Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Demansionamento e rifiuto del dipendente di altre posizioni lavorative
Trasferimento d'azienda illegittimo
Appalti e termine decadenziale per i contributi
Impugnazione di licenziamento collettivo
Annullamento delle dimissioni

Demansionamento e rifiuto del dipendente di altre posizioni lavorative

Cass. Sez. Lav. 1 luglio 2019, n. 17634

Pres. Nobile; Rel. Curcio; Ric. B.M.; Controric. T.I. S.p.A.

Lavoro subordinato - Riorganizzazione aziendale - Demansionamento - Oneri di allegazione a carico del lavoratore - Oneri probatori a carico del datore di lavoro - Dipendente che rifiuta una ricollocazione - Danno da demansionamento per la nuova posizione - Insussistenza

A seguito di una riorganizzazione aziendale, il dipendente che rifiuta due ricollocazioni, anche presso altra sede, non può poi chiedere il danno da demansionamento per le nuove mansioni assegnategli anche se esse siano in parte estranee alla professionalità e all'esperienza pregresse del lavoratore. Il rifiuto del dipendente di accettare le due posizioni offerte dalla società rappresenta, infatti, un elemento idoneo ad esonerare la responsabilità del datore per il dedotto inadempimento all'art. 2103 c.c.
NOTA
La Corte d'Appello di Brescia, in accoglimento dell'impugnativa promossa dalla società, respingeva la domanda di una lavoratrice volta all'accertamento del demansionamento subìto per l'essere stata adibita, a far tempo dal 2005, alle mansioni di addetta al "Customer care 187", a seguito della riduzione della forza lavoro della società nell'area di Brescia.
All'esito dell'istruttoria esperita era infatti risultato provato che la società aveva disposto la riorganizzazione aziendale di un proprio sito produttivo, con eliminazione di figure di supporto alla vendita. Nell'ambito di tale riorganizzazione la società aveva proposto alla dipendente due distinte posizioni lavorative, che venivano tuttavia dalla stessa rifiutate: l'una di addetta al supporto alla vendita presso la sede di Milano, l'altra di venditrice presso un negozio in franchising sito a Brescia.
Dall'istruttoria era inoltre emerso che le mansioni di "Customer care" erano in linea con il livello di inquadramento contrattuale della lavoratrice ed equivalenti a quelle di addetta alla vendita.
Avverso tale pronuncia la lavoratrice propone ricorso per Cassazione denunciando la sentenza nella parte in cui, pur avendo accertato il «mutamento in peius delle mansioni affidate dal 2005, ha poi ritenuto erroneamente non giustificato il rifiuto della lavoratrice di accettare il trasferimento a Milano o l'assunzione a Brescia presso altro datore di lavoro in franchising».
La Corte di Cassazione ha respinto tale motivo di impugnazione.
Condividendo la statuizione della Corte territoriale, la Suprema Corte ha infatti rilevato che il rifiuto opposto dalla lavoratrice di accettare le due posizioni offerte dalla società, esonerasse la stessa da responsabilità e che, quindi, non vi fosse stata violazione dell'art. 2103 c.c.
Al riguardo, la Corte ha infatti ricordato che, allorché da parte di un lavoratore sia allegato un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all'art. 1218 c.c., a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (in questo senso, Cass. n. 4766/2006 e Cass. n. 4211/2016).
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che non sussistesse detto inadempimento, posto che è risultato provato nell'ambito del giudizio di merito che le mansioni di "Customer care" non fossero dequalificanti rispetto al livello di inquadramento contrattuale della lavoratrice e che l'adibizione alle stesse fosse conseguenza della riorganizzazione aziendale in atto. La Corte ha altresì ritenuto giustificata «l'adibizione a mansioni in parte estranee alla professionalità e all'esperienza pregresse» della lavoratrice, stante il netto rifiuto dalla stessa opposto di accettare le due posizioni in precedenza offerte dalla società. Tale rifiuto è stato dunque ritenuto quale «elemento di esonero dalla responsabilità» del datore di lavoro al dedotto inadempimento all'art. 2103 c.c.
La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto la pronuncia gravata immune da censure e concluso per il rigetto del ricorso.

Trasferimento d'azienda illegittimo

Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2019, n. 17786

Pres. Napoletano; Rel. Patti; Ric. T. S.p.A.; Controric. M.P. + altri.

Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Cessione di ramo d'azienda - Nullità della cessione - Pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario - Effetto estintivo dell'obbligazione retributiva del cedente - Esclusione - Fondamento – Fattispecie.

In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto in base al quale, laddove sia accertata l'illegittimità del trasferimento di un ramo d'azienda, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera dell'originario cedente determina l'obbligo di quest'ultimo di corrispondere, a decorrere dalla messa in mora, le retribuzioni spettanti al lavoratore illegittimamente trasferito, le quali si cumulano con quelle già corrisposte dal cessionario, stante la natura retributiva e non risarcitoria di tale credito.
In particolare, nel caso in esame, la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato l'appello promosso dalla società cedente contro la sentenza di primo grado, con la quale era stato ingiunto a quest'ultima il pagamento delle retribuzioni maturate dai lavoratori nel periodo successivo all'accertamento dell'illegittimità del loro trasferimento, senza alcuna detrazione dell'aliunde perceptum.
La società, quindi, proponeva ricorso per Cassazione, sottoponendo alla Suprema Corte le seguenti questioni: i) se i crediti dei lavoratori, ossia gli emolumenti dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte della società cedente, avessero natura retributiva o risarcitoria; ii) se le somme percepite dai lavoratori, a titolo di retribuzione per l'attività prestata alle dipendenze della società cessionaria del ramo d'azienda, fossero o meno detraibili da tale credito.
La Suprema Corte, risolvendo la prima questione, ha ribadito il consolidato orientamento, già espresso in tema di interposizione di manodopera, in base al quale, ove ne sia accertata l'illegittimità, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro determina l'obbligo per il committente di corrispondere, a decorrere dalla messa in mora, le retribuzioni spettanti al lavoratore, riconoscendo quindi natura retributiva, e non risarcitoria, a tale credito del lavoratore (cfr. Cass. Sez. Unite n. 2990/2018).
A soluzione della seconda questione, la Suprema Corte ha precisato che, secondo un orientamento consolidato, il trasferimento ex art. 2112 cod. civ. si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale. Sicché, laddove il trasferimento sia dichiarato invalido (mancando, così, il requisito di cui all'art. 2112 cod. civ.) e non sia configurabile un caso di cessione negoziale (mancando l'elemento costitutivo del consenso della parte ceduta), il rapporto di lavoro non si trasferisce in capo al cessionario, bensì resta nella titolarità dell'originario cedente (cfr. da ultimo, Cass. n. 5998/2019).
Da ciò ne consegue che, mediante l'intimazione del lavoratore alla società cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), il debitore abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, dovendosi equiparare la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l'abbia resa impossibile, non compiendo gli atti di cooperazione necessari. Pertanto, così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impieghi le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dalla società cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.
Sulla base delle ragioni di diritto sopra enunciate, la Corte di cassazione ha concluso affermando che, essendo il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento poi dichiarato illegittimo) l'utilizzatore effettivo dell'attività del lavoratore, cui corrisponde in via corrispettiva la retribuzione dovuta, questi adempie ad un'obbligazione propria, non estinguendo sicuramente un debito altrui. Sicché, l'esistenza di un debito proprio per il nuovo datore di lavoro, generato dall'obbligo di retribuire le prestazioni del lavoratore ceduto, esclude ex se la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da parte del destinatario dell'originaria cessione.
Per tali motivi, la Corte ha rigettato il ricorso, affermando il seguente principio di diritto: «in caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa».

Appalti e termine decadenziale per i contributi

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2019, n. 18004

Pres. Manna; Rel. Calafiore; Ric. INPS; Controric. C.S.S.A.S.V.

Lavoro subordinato - Appalto - Responsabilità solidale contributi - Termine decadenza - Applicabilità ente previdenziale - Esclusione - Fondamento.

L'art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003 che pone il termine di decadenza di due anni dalla cessazione dell'appalto per l'esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e servizi nei confronti degli imprenditori appaltanti - pur facendo riferimento, oltre che ai diritti al trattamento economico e normativo, anche al diritto di pretendere l'adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali - limita l'ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore, non potendosi estendere invece l'efficacia della disposizione legislativa ad un soggetto terzo, quale l'ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono, pertanto, al termine biennale decadenziale.
NOTA
Nel caso di specie una Società adiva il Tribunale al fine di fare accertare l'infondatezza della pretesa contributiva avanzata dall'INPS attraverso il verbale ispettivo con il quale si era affermata la responsabilità solidale ex art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003. Il Tribunale accoglieva la domanda dichiarando l'inefficacia del verbale di accertamento sulla base del fatto che era decorso il termine di due anni dalla cessazione dell'appalto previsto per l'operatività della solidarietà di cui all'art. 29 d.lgs. n. 276 del 2003. La decisione veniva confermata anche in sede d'appello.
L'INPS ha proposto ricorso per cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 29, comma 2, d.lgs 276 del 2003, laddove si è ritenuto che il termine di decadenza si applichi anche all'INPS e non ai soli lavoratori.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ribadendo il principio secondo cui «l'articolo 29, secondo comma, d.lgs. n. 276 del 2003, oggetto nel tempo di svariate modifiche, è stato incentrato sulla previsione di un vincolo di solidarietà tra committente ed appaltatore, secondo un modulo legislativo che intende rafforzare l'adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell'imprenditore che impiega dipendenti da altro imprenditore il rischio economico di dover rispondere in prima persona alle eventuali omissioni di tale imprenditore». Il rafforzamento della garanzia dei lavoratori è perseguito dalla legge anche attraverso la specificazione che il committente deve corrispondere non solo i trattamenti retributivi ma anche i contributi previdenziali ai medesimi correlati.
La Corte di legittimità ha affermato che, per ragioni di ordine sistematico, «l'assenza, nell'art. 29 d.lgs n. 276 del 2003, di espresse regole relative alla pretesa contributiva ed in considerazione della diversa natura delle due obbligazioni, induce a ritenere applicabile alla fattispecie la disciplina generale dell'obbligazione contributiva che non prevede alcun termine di decadenza per l'esercizio dell'azione di accertamento dell'obbligo contributivo soggetto solo al termine prescrizionale».
Ha precisato, poi, che «l'obbligazione contributiva non si confonde con l'obbligo retributivo, posto che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha da tempo consolidato il principio secondo il quale il rapporto di lavoro e quello previdenziale, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi. L'obbligazione contributiva, derivante dalla legge e che fa capo all'INPS, è distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva, essa ha natura indisponibile e va commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente». Prosegue la Corte affermando che, proprio dalla peculiarità dell'oggetto dell'obbligazione contributiva, è inammissibile una interpretazione della norma che non porterebbe, a fronte della corresponsione di una retribuzione – a seguito dell'azione tempestivamente proposta dal lavoratore –, al soddisfacimento anche dell'obbligo contributivo solo perché l'ente previdenziale non avrebbe azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell'appalto. La Cassazione ha concluso quindi affermando il principio secondo il quale «il termine di due anni previsto dall'art. 29, comma 2, D.lgs. n. 276/2003 non è applicabile all'azione promossa dagli enti previdenziali, soggetti alla sola prescrizione. Il suddetto limite, secondo la Corte, si applica solo ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore, non potendosi estendere invece l'efficacia dell'anzidetta disposizione legislativa ad un soggetto terzo, quale l'ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggano, pertanto, al predetto termine annuale decadenziale».

Impugnazione di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 22 maggio 2019, n. 13871

Pres. Nobile; Rel. Piccone; Ric. C.R.; Controric. L.M.S.r.l.;

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Impugnazione – Violazione criteri di scelta – Annullabilità del licenziamento – Legittimazione dei dipendenti che non abbiano subito gli effetti dell'illegittimità – Esclusione

Lavoro subordinato – C.d. prova di resistenza – Applicabilità al licenziamento collettivo – Esclusione

Nella fattispecie dell'annullabilità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta l'annullamento non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati. Soltanto coloro che, tra i lavoratori, abbiano in concreto subito gli effetti della illegittimità, in quanto determinante la loro collocazione in mobilità, hanno un interesse qualificato e sono destinatari della tutela apprestata dalla norma dell'articolo 5 L. 223/1991.
La prova di resistenza è propria delle manifestazioni di volontà a formazione plurisoggettiva mentre nel licenziamento collettivo viene in questione la validità del recesso per vizi che non attengono alla formazione della volontà del datore di lavoro (neppure necessariamente espressa da un collegio) ma ai contenuti dell'atto, talchè il rilievo del vizio di annullabilità non ammetterebbe una prova conservativa di tal genere.
NOTA
Nel caso in esame la Corte d'Appello de L'Aquila, in riforma della sentenza del giudice di prime cure, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore all'esito di una procedura di licenziamento collettivo. La Corte d'Appello, infatti, aveva ritenuto il licenziamento rispettoso dei criteri di scelta fissati dall'art. 5, comma 3, della L. 223 del 1991 e il lavoratore ricorrente carente di un concreto interesse.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore che sosteneva, per quanto qui interessa e tra gli altri motivi, che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere carente di interesse ad agire il lavoratore.
La Suprema Corte ha ritenuto tale motivo di impugnazione infondato e ha rigettato il ricorso con ordinanza.
In particolare, la Cassazione ha spiegato che l'invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientra nel novero delle annullabilità e che, pertanto, la relativa azione di annullamento può essere proposta non già da chiunque abbia interesse ma esclusivamente da parte dei titolari dello specifico interesse sostanziale consistente nell'avere la violazione determinato la collocazione in mobilità degli stessi. Nel caso in esame, stando a quanto riferito dalla Suprema Corte, il giudice di secondo grado aveva ritenuto che anche a voler considerare fondate tutte le censure mosse ai criteri applicati dalla società datrice, il lavoratore sarebbe rientrato comunque tra i lavoratori destinatari dei recessi. La Corte d'Appello, infatti, pur censurando l'operato della società datrice che aveva proceduto ad una comparazione dei lavoratori per lavorazioni effettuate in assenza delle ragioni produttive e organizzative per operare tale limitazione, ha verificato che, anche in caso di comparazione del lavoratore ricorrente con tutti i dipendenti del complesso aziendale, lo stesso sarebbe risultato comunque fra quelli destinati alla collocazione in mobilità. L'operato della Corte d'Appello e la ritenuta carenza di legittimazione del lavoratore sono dunque state ritenute dalla Suprema Corte coerenti con il principio più volte dalla stessa espresso secondo il quale «nella fattispecie dell'annullabilità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta l'annullamento non può̀ dunque essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati. (…) Soltanto coloro che, tra i lavoratori, abbiano in concreto subito gli effetti della illegittimità̀, in quanto determinante la loro collocazione in mobilità, hanno un interesse qualificato e sono destinatari della tutela apprestata dalla norma dell'articolo 5 L. 223/1991».
La Suprema Corte ha anche avuto modo di escludere l'applicabilità della cd. prova di resistenza, espressione attraverso la quale si indica la neutralizzazione dell'invalidità di uno o più voti ai fini della validità di un atto deliberativo collegiale, al licenziamento collettivo. «La prova di resistenza», ha affermato la Cassazione, «è propria delle manifestazioni di volontà a formazione plurisoggettiva laddove nel licenziamento collettivo viene in questione la validità del recesso per vizi che non attengono alla formazione della volontà del datore di lavoro (neppure necessariamente espressa da un collegio) ma ai contenuti dell'atto, talchè il rilievo del vizio di annullabilità non ammetterebbe una prova conservativa di tal genere».

Annullamento delle dimissioni

Cass. Sez. Lav. 25 giugno 2019, n. 16998

Pres. Napoletano; Rel. Marotta; P.M. Celeste; Ric. E.S.A.; Contr. C.P.;

Dimissioni – Incapacità naturale – Art. 428, comma 1, c.c. – Annullamento – Diritto alle retribuzioni dalla domanda giudiziale – Sussistenza - Assenza di colpa o dolo del datore di lavoro – Irrilevanza

Il lavoratore che chieda l'annullamento delle dimissioni rassegnate, ex art. 428, comma 1, c.c., deve provare uno stato di incapacità naturale, per la quale non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione della volontà cosciente, facendo venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che si sta per compiere. Gli effetti economici della sentenza che annulla le dimissioni (pagamento delle retribuzioni) retroagiscono al momento della proposizione della domanda giudiziale indipendentemente da colpa o dolo del datore di lavoro.
NOTA
La Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Marsala, accoglieva la domanda avanzata da un ex dipendente e, per l'effetto, annullava le dimissioni presentate il 31 dicembre 2005, condannando il datore di lavoro al pagamento di una somma pari alla differenza tra il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore e la retribuzione che gli sarebbe spettata, con decorrenza dalla data di proposizione della domanda giudiziale (30 ottobre 2009).
La Corte di merito aveva ritenuto che, sulla base della CTU disposta, nel momento in cui il lavoratore aveva rassegnato le dimissioni fosse affetto da "pseudo demenza depressiva" e si trovasse in una situazione transitoria di totale incapacità di intendere e di volere e sussistessero, quindi, i presupposti per l'annullamento dell'atto di dimissioni ex art. 428 c.c.
Avverso tale sentenza, il datore di lavoro propone ricorso per Cassazione rilevando che, nel caso in esame, non vi fosse stato nessun atto doloso o colposo della datore di lavoro e che l'annullamento delle dimissioni non comportasse il diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni in assenza della prestazione lavorativa.
La Corte di Cassazione evidenzia che, ai sensi dell'art. 428 c.c., al primo comma, è previsto che gli "atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti", possono essere annullati "se ne risulta grave pregiudizio al suo autore". Mentre, al secondo comma è stabilito che "l'annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace di intendere o di volere (...) risulta la malafede dell'altro contraente". Secondo la Corte il lavoratore che chieda l'annullamento delle dimissioni deve provare la sussistenza dello stato di incapacità e il grave pregiudizio subìto, ma non anche la malafede del datore di lavoro, a differenza di quanto previsto per i contratti. Quello che chiede la norma - art. 428, comma 1, c.c. - è la prova dell'incapacità naturale, per la quale non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione della volontà cosciente, facendo venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che si sta per compiere (Cass. 21 novembre 2018, n. 30126; Cass. 31 gennaio 2017, n. 2500). La pronuncia giudiziale di annullamento, per la sua efficacia costitutiva, comporta il ripristino del rapporto e, secondo l'orientamento più recente, al quale dichiara di aderire la Suprema Corte nella decisione in commento, gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda giudiziale, in ragione del principio generale per il quale la durata del processo non deve mai andare a detrimento della parte vincitrice (Cass. 13 febbraio 2019, n. 4232).
Quanto al diritto del lavoratore alle retribuzioni pur in assenza di prestazione, la sentenza rileva che l'interesse del lavoratore prevale su quello del datore di lavoro, essendo l'art. 428 c.c. una ipotesi speciale che, pur nel quadro generale della rilevanza dei vizi della volontà, pone in primo piano la persona e "mira a proteggere soltanto il soggetto debole, senza altre condizioni….". Non è quindi necessario che risulti la malafede del datore di lavoro.
A parere della Suprema Corte i giudici di appello, nella decisione impugnata, hanno fatto corretta applicazione dei princìpi sopra espressi e, quindi, il ricorso viene respinto.

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