Contenzioso

La critica al datore di lavoro è lecita quando rispetta verità e correttezza

di Marcello Floris

Il diritto di critica del lavoratore nei confronti dell’azienda per la quale è impiegato ha dei limiti, violando i quali si può rischiare il licenziamento per giusta causa. In generale, l’orientamento della giurisprudenza ritiene che l’esercizio di questo diritto da parte del lavoratore riguardo alle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dall’articolo 21 della Costituzione, incontra i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (articolo 2 della Costituzione), di tutela della persona umana. La Cassazione è tornata a esprimersi sui confini del diritto di critica del lavoratore nella sentenza 18410 del 9 luglio: la Corte ha stabilito, in questo caso, che non è legittimamente licenziabile la lavoratrice affetta da allergia se ha denunciato il datore di lavoro, colpevole di non aver rispettato le cautele imposte dal giudice per evitarle questo problema di salute.

Alla lavoratrice l’azienda aveva contestato di aver presentato una denuncia nei confronti del legale rappresentante del datore di lavoro, al quale addebitava l’omessa attuazione di un’ ordinanza cautelare emessa in un procedimento d’urgenza, in cui era stata giudicata illegittima l’assegnazione della lavoratrice in via continuativa a mansioni di pulizia. Era stata quindi ordinata alla società una determinata turnazione con preavviso e il divieto di uso di prodotti chimici ai quali la lavoratrice era allergica. La società aveva però ritenuto calunnioso il contenuto della denuncia, perché la lavoratrice avrebbe prospettato una dolosa inosservanza dell’ordinanza, nella consapevolezza dell’ infondatezza delle accuse, poiché la società non sarebbe stata a conoscenza del provvedimento del giudice e dunque avrebbe senza dolo adibito la lavoratrice alle mansioni, con modalità già ritenute pregiudizievoli nell’ordinanza cautelare.

Nel giudizio è emerso che la società era pienamente a conoscenza dell’ordinanza cautelare, avendo presentato reclamo contro di essa. Dunque la lavoratrice, in buona fede aveva ritenuto che il datore avesse consapevolmente contravvenuto alle disposizioni del giudice. Quanto deciso nel precedente grado di giudizio e confermato dalla Cassazione si fonda sull’accertamento in fatto secondo il quale, quando la lavoratrice ha sporto denuncia, non ha mosso un’accusa nella consapevolezza della sua infondatezza. Il provvedimento cautelare conteneva infatti precise prescrizioni,tra cui la limitazione temporale per l’assegnazione della lavoratrice alle mansioni di pulizia, una cadenza periodica, la necessità di preavviso, il divieto di utilizzo di determinati prodotti chimici e l’obbligo di mascherine protettive. Il datore di lavoro non è riuscito a dimostrare di essersi conformato a questi ordini. Da ciò deriva l’insussistenza dell’addebito posto a fondamento della contestazione disciplinare: l’aver la dipendente sporto denuncia con la consapevolezza della infondatezza dell’accusa.

In questo caso, il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro è stato esercitato con il mezzo particolarmente aggressivo della denuncia.

Se la critica esercitata dal lavoratore supera i limiti della correttezza formale e di tutela della persona umana, attribuendo all’impresa o ai suoi rappresentanti qualità disonorevoli, riferimenti volgari e infamanti e deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, anche in mancanza degli elementi soggettivi e oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

In altri termini, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che superano i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere che scaturisce dall’articolo 2105 del Codice civile e può costituire giusta causa di licenziamento.

Nel caso esaminato dalla sentenza del 9 luglio, si può sostenere che i limiti sopra indicati non siano stati travalicati e che il diritto di critica sia stato lecitamente esercitato dalla lavoratrice nel rispetto dei parametri posti dalla giurisprudenza.

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