Contenzioso

Pa, licenziamento per violazioni oltre il minimo etico anche senza affissione del codice disciplinare

di Angelina Turco

Applicabile anche al pubblico impiego il principio per cui le violazioni che superano i limiti del cosiddetto minimo etico per essere perseguite non necessitano della previa affissione del codice disciplinare.

La Corte di cassazione con sentenza del 7 novembre 2019, numero 28741, è stata chiamata a decidere sulla legittimità di un licenziamento disciplinare intimato da un Comune siciliano a un dipendente in pendenza di un giudizio penale per concorso esterno in associazione mafiosa, senza previa affissione del codice disciplinare.

La sentenza esordisce richiamando il più recente orientamento giurisprudenziale secondo cui «anche nel pubblico impiego contrattualizzato deve ritenersi, relativamente alle sanzioni disciplinari conservative (e non per le sole espulsive), che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare prevista dal Dlgs 150 del 2009, articolo 55, in quanto il dipendente pubblico, come quello del settore privato, ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta" (Cassazioni 25977/2017).

I supremi giudici continuano ricordando che la funzione dell'affissione del codice disciplinare non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare, ma quella «di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore» (Cassazione 3949/1989; Corte Costituzionale 204/1982).

Tale esigenza non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il minimo etico, proprio perché il lavoratore, in tali situazioni, non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere (principio reiteratamente affermato dalla giurisprudenza in tema di lavoro privato; tra le molte, Cassazione 13906/2013). In tal senso, continua la Corte di cassazione, è da intendere la previsione dell'articolo 55, comma 2, del Dlgs 165/2001, in tema di pubblico impiego.

Tale norma rimette sì alla contrattazione collettiva la determinazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, ma al contempo richiama l'articolo 2106 del codice civile e, di conseguenza, anche le norme generali cui esso rinvia. Secondo la Cassazione tale rinvio consente in ogni caso la persecuzione disciplinare dei fatti che esorbitano dal minimo etico, in quanto immediatamente percepibili come incompatibili rispetto al rapporto di pubblico impiego.

È indubbio, conclude la sentenza, che «un reato di stampo mafioso entri in contrasto con il predetto "minimo etico", e ciò tanto più per chi operi presso la pubblica amministrazione, il cui operato va salvaguardato al massimo (articolo 97 della Costituzione) dal rischio di interferenze esterne di interessi devianti, in sé contraddittorie rispetto all'obbligo di fedeltà: il che rende irrilevante ogni questione sulla previa affissione o meno del codice disciplinare».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©