Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Permessi ex legge 104/1992 e parziale indebito utilizzo
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Immediatezza della contestazione disciplinare
Giusta causa di licenziamento
Rimborso delle spese legali per i dirigenti del Terziario

Permessi ex legge 104/1992 e parziale indebito utilizzo

Cass. Sez. Lav. 20 agosto 2019, n. 21529

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. S.M. S.r.l.; Controric. P.F.

Lavoro subordinato – Licenziamento disciplinare – Permessi ex art. 33 L. 104/1992 – Parziale indebito utilizzo – Accertamento in concreto del giudice di merito – Connotati essenziali dell'intervento assistenziale – Fattispecie

Non può ritenersi che l'assistenza che legittima il beneficio del congedo straordinario possa intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, a patto però che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile.
NOTA
La Corte di appello riformando la pronuncia del Tribunale annullava il licenziamento disciplinare del lavoratore. Per la Corte, infatti, il lavoratore aveva propriamente usufruito dei permessi previsti dalla Legge 104 del 1992 per assistere l'ex moglie presso la propria abitazione.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso la società. Per la ricorrente il lavoratore aveva illegittimamente beneficiato dei permessi richiesti avendo esercitato l'attività assistenziale in orari diversi da quelli coincidenti con il normale orario di lavoro e solamente per parte della giornata.
La Cassazione ha rigettato il ricorso.
Preliminarmente la Suprema Corte chiarisce che l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per cui il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. Ed infatti il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto.
Fermo quanto sopra, per la Cassazione la verifica in concreto, sulla base dell'accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell'esercizio abusivo del permesso deve avvenire non sulla base di una prospettiva meramente quantitativa del concetto di assistenza, ma sincerandosi invece che risultino salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale nel suo complesso.
Con particolare riferimento al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto corretto l'accertamento dalla corte territoriale che, dall'esame delle deposizioni testimoniali assunte nonché dalla documentazione prodotta, ha ritenuto che, nei giorni di congedo, il lavoratore non avesse fatto un uso improprio dei permessi ex L. n. 104 del 1992, ma li avrebbe complessivamente utilizzati per finalità assistenziali (cure alla ex moglie, con lui in quei giorni convivente nelle ore serali, ossia quelle più pericolose per lo stato di salute della disabile) e non per attendere ad altra attività di proprio esclusivo interesse.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 14 agosto 2019, n. 21411

Pres. Bronzini; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. A.R.; Controric. C.M.;

Art. 2087 c.c. – Infortunio sul lavoro – Responsabilità datore – Colpa – Necessità

L'art. 2087 c.c. non individua una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali, ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza.
NOTA
La Corte di appello di Milano confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva respinto la domanda proposta dalla lavoratrice tesa ad ottenere l'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., in relazione all'infortunio occorsole durante le operazioni di trasporto di un carrello di posta dal quindicesimo al secondo piano nella sede del Comune.
A fondamento della propria decisione la Corte territoriale rilevava che la lavoratrice non aveva allegato, né provato l'omissione e/o la violazione imputabile al datore, né aveva dedotto quale presidio di sicurezza – in ipotesi idoneo ad evitare il fatto – fosse stato omesso nella specie. Considerato altresì che la prestazione richiesta alla lavoratrice implicava l'esercizio di attività manuali di contenuto estremamente semplice, e che dalle fotografie nelle quali era riprodotto lo stato dei luoghi non era emersa la presenza di alcuna asperità o insidia. La Corte territoriale rilevava, inoltre, che correttamente il Tribunale non aveva ammesso i testi indicati dalla lavoratrice, posto che, per sua stessa ammissione, nessuno era presente sul posto al momento dell'incidente e che, pertanto, le persone indicate in ricorso nulla avrebbero potuto riferire sulla dinamica dell'infortunio.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice affidato a due motivi.
In primo luogo, la lavoratrice deduceva la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., sostenendo che in coerenza con la natura di tale norma, avente valore di disposizione normativa di chiusura del sistema, dovesse ritenersi imposto all'imprenditore l'obbligo di adottare ogni cautela atta a prevenire il pericolo di danni alla salute del lavoratore, con estensione della responsabilità anche ad eventi riconducibili a negligenza, imperizia e imprudenza del lavoratore; fatta eccezione per i soli casi in cui fosse configurabile una responsabilità del lavoratore idonea ad interrompere il nesso di causalità ex art. 41, comma 2 c.p., in relazione ad un comportamento avventato ed esorbitante dello stesso rispetto alle normali attribuzioni. Con specifico riferimento al caso di specie, la lavoratrice riteneva che il pregiudizio fisico subito fosse riconducibile alla mancata predisposizione di presidi di sicurezza e protezione da parte del datore, atteso che l'incidente dipendeva o dall'anomalia del pavimento o dalla struttura del carrello, privo di elementi di protezione atti ad evitare contatti accidentali degli spigoli dello stesso con le parti del corpo.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
La Suprema Corte ha, innanzitutto, rilevato che l'art. 2087 c.c. non individua una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali, ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3785; Cass. 10 maggio 2000, n. 6018; Cass. 12 febbraio 2000, n. 1579).
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 15 giugno 2016, n. 12347; Cass. 10 giugno 2016, n. 11981), non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.
E' stato anche chiarito che, ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (ex plurimis, Cass. 23 maggio 2018, n. 12808; Cass. 15 giugno 2017, n. 14865; Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. 25 agosto 2003, n. 12467).
Premessi tali principi, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale aveva correttamente escluso la configurabilità di una condotta inadempiente imputabile al datore, tenuto conto che, nell'impossibilità di accertare la dinamica dei fatti per l'assenza di testi presenti all'infortunio, non erano rinvenibili profili di responsabilità in capo all'ente comunale. La Suprema Corte ha, infine, evidenziato che i giudici di appello, con giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, avevano dato atto della idoneità degli strumenti di lavoro, della estrema semplicità delle operazioni manuali svolte – che non richiedevano formazione ed informazione dei lavoratori circa le procedure da adottare per evitare rischi connessi all'attività di lavoro -, e della regolarità del pavimento privo di asperità o insidie.

Immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 21 agosto 2019, n. 21557

Pres. Nobile; Rel. Ponterio; P.M. Celeste; Ric. R.L.; Controric. B.M.P.S. S.p.A.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Immediatezza della contestazione – Relatività – Complessità delle indagini – Complessità dell'organizzazione aziendale – Rilevanza.

Il criterio dell'immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro, va inteso in senso relativo, potendo esser in concreto compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l'accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell'organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell'organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti nonché di adozione dei relativi provvedimenti.
NOTA
Un dipendente di un istituto bancario, con mansioni di addetto allo sportello, veniva licenziato per giusta causa per aver effettuato dieci operazioni di cassa irregolari, nell'arco di circa un mese, a danno di più clienti di nazionalità straniera. In particolare, la contestazione aveva ad oggetto la registrazione sui conti correnti dei clienti di prelievi di somme superiori a quelle effettivamente richieste, con impossessamento delle differenze di denaro, da parte del lavoratore.
Il ricorso del dipendente, volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al conseguente risarcimento del danno, veniva accolto dal giudice della fase a cognizione sommaria. L'ordinanza era confermata anche nella successiva fase di opposizione.
La Corte di appello di Ancona, in accoglimento del reclamo depositato dalla società, riformava le precedenti decisioni, respingendo la domanda del lavoratore e condannando lo stesso alla restituzione di quanto percepito in esecuzione delle decisioni del Tribunale.
La Corte territoriale, infatti, riteneva tempestiva la contestazione disciplinare in ragione, da un lato, della necessità di un approfondito esame contabile delle singole operazioni oggetto dei reclami presentati dai clienti interessati e, dall'altro, della complessità della struttura aziendale, articolata in numerose filiali sul territorio nazionale, con conseguente difficoltà per gli ispettori interni di essere presenti ed operativi presso ciascuna filiale. Quanto al merito, il giudice del reclamo ha ritenuto che gli addebiti contestati integrassero una giusta causa di licenziamento, in quanto idonei a compromettere la fiducia nel corretto futuro adempimento della prestazione, tenuto conto dell'elemento soggettivo della condotta (in primis la volontà del dipendente di impossessarsi di denaro altrui), nonché delle mansioni assegnate che gli consentivano ampia libertà di accesso ai conti correnti dei clienti.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorreva il dipendente; il datore di lavoro resisteva con controricorso.
Per quel che rileva ai fini della presente nota, il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per aver la Corte d'appello considerata sussistente la giusta causa di recesso, nonostante la tardività della contestazione disciplinare.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondato anche tale motivo.
Innanzitutto, è stato richiamato il consolidato orientamento di legittimità (confermato, tra le altre, da Cass. 19115/2013; Cass. 15649/2010 e Cass. 19424/2005) secondo cui l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione (ovvero del successivo provvedimento espulsivo) induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo l'addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione disciplinare.
Ciò posto, la Corte ha ribadito anche il principio di diritto (già affermato in Cass. 15649/2010; Cass. 22066/2007 e Cass. 19159/2006) secondo cui il criterio dell'immediatezza debba essere inteso in senso relativo, potendo esser in concreto compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l'accertamento e la valutazione dei fatti. E ciò, in particolare, quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, implicante una valutazione globale ed unitaria, oppure quando la complessità dell'organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con il soggetto abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere.

Giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 16 agosto 2019, n. 21437

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; P.M. Celentano; Ric. B.M.P.S. s.p.a.; Controric. G.C.;

Giusta causa - Esecuzione di un ordine illegittimo - Esimente ex art. 51 c.p. - Esclusione - Conseguenze - Necessità di sussunzione della condotta nell'art. 2119 c.c. - Sussistenza della giusta causa se l'illegittimità dell'ordine era riconoscibile dal dipendente

L'esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge. In tal senso, la valutazione di sussumibilità o meno nell'art. 2119 c.c. della condotta di esecuzione dell`ordine dato dal superiore non può prescindere dal grado di divergenza dell'ordine stesso rispetto ai principi e ai vincoli dell'ordinamento e dal carattere palese o meno di tale illegittimità. Pertanto è legittimo il licenziamento del dipendente che ha adempiuto un ordine illegittimo malgrado lo stesso fosse in grado di rendersi conto della sua illegittimità, palese per le sue conoscenza tecniche.
NOTA
Il Tribunale di Siena ha confermato l'ordinanza, emessa nella fase sommaria, di rigetto dell'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato ad un dirigente di un noto istituto bancario per aver tenuto un comportamento reticente e mendace nei confronti dei nuovi vertici della banca - fornendo, nell'ambito di una rilevante operazione finanziaria, documentazione parziale nonostante la consapevolezza dell'esistenza di altri documenti successivi - provocando in tal modo ingenti danni economici.
In riforma di tale decisione, la Corte d'appello di Firenze ha ritenuto che il licenziamento non fosse sorretto da giusta causa, ma che neppure potesse ritenersi del tutto ingiustificato, essendo emerso che il dirigente aveva fornito ai nuovi vertici la documentazione che di volta in volta gli veniva richiesta, ma che la sua collaborazione non era stata del tutto leale e trasparente, in quanto egli si riteneva ancora vincolato dal mandato di segretezza ricevuto in precedenza. Conseguentemente la banca veniva condannata al pagamento dell'indennità di preavviso mentre veniva respinta la richiesta relativa all'indennità supplementare.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione ed il dirigente ha resistito con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale. In particolare, secondo l'istituto ricorrente, i giudici territoriali hanno errato nell'attribuire efficacia scriminante alla necessità di non disattendere ordini dei superiori, considerando, peraltro, che l'ordine suddetto era palesemente illegittimo in quanto volto a violare plurime normative, interne e di legge, oltre che idoneo a provocare alla Banca un ingentissimo danno.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendo che la pronuncia di merito disattenda i principi che delineano i contorni della giusta causa, operando una valutazione non corretta degli elementi che la integrano. In particolare, con il principio di cui alla massima - che nega valore scriminante all'obbedienza ad un ordine palesemente illegittimo - si ribadiscono affermazioni rese in precedenti anche recenti (Cass. 28 settembre 2018, n. 23600; Cass. 24 giugno 2016, n. 13149). Secondo la Cassazione la Corte d'appello ha errato laddove non ha adeguatamente esaminato il comportamento reticente e, nella disamina della giusta causa di recesso, non ha tenuto conto della riconoscibilità, da parte del dirigente, dell'illegittimità dell'ordine ricevuto. Difatti, come già affermato (Cass. 28 settembre 2018, n. 23600), l'esecuzione di un ordine impartito dal superiore gerarchico non vale a scriminare la condotta del dipendente se questi era in grado di rendersi conto della illegittimità dell'ordine in quanto palese.
Il ricorso viene, pertanto, accolto, con conseguente assorbimento di quello incidentale e cassazione della sentenza con rinvio al giudice d'appello designato.

Rimborso delle spese legali per i dirigenti del Terziario

Cass. Sez. Lav. 16 agosto 2019, n. 21439

Pres. Balestrieri; Rel. Boghetich; P.M. Celentano; Ric. C.C.; Controric. M.D.O. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Dirigente - Art. 23 CCNL dirigenti settore Terziario - Rimborso spese legali in caso di procedimento penale - Attinenza dei fatti alle funzioni e responsabilità del dirigente - Necessità - Fattispecie - Esclusione.

I presupposti per invocare la tutela di cui all'art. 23 del CCNL dirigenti settore Terziario sono l'accertamento della diretta e specifica riconducibilità delle azioni del dirigente (oggetto del procedimento penale) alle ordinarie attività e funzioni proprie della sua posizione lavorativa, oltre all'esclusione dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, sul quale solo il giudice penale può esprimersi, con sentenza della quale è richiesto il passaggio in giudicato.
NOTA
Il caso di specie riguarda il licenziamento di un dirigente che, nello svolgimento della propria funzione di direttore marketing della Società, aveva favorito l'affidamento di incarichi professionali alla propria compagna ed alle aziende della famiglia di quest'ultima.
La Corte d'Appello di Napoli, confermando la pronuncia di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento in questione, rigettando altresì la domanda del dirigente di rimborso delle spese legali sostenute in relazione al processo penale incardinato per i medesimi fatti.
Nello specifico, la Corte d'Appello rilevava che l'art. 23 del CCNL applicato (dirigenti Terziario) non consentisse al lavoratore di richiedere il rimborso delle spese legali affrontate per il giudizio penale ove le condotte fossero, come nel caso di specie, estranee e contrarie alle funzioni e alle responsabilità del dirigente.
La Corte di Cassazione, adita dal dirigente, ha affermato che, come correttamente sottolineato dalla sentenza impugnata, è innanzitutto necessario effettuare un'indagine sul grado di connessione tra il comportamento del dirigente ed i fatti oggetto del procedimento penale cui si riferisce la richiesta di rimborso spese. Interpretando le diverse espressioni contenute nell'art. 23 del CCNL cit. emerge, infatti, chiaramente che le parti sociali hanno fatto riferimento al criterio dell'attinenza dei fatti all'esercizio delle funzioni del dirigente, per stabilire il diritto di quest'ultimo di ricevere il ristoro delle spese di difesa dei relativi procedimenti civili e penali.
La Corte ha quindi richiamato un proprio precedente, secondo cui «i presupposti per invocare la tutela di cui all'art. 23 del CCNL dirigenti settore Terziario sono l'accertamento della diretta specifica riconducibilità delle azioni del dirigente (oggetto del procedimento penale) alle ordinarie attività e funzioni proprie della sua posizione lavorativa, oltre alla esclusione dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, sul quale solo il giudice penale può esprimersi, con sentenza della quale è richiesto il passaggio in giudicato» (Cass. n. 22774/2016).
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d'Appello di Napoli, con apprezzamento di merito insindacabile, ha ritenuto che «i fatti di rilievo penale per i quali si sono svolte le indagini preliminari … sono estranei e contrari alle funzioni e responsabilità del dirigente il cui scopo deve essere quello di agire a favore dell'impresa e non per sé stesso e per terzi soggetti». Muovendo da una corretta ricostruzione esegetica dell'art. 23 CCNL cit., la Corte distrettuale ha, dunque, escluso l'operatività nel caso di specie della tutela a favore del dirigente.
Concludendo, la Corte di Cassazione, senza discostarsi dal ragionamento seguito dai giudici di merito, ha affermato il seguente principio di diritto «l'art. 23, comma 3, del CCNL personale dirigente settore Terziario 31.7.2013 va interpretato nel senso che il diritto del dipendente di ricevere il ristoro delle spese di difesa nell'ambito dei procedimenti penali sorge in caso di attinenza dei fatti all'esercizio delle ordinarie attività e funzioni proprie della posizione lavorativa dello stesso» ed ha concluso per il rigetto del ricorso.

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