Contenzioso

Prassi di lavoro scorrette? Dell’infortunio risponde il datore anche se l’ordine è stato dato dal padre

di Mario Gallo

L'avvento del Dlgs 81/2008 ha rappresentato sicuramente un punto di svolta epocale anche nell'approccio adottato della giurisprudenza nel valutare la responsabilità del datore di lavoro in caso d'infortunio. Si è passati, infatti, a un nuovo corso in cui l'elemento della vigilanza sul comportamento dei lavoratori ha sul piatto della bilancia un peso che tende a essere sempre maggiore.

Sotto tale profilo appare sintomatica, quindi, la recente sentenza della Cassazione, quarta seionze penale del 5 settembre 2019, numero 37148, che ha ulteriormente consolidato il proprio orientamento in merito alle prassi di lavoro scorrette con riferimento a un caso che, invero, induce anche a qualche riflessione circa un modus operanti diffuso specie nelle micro e piccole imprese in ordine alla gestione operativa.

Le prassi di lavoro scorrette tollerate
La vicenda processuale affrontata dalla Suprema corte, infatti, riguarda un infortunio avvenuto in un uliveto dove il lavoratore, nel tentare di raccogliere le olive, si era arrampicato sul tronco di una pianta da cui era caduto riportando la frattura di alcune vertebre.
Di tale infortunio il tribunale di Taranto e la Corte di appello di Lecce hanno ritenuto responsabile il datore di lavoro del reato di lesioni personali colpose gravi, di cui all'articolo 590 del codice penale, per non aver dotato il lavoratore d'idonei mezzi di lavoro nell'attività di bacchiatura.
Il datore ha proposto ricorso per Cassazione, ma i giudici di legittimità hanno confermato la condanna rilevando che nessun vizio è rinvenibile nella sentenza della Corte territoriale.
In effetti è stato accertato che l'attività di battitura delle olive era ricompresa nelle mansioni svolte e che era usuale che la stessa avvenisse mediante l'utilizzo di bastoni, anche arrampicandosi sulle piante, prassi di lavoro che, tuttavia, si poneva evidentemente in contrasto con le norme antinfortunistiche su lavoro in quota tramite l'impiego di scale.

Direttive di lavoro impartite dal padre del titolare e dovere di vigilanza
Quanto, poi, alla tesi difensiva in base alla quale gli ordini sull'attività da compiere non erano stati impartiti dal datore di lavoro ma da suo padre, i giudici di legittimità hanno ribadito chel'imputato non può essere ritenuto esente da responsabilità per il semplice fatto che le direttive erano di matrice genitoriale.
Infatti, il padre stesso ha ammesso l'esistenza della prassi di lavoro scorretta e di avere fatto ricorso «a quella di salire sugli alberi per la sbattitura delle olive rimaste sulle piante. Sotto diverso aspetto risulta pacifico che al dipendente non venne fornita una scala per salire sulle piante, né tali scale erano presenti nelle dotazioni dell'azienda».
Insomma, l'aver consentito la gestione dell'impresa da parte di un terzo, sia pure genitore del datore di lavoro, non esonera quest'ultimo dalle proprie responsabilità in quanto, sottolinea la Cassazione, proprio su tale figura grava non solo il dovere di predisporre le idonee misure di sicurezza e impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma «anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle».

Si tratta, pertanto, della specificazione del dovere generale di vigilanza che incombe sul datore di lavoro e che trova applicazione anche nell'ipotesi in cui gli ordini sull'attività lavorativa da svolgere sono impartiti dal terzo, anche se parente del titolare, situazione questa molto diffusa specie nelle micro e piccole imprese.

Al tempo stesso, però, va anche richiamato il principio di effettività contenuto nell'articolo 299 del Dlgs 81/2008. Quindi in questi casi colui che, senza una formale investitura, esercita sia pur di fatto i poteri propri di datore di lavoro, dirigente e preposto occupa, appunto, di fatto tali posizioni di garanzia.

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