Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Contestazione disciplinare e rilevanza della recidiva
Mutamento giudiziale della causa petendi dedotta in giudizio
Comunicazione di contestazione disciplinare
Danno da demansionamento tra prova presuntiva e valutazione equitativa
Appalto con sole prestazioni di manodopera

Contestazione disciplinare e rilevanza della recidiva

Cass. Sez. Lav. 31 luglio 2019, n. 20723

Pres. Napoletano; Rel. Bellé; P.M. Cimmino; Ric. U.R.; Controric. M.I.U.R.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Recidiva - Rilevanza - Fattispecie.

La preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore deve riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva o i procedimenti disciplinari che la integrano solo nell'ipotesi in cui questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già quando essa costituisca mero criterio di determinazione della sanzione proporzionata a tale mancanza.
NOTA
Il caso di specie riguarda una sanzione disciplinare (nella fattispecie, pari a sei mesi di sospensione dall'insegnamento) irrogata dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca nei confronti di una propria docente, per aver tenuto comportamenti non conformi alla propria funzione.
La Corte d'Appello di Salerno, confermando la pronuncia di primo grado, dichiarava legittima la sanzione disciplinare in questione.
Ricorreva per cassazione la lavoratrice, sostenendo che la sanzione era invece illegittima, poiché applicata tenendo conto di precedenti disciplinari che non erano però stati riportati nella contestazione de quo.
La Corte di Cassazione ha innanzitutto richiamato il risalente principio secondo cui «la preventiva contestazione dell'addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, o comunque, i procedimenti disciplinari che la integrano, solo nell'ipotesi in cui questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già quando essa costituisca mero criterio di determinazione della sanzione proporzionata a tale mancanza» (cfr. Cass., n. 2045/1998 e Cass. n. 7768/1996). Aderendo a tale principio, la Corte ha poi sottolineato che, nel caso di specie, i precedenti disciplinari erano stati considerati non come fatto costitutivo dell'illecito perseguito, ma solo, e senza particolare incidenza, al fine di evidenziare il livello di gravità della mancanza, sicché non vi era necessità che di tali precedenti vi fosse menzione nell'ambito della contestazione in questione.
In conclusione, prosegue la Corte, il giudice di merito ha correttamente ritenuto che i precedenti disciplinari debbano essere oggetto di contestazione solo laddove gli stessi rientrino nella fattispecie costitutiva dell'infrazione perseguita e non laddove, come accaduto nel caso di specie, evidenzino il particolare grado di gravità della mancanza. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Mutamento giudiziale della causa petendi dedotta in giudizio

Cass. Sez. Lav. 25 luglio 2019, n. 20204

Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. A.A.M.S.A. s.p.a.; Controric. V.A.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Lavoratore portatore di handicap - Discriminazione diretta ed indiretta - Differenze - Mutamento giudiziale della causa petendi - Conseguenze - Violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Sono diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere una azione volta a far valere una discriminazione diretta rispetto a quelli necessari per sostenere una richiesta di accertare l'esistenza di una discriminazione indiretta e viola il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice che senza una specifica richiesta ed in mancanza di specifiche allegazioni, pur nell'identità del petitum, muti la causa petendi e qualifichi la discriminazione come diretta in luogo di quella indiretta prospettata dalla parte.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano ha respinto il reclamo confermando, seppur con diversa motivazione, la sentenza del Tribunale della stessa città che, respingendo l'opposizione, aveva ribadito la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore portatore di handicap, condannando la società alle relative conseguenze. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto accertato che, in ragione dell'handicap da cui era afflitto, il lavoratore era stato discriminato, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003, presumendo - in applicazione del regime di alleggerimento della prova di cui all'art. 28 comma 5 in relazione al comma 4 D. Lgs.150/2011 - dall'accertata esistenza dell'handicap e dalla peculiarità della patologia e delle mansioni svolte, che le assenze fossero ricollegabili alla prima. Conseguentemente, in assenza di prova contraria da parte del datore circa la non riferibilità delle assenze all'handicap, la Corte ha confermato la nullità del licenziamento.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la società, censurandola sotto svariati profili.
Con il principio di cui alla massima la Suprema Corte puntualizza che l'ontologica diversità tra discriminazione diretta ed indiretta comporta la necessità di differenti allegazioni sottese alle diverse domande, pertanto il giudice è vincolato dalla richiesta e viola il disposto dell'art. 112 c.p.c. se muta la qualificazione della discriminazione (diretta in indiretta o viceversa) rispetto a quella domandata dalla parte. Ricorda, infatti la Suprema Corte che, mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta tenuta che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto di un comportamento che è corretto e legittimo in astratto, ma che, tuttavia, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche - nello specifico un portatore di handicap - determina, invece, una situazione di disparità che l'ordinamento sanziona.
Tale strutturale differenza tra le due tipologie di discriminazioni vincola il giudice, pertanto la Cassazione giudica errata la sentenza di appello ove - sebbene il ricorrente avesse chiesto che venisse dichiarato nullo il licenziamento intimatogli per essere indirettamente discriminatoria la disciplina collettiva sul comporto quando applicata ai lavoratori disabili - prospettando, quindi una discriminazione ai sensi della lettera b) dell'art. 2 del d.lgs. 216 del 2003 - il giudice di appello, qualificando la domanda come richiesta di accertamento di una discriminazione diretta, ha violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Esorbitando, infatti, dai limiti della qualificazione giuridica della domanda, ha sostituito la causa petendi dedotta in giudizio con una differente, fondata su un fatto diverso da quello allegato (Cass. 19 aprile 2006, n. 9087).
La sentenza viene, pertanto cassata sul punto, con rinvio alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per la verifica dell'esistenza della prospettata discriminazione indiretta.

Comunicazione di contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 30 luglio 2019, n. 20519

Pres. Nobile; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.P.T.; Controric. F.I. S.p.A.;

Licenziamento – Contestazione disciplinare – Comunicazione – Art. 1335 c.c. – Presunzione di conoscenza – Operatività – Condizioni

La presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo della dichiarazione all'indirizzo del destinatario, dovendosi intendere per tale il luogo più idoneo per la ricezione e cioè il luogo che, in base ad un criterio di collegamento ordinario (dimora o domicilio), o di normale frequenza (luogo di esplicazione di un'attività lavorativa), o per preventiva comunicazione o pattuizione dell'interessato, risulti in concreto nella sfera di dominio o di controllo del destinatario.
La Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale di Foggia che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per essersi assentato ingiustificatamente dal servizio per oltre quattro giorni.
I giudici di appello in primo luogo rilevavano che gli atti del procedimento disciplinare e la conclusiva lettera di licenziamento dovevano ritenersi conosciuti, o comunque conoscibili dal lavoratore, tenuto conto che la società datrice aveva inviato tutte le comunicazioni ad entrambi gli indirizzi che erano stati dichiarati dal dipendente all'azienda.
I giudici di appello ravvisavano, inoltre, nella condotta tenuta dal lavoratore un comportamento negligente e pregiudizievole per la regolare organizzazione dell'attività produttiva, atteso che lo stesso, contravvenendo al disposto di cui all'art. 13 del c.c.n.l. di settore, ai sensi del quale era previsto che le assenze dovessero essere giustificate entro il giorno successivo salvo il caso di impedimento giustificato, aveva omesso di giustificare le proprie assenze.
La Corte di appello riteneva, pertanto, proporzionata la sanzione irrogata al lavoratore, atteso che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 13 e 10, paragrafo A, lett. f) del c.c.n.l. di settore, l'assenza ingiustificata protrattasi per oltre quattro giorni è sanzionata con il licenziamento.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore fondato su cinque motivi.
In particolare, il ricorrente denunciava la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4 c.p.c., sostenendo che la Corte territoriale aveva erroneamente omesso di considerare che le deduzioni contenute nel gravame proposto dal lavoratore riguardavano la mancata comunicazione della lettera di contestazione dell'addebito, e non invece la mancata ricezione della lettera di licenziamento.
Il ricorrente impugnava, altresì, la sentenza di appello, per violazione degli artt. 1324 e 1362 c.c. e dell'art. 2697 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale, dopo aver dato atto dell'esistenza e del contenuto del secondo licenziamento intimato al lavoratore sulla base degli stessi motivi addotti a giustificazione del precedente recesso, escludeva tuttavia la revoca del primo, del quale aveva già accertato la legittimità in virtù della ritenuta correttezza delle comunicazioni effettuate nel corso del procedimento disciplinare.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto ribadito che ai sensi dell'art. 1335 cod. civ. ogni dichiarazione diretta a una determinata persona si reputa conosciuta nel momento in cui perviene all'indirizzo del destinatario, dovendosi intendere per tale il luogo più idoneo per la ricezione e cioè il luogo che, in base ad un criterio di collegamento ordinario (dimora o domicilio), o di normale frequenza (luogo di esplicazione di un'attività lavorativa), o per preventiva comunicazione o pattuizione dell'interessato, risulti in concreto nella sfera di dominio o di controllo del destinatario (cfr. Cass. 20 gennaio 2003, n. 773; Cass. 23 dicembre 2002, n. 18272).
La Suprema Corte ha chiarito che trattasi di presunzione che opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo della dichiarazione all'indirizzo del destinatario, sicchè ne consegue che, ove l'invio avvenga con lettera raccomandata a mezzo del servizio postale, non consegnata al lavoratore per l'assenza sua e delle persone abilitate a riceverla, la stessa si presume conosciuta alla data in cui al suddetto indirizzo è rilasciato l'avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale (cfr. Cass. 28 settembre 2018, n. 23589); con la conseguenza che incombe sul destinatario l'onere di superare la presunzione di conoscenza provando di essersi trovato, senza propria colpa, nell'impossibilità di avere conoscenza della dichiarazione medesima, fornendo la dimostrazione di un evento eccezionale ed estraneo alla sua volontà, quale la forzata lontananza in luogo non conosciuto o non raggiungibile. Tale impossibilità non è configurabile nell'ipotesi in cui il collegamento del soggetto con il luogo di destinazione della dichiarazione non rimanga interrotto in modo assoluto. La presunzione non opera nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia a conoscenza dell'allontanamento del lavoratore dal domicilio e dunque dell'impedimento dello stesso a prendere conoscenza della contestazione inviata (cfr. Cass. 27 febbraio 2015, n. 3984).
Con specifico riferimento al caso in esame la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva adeguatamente spiegato le ragioni per le quali la contestazione dovesse ritenersi correttamente comunicata al lavoratore, essendo stata inviata a recapiti che dovevano ritenersi entrambi utilizzabili.
Ed infatti, la Corte di merito aveva accertato che il lavoratore, pure essendovi onerato, non aveva provveduto a comunicare alla società il cambio di residenza secondo la procedura contrattualmente prevista. Inoltre, il giudice di appello aveva verificato che certificazioni telematiche, temporalmente contestuali all'invio della contestazione di addebito, recavano quale residenza e domicilio abituale del lavoratore proprio l'indirizzo al quale la contestazione era stata inviata.
La Suprema Corte ha, infine, rilevato che la Corte territoriale non era neppure incorsa nella denunciata violazione degli artt. 1324 e 1362 c.c. e dell'art. 2697 c.c. atteso che la società ben poteva rinnovare il licenziamento senza dover necessariamente revocare il precedente atto di recesso, per il caso in cui il primo licenziamento fosse dichiarato nullo. I giudici di legittimità hanno infatti ricordato che la rinnovazione del licenziamento disciplinare, in base agli stessi motivi addotti a giustificazione di un precedente recesso nullo per vizio di forma, non presuppone necessariamente la revoca del precedente licenziamento, purché siano adottate le modalità prescritte, omesse nella precedente intimazione.

Danno da demansionamento tra prova presuntiva e valutazione equitativa

Cass. Sez. Lav. 7 agosto 2019, n. 21161

Pres. Napoletano; Rel. Amendola; P.M. Cimmino; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. C.L.I. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Dequalificazione (ante riforma art. 2103 c.c.) – Prova del danno – Presunzioni – Valutazione equitativa – Legittimità – Limiti.

In tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
NOTA
Un dipendente, dopo aver ottenuto una sentenza (passata in giudicato) dichiarativa dell'inefficacia del trasferimento del ramo d'azienda, con condanna del cedente al ripristino del rapporto, agiva nei confronti sia del proprio datore di lavoro, sia del cessionario, per l'accertamento del subito demansionamento, con conseguente condanna al risarcimento del danno professionale.
La Corte di Appello di Napoli, confermando la pronuncia di primo grado, condannava in solido entrambe le convenute al risarcimento del danno in misura pari al 75% della retribuzione mensile con decorrenza dalla data dell'accertata dequalificazione (antecedente all'illegittima cessione di ramo d'azienda) sino al deposito del ricorso. La Corte territoriale precisava che, poiché la dequalificazione era antecedente all'illegittima cessione del ramo, non poteva negarsi che la cedente dovesse rispondere dei danni professionali anche per il periodo successivo all'operazione di cessione, atteso che il mancato ripristino del rapporto aveva comportato l'impossibilità di reintegrare il lavoratore nelle originarie mansioni ex art. 2103 c.c. (nella formulazione precedente la riforma del giugno 2015).
Per la cassazione di tale pronuncia ricorreva il datore di lavoro/cedente; la cessionaria resisteva con controricorso e ricorso incidentale, mentre il dipendente rimaneva intimato.
Il ricorrente principale lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 2112 e 1223 c.c. con riferimento alla sua condanna in solido al risarcimento del danno professionale anche per il periodo in cui la prestazione era stata, di fatto, resa esclusivamente in favore della cessionaria. A tal fine, deduceva che la responsabilità per l'accertato demansionamento non può che gravare sul soggetto che ha utilizzato le prestazioni del lavoratore e che, dietro versamento della retribuzione, aveva il potere/dovere di assegnare le mansione nel rispetto dell'art. 2103 c.c.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso principale, cassando la sentenza con rinvio, in ragione del consolidato orientamento giurisprudenziale (da ultimo Cass. 5998/2019), secondo cui il trasferimento del rapporto di lavoro si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso del lavoratore, quale elemento costitutivo della fattispecie ex art. 1406 c.c.), l'originario rapporto di lavoro con la cedente non si trasferisce e se ne instaura, in via di fatto, un altro con il cessionario. Questo rapporto di lavoro – che non è la mera prosecuzione del precedente che, infatti, dopo il ripristino conseguente alla declaratoria giudiziale di invalidità del trasferimento, rimane quiescente – è comunque produttivo di effetti giuridici e quindi di obblighi, inclusi quelli derivante dall'art. 2103 c.c., in capo al cessionario che in concreto utilizza la prestazione lavorativa nell'ambito della propria organizzazione imprenditoriale.
Per quel che più interessa ai fini della presente nota, la cessionaria – con il ricorso incidentale – lamentava che il parametro del 75% della retribuzione mensile sarebbe sproporzionato per la quantificazione del danno operata.
La Corte ha rigettato tale ricorso, ribandendo il principio di diritto (già espresso, tra le altre, da Cass. 19778/2014) secondo cui, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
Nella specie, la sentenza impugnata aveva accertato il danno alla professionalità, avuto riguardo alla durata e alla consistenza della dequalificazione, state la continuità e permanenza del demansionamento, tenuto conto dello scostamento rispetto alle mansioni prima esercitate nonché del depauperamento professionale conseguente al venir meno dell'esperienza acquisita, stimando equo commisurare il danno in una percentuale della retribuzione mensile. La Suprema Corte ha considerato tale percorso motivazionale idoneo a sorreggere l'esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, non essendosi discostato da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle argomentazioni.

Appalto con sole prestazioni di manodopera

Cass. Sez. Lav. 29 luglio 2019, n. 20414

Pres. Manna; Rel. Calafiore; P.M. Celeste; Ric. P.F. S.r.l.; Controric. I.N.P.S.

Lavoro subordinato – Appalto di opere e servizi – Organizzazione dell'appaltatore – Divieto di intermediazione e di interposizione di manodopera – Presupposti di liceità – Interventi del committente sui lavoratori – Fattispecie

L'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", previsto dall'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore.
NOTA
Una Società proponeva opposizione verso la cartella di pagamento emessa a seguito di verbale di accertamento congiunto INPS – ITL con il quale era stato contestato alla società di aver sottoscritto contratti di appalto illeciti, ovvero in violazione della disciplina prevista dall'articolo 29 D.Lgs. 276/2003.
Il Tribunale e la Corte d'Appello rigettavano la tesi della società volta a dimostrare la genuinità degli appalti stipulati e accertando la sussistenza di intermediazione illecita di manodopera. Per i giudici nel caso di specie non era emerso che l'appaltatore avesse fornito alcun apporto diverso dalla mera messa a disposizione del proprio personale, non importa se esperto.
Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso la società ma la Cassazione lo ha rigettato.
La Suprema Corte, dopo aver chiarito che con l'abrogazione della precedente normativa (i.e. L. 1396/1960), ha perso rilievo essenziale la circostanza che capitali, macchine o attrezzature siano fornite dall'appaltante, ha richiamato recenti pronunce secondo le quali per accertare la genuinità dell'appalto, è essenziale che i lavori appaltati siano effettivamente svolti da un soggetto che abbia concretamente la forma e la sostanza di una impresa, sia con riguardo al profilo tecnico, sia sotto l'aspetto strettamente economico ed organizzativo.
Insiste la Corte che l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito solo se l'attività oggetto del contratto viene svolta con organizzazione e autonomia dell'appaltatore, senza ingerenze da parte del committente che d'altra parte, nel rispetto dell'articolo 1662 c.c., ben può controllare l'esecuzione dell'opera nel suo svolgimento.
Con riferimento al caso in esame, per la Cassazione sia il Tribunale che la Corte di Appello avevano correttamente valutato gli elementi di prova in giudizio accertando che i contratti di appalto, svolti da società prive di effettiva organizzazione d'impresa, ovvero di una sede, uno stabilimento produttivo, macchinari, attrezzature o dipendenti sia tecnici che amministrativi, avevano mascherato forniture illecite di manodopera.

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