischio degli altri. Le cronache ci hanno mostrato che non c’è bisogno di arrivare fino in Libia, basta anche andare in Francia e capitare nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. «Tutti i paesi sono a rischio», sintetizza Guerra. Certamente oggi c’è il vantaggio offerto dalla tecnologia e dal digitale che consentono una diffusione real time delle informazioni. A partire dalle informazioni della Farnesina, dei servizi di intelligence, delle fonti locali e della security in loco delle imprese stesse, anche attraverso algoritmi, oggi è possibile riuscire a fare una valutazione precisa dei rischi. E ad aggiornarla continuamente.

L’informazione e la formazione

Sulla sicurezza all’estero le piccole e medie aziende si stanno però interrogando e stanno cercando soluzioni, anche con il supporto delle associazioni industriali che organizzano workshop e seminari sul tema, come fa periodicamente Assolombarda che ha creato un osservatorio con la Scuola internazionale etica&sicurezza. Sul tema della sicurezza sono sempre di più le aziende che si sono via via dotate di apposite policy, condivise con i lavoratori, che «però non bastano. Fatta la policy è necessario, anche per legge, informare e formare i lavoratori sul paese nel quale andranno, sui rischi che potrebbero incontrare e dare precise procedure da seguire», continua Guerra. Se sulla propensione al rischio di ciascuna persona non è possibile intervenire, sulla sua percezione sì, attraverso le informazioni che aiutano a conoscere le realtà dei singoli paesi e a cogliere i segnali di rischio e pericolo, informazioni che devono essere costantemente aggiornate. Fatta la policy, informati i lavoratori, segue il percorso di formazione delle persone per far sì che le organizzazioni, a tutti i livelli, siano allineate. E attraverso la tecnologia e le molteplici app che sono state create ad hoc, possano accompagnare e tutelare i lavoratori all’estero.

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